Guardare il passato per interpretare il presente e per intravvedere il futuro. Dopo aver girato ore e ore di materiale in Uruguay tra l’87 e l’89, Kristina Konrad ha deciso solo l’anno scorso, con la collaborazione di René Frölke, di montare i 237 fluviali minuti che costituiscono Unas preguntas, straordinario film-saggio fra Storia, popolo, politica e dialettica presentato a Torino nel concorso internazionale di TFFdoc dopo i passaggi al Forum della Berlinale e a Parigi per Cinéma du Réel. E ha senza dubbio un effetto caleidoscopico e frammentato (ri)guardare oggi la mobilitazione popolare, dalle proteste di piazza al referendum, contro la legge che avrebbe di fatto garantito l’impunità ai criminali di guerra e di regime uruguagi, in un racconto corale su strada che ridefinisce un periodo drammatico e inspiegabile della Storia contemporanea. Una Storia che avrebbe inizio quasi mezzo secolo fa, quando la crisi del Paese considerato come la “Svizzera del Sudamerica” portò alle prime rivolte dei Tupamaros prima contro il governo di Areco, e poi contro quello del Colorado Bordaberry, che nel giugno del ’73 aveva nel frattempo guidato il colpo di Stato militare, in un episodio, in quella porzione di mondo sempre così tormentata e tormentosa, così drammaticamente simile a molti altri. La dittatura di Bordaberry non salvò certo l’economia – che anzi crollò ancor più rapidamente a causa delle nuove, ingentissime, spese per l’esercito – ma portò a una durissima repressione di tutti i rivoltosi e di coloro che non vedevano di buon occhio il regime. Nel ’76 un nuovo golpe portò al governo prima Demicheli e poi Méndez, mentre il clima nel Paese diventava sempre più cupo. Dopo aver respinto un referendum costituzionale, nel 1981 sale alla presidenza Alvarez, ma ormai il destino pare segnato: tre anni dopo, a seguito di uno sciopero generale di ventiquattr’ore, i poteri dello Stato uruguayano tornano finalmente ai civili e alla democrazia. Pareva essere giunto il tempo di una riconciliazione, ma restava ancora da scoprire cosa davvero fosse successo negli anni dell’oblio. Quando nell’86 il nuovo parlamento riuscì ad approvare una legge favorevole all’insabbiamento e all’amnistia, bastò poco tempo perché i parenti delle vittime (o desaarecidos) del regime riuscissero a raccogliere 600.000 firme per un referendum abrogativo. Ed è proprio da qui, da quei giorni di lotta e di discussione, che parte questo film.
Unas preguntas, una domanda, l’unica possibile, amplificata e sdoppiata forse all’infinito. Nelle quattro ore di documento che la Konrad ci dona si riflette su antropologia ed esistenzialismo, civiltà del consumo e deriva mediatica, ruolo della macchina da presa e necessità di uno sguardo. Il dispositivo è così semplice da apparire elementare: cinepresa U-Matic e registratore a nastro, nulla di più, nulla di superfluo. La stessa regista (coadiuvata da María Barhoum e Graciela Salsamendi) entra spesso nell’inquadratura con il microfono, avvicinando vari strati della civiltà uruguagia per chiedere loro cosa loro intendessero come pace. Al mercato come a una manifestazione, ai giardini come ai comizi, nel centro di Montevideo come nelle province circostanti; quello della Konrad è un pedinamento morale, una mappatura etica della narrazione di un paese con le spalle al muro, messo al cospetto della propria Storia. Quasi un atto socratico, un atto creativo e politico di conflitto verso una dialettica che andasse ben oltre al voto, ben al di là di cosa allora le urne potessero esprimere. Gialli erano coloro dalla parte della riconciliazione, quelli che volevano mantenere lo status quo anche per paura di un ritorno (quanto mai irrealista) della lotta armata; verdi erano quelli che cercavano verità e giustizia dietro la quinta di un regime degenerato, che per oltre dieci anni aveva lasciato un Paese sul baratro di un oscuro terrore continuo. Nel fiume di immagini e parole da decodificare si innestano spot elettorali e pubblicità trash, partite di pallone in cui (per contrappasso) si innesta – con didascalie in sovraimpressione – la stessa campagna subliminale sul referendum (ovviamente a favore di chi il potere lo teneva e non voleva nemmeno rischiare di perderlo). Il detournament (c’è qualcosa di debordiano in tutto questo) è completo, e lo spettro di azione si slabbra continuamente, da ritratto diventa vortice e poi caos. Ognuno possiede una propria verità, e ognuno fondamentalmente svia da quella domanda.
Ma quali furono, dunque, le risposte? Questo è il punto. Le risposte sono vaghe, pervase della fragilità di quel momento. Chi fu toccato in prima persona si espone anche emotivamente, chi ora cerca una (pseudo) tranquillità pare nascondersi dietro al microfono. Di sicuro quello che pare mancare è proprio la pace, una serenità che non si può trovare senza giustizia. C’è chi ancora vive nel fantasma dei Tupamaros e chi addirittura rimpiange l’ordine del regime, chi ancora non dorme per un brandello di verità e chi è più che mai convinto che solo con la riconciliazione (e dunque il necessario insabbiamento della memoria) l’Uruguay possa tornare prospero e felice. Ci sarebbero mille risposte possibili da elencare nella loro continua provvisorietà, ma con il fluire del film inizia a emergere altro, un rapporto profondissimo tra i giorni di ieri e quelli dell’oggi, uno spettro che ritorna ad aggirarsi inquieto nella realtà del ventunesimo secolo. La deriva di quell’impressione rappresenta la stessa impossibilità attuale del supporto, della riproducibilità, della dialettica. Mentre si avvicina il giorno del referendum il montaggio si fa più compatto e alternato, l’indeterminazione della prima parte lascia spazio a una polarizzazione che vede le due frange sfidarsi fino all’ultimo. Per la cronaca vinceranno i Gialli, i cattivi, quelli che per una falsa e utopica tranquillità lasciarono ancora per vent’anni l’oblio steso sul passato (sarà solo il vecchio leader tupamaro Mujica nel 2005, da Presidente, a iniziare a far chiarezza). Ma questo poco conta di fronte alle ore di nastro magnetico in cui ci sentiamo direttamente coinvolti ed esposti, parti in gioco (e in causa) dell’eterno ritorno. Un tempo che vive nella sua persistenza (a iniziare dalla forma, quasi materica, dell’indifferenza) ma che – basti pensare alla superficialità mediatica dell’oggi – non ha più strumenti di espressione. E su questo anche la riflessione, finale, del montaggio – di queste immagini perennemente in attesa di esser trattate, lavorate e viste – come struttura di riconversione del materiale che sopravvive alla sedimentazione di un’epoca, diventando ponte di nuovi strumenti di lettura per quella successiva. Nell’apparente naturalità di essere cinema più che mai diretto, questo Unas Preguntas ci dona la facoltà di essere problematizzato nella sua estrema complessità di traiettorie e confini, immaginari e devianze. Un’apparenza che si fa cinema proprio in quell’attimo, per poi scomparire e ritrovarsi oggi atto monolitico di interpretazione in cui è impossibile individuare le fratture tra passato e presente. A noi ripensarle al futuro.
Erik Negro