UNA QUESTIONE PRIVATA (2017), di Paolo e Vittorio Taviani
“Tu non devi sapere niente, solo che io ti amo. Io invece debbo sapere, solo se io ho la tua anima. Ti sto pensando, anche ora, anche in queste condizioni sto pensando a te. Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti.”
Beppe Fenoglio, Una questione privata
Ripensare (e dunque riguardare) qualsiasi frammento che possa in qualche modo coincidere con Beppe Fenoglio, per un’anima come può esser la mia, è quanto mai complesso, molto più complesso di quanto non possa sembrare il mero tentativo della stesura di questo pezzo. Anzitutto perché io, alle porte di questa Langa, fra queste colline che afferrano e squassano, ci sono nato e a loro sono radicato inesorabilmente, e poi perché la Resistenza (per gente cresciuta da questa parte più che da queste parti) ha un senso intimo e profondo di identità, molto prima di apparire come una specie di eredità da custodire. Ma la complessità è in realtà ancora maggiore, probabilmente perché la scrittura di Fenoglio spesso è stata uno strumento di lettura fondamentale nel misero tentativo di comprensione di questa terra assurda, e anche un’ancora di salvezza (o forse di disperazione, l’altro eguale versante della stessa collina) nei confronti del destino, che proprio qui talvolta fa il suo giro e pure il suo gioco. Lasciate queste premesse al caso, avventurarsi nel film che i fratelli Taviani hanno tratto da uno dei suoi romanzi cardine è cosa strana, una traiettoria scoscesa, un percorso forse improbabile. Loro non hanno girato nelle Langhe, non hanno riscritto battuta dopo battuta ciò che si legge nel libro, e non hanno fondamentalmente creato un percorso storico attraverso l’esperienza partigiana; eppure hanno colto ciò che probabilmente colpì Fenoglio più di tutto, in quei giorni lasciata Alba, ovvero la sospensione, la provvisorietà di un amore ai tempi di una guerra, l’affrontare spazi infiniti in tempi quanto mai incerti. La prima straordinarietà di Una questione privata sta infatti nel titolo, riduzione poetica e ampliamento esistenziale di una necessità, e ora retrovisione possibile di un punto di vista che diventa costantemente (e terribilmente) privato e soggettivo. Nella segreta, neanche tanto, convinzione che questo film possa aver fatto storcere il naso a molti (da coloro che si aspettavano una visione integralista della Resistenza agli ortodossi della verosimiglianza, da quelli che attendavano un film di guerra ad altri fenogliani) mi son sentito quasi in dovere di sottolinearne una visione, o almeno un’emozione. Ma appunto, anche questa, è una questione assai privata.
“La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba. Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo”. Milton avrebbe così iniziato la sua odissea, non dissimile da quella di Johnny o dello stesso Beppe, nel cuore della Langa, in attesa di una risposta e di una sicurezza sul suo cuore e sul futuro. Giorgio (l’amico d’infanzia) è in pericolo e con lui la sua verità, quella dei pomeriggi con Fulvia, delle notti in cui tardavano; per salvarlo rischierà la vita, non avendo in cambio nemmeno un pugno di mosche, un groppo di disperazione. Quelle colline che parevano un oceano disperso, quella villa ora in mano ai tedeschi, un’ultima fuga, la spensieratezza di un sentimento violata nel passato ed impossibile nel futuro. E il presente? Si potrebbe sintetizzare così, l’opera impossibile di Fenoglio, o forse ridurla ancora a qualche ideogramma sparso, drammatico e romantico, nella balia della tensione che pulsa come l’esistenza a contatto del grilletto di un fucile. L’innocenza del badogliano, letterato e anglofono Milton (uno straordinario, ma ormai ci siamo abituati, Luca Marinelli) distrutto dalla gelosia, in un continuo senso di precarietà tra gelo e pioggia, tra nebbia fitta come il latte e centinaia di sigarette buttate a metà. L’incubo della guerra civile è alle porte, la disperazione procede verso l’espressione di un sentimento, e Somewhere over the Rainbow diventa sinestesia continua della primavera di una giovinezza oramai battuta e naufragata nel dolore, in ogni erranza, in ogni pozza di fango, in ogni cresta da camminare. La realtà si disperde, ormai invisibile e priva di ogni ragione e razionalità, i dialoghi trasposti nella prima parte si slabbrano meravigliosamente nella seconda, l’epica diventa distorsione continua e allucinata, quasi espressione di una soggettiva abbozzata e trasandata in cui Milton stesso scivola tra il destino degli eventi, quelli altrui prima dei propri. Nulla sarà mai finito realmente, né la cronaca di una guerra, né tanto meno quella di un amore. Tutto però in un momento pare inutile, nemmeno il ponte minato ha voglia di esplodere, nemmeno lui può dare giustizia al delirio di Milton; non resta dunque che correre fino all’infinito, percorrere tutto l’universo, il mondo, o forse solo la Langa per ritrovarsi lì. Esserci o esserci stati? “Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio e della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò”.
«Fu il più solitario di tutti che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se l’aspettava, Beppe Fenoglio. Arrivò a scriverlo e nemmeno a finirlo, e morì prima di vederlo pubblicato nel pieno dei quarant’anni. Il libro che la nostra generazione voleva fare adesso c’è, e il nostro lavoro ha un coronamento, un senso, e solo ora, grazie a Fenoglio, possiamo dire che una stagione è compiuta, solo ora siamo certi che è veramente esistita […]. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in cui ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro, e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perché». Così Italo Calvino rivisita Fenoglio, guarda al suo libro impossibile, a quella sua opera assurda; e proprio su queste righe paiono soffermarsi i Taviani. Ci sono apparenti errori (a partire dall’artigianalità degli effetti speciali) e imperfezioni (basti pensare all’incontro tra Milton e Fulvia ai tempi dell’armistizio). Ma ci sono anche uccelli che cantano nel bel mezzo dell’autunno e pietre contrassegnate dai simboli dei sentieri CAI. Ci sono batteristi repubblichini imprigionati in avamposti partigiani nel bel mezzo di una pietraia di alta montagna (la Val Maira) e famiglie sterminate frontalmente davanti all’uscio di casa, con una bimba rimasta viva che torna alla luce con un bicchiere d’acqua. Tutto questo non c’era e/o non è successo nella Langa di Fenoglio durante la Resistenza, eppure qui respira, espandendo a dismisura la narrazione, i confini e le suggestioni, disseminando le figure nel paesaggio. I Taviani ci donano un film splendido, sospeso e terminale, che trae lezione dall’ultimo sublime Olmi (qui in veste di produttore con Ipotesi Cinema) mentre guarda alla guerra con incanto terribilmente umano (che differenza può esserci, del resto, dagli altopiani di Ungaretti?).
Una questione privata è un’opera misteriosa, magnetica e affascinante nella sua completa assurdità di un’in-verosimiglianza che riassume l’essenza più intima dell’esperienza morale e narrativa di Fenoglio, che vive su uno straniamento umanista continuo e folgorante, che lotta abbracciando ambienti usciti dal romanticismo inglese. Il ricordo spezza la scena, squarcia il corso degli eventi come una lettera abbozzata, può sedimentare nella vita di una lei o di un lui che si tengon la mano per salire su un albero a guardare l’orizzonte di pace, e aspettano i passi per dichiararsi. Il coraggio del partigiano muto che abbraccia i genitori nei portici di una simil-Alba e la dissolvenza che dal volto di Giorgio vicino alla morte in controluce ci fa apparire quello dello stesso Milton nell’accettazione che non possa esistere una verità. Una ragazza gravida che sotto il rombo dei bombardieri si chiede quando finirà. Un inverno, un ultimo inverno, il più freddo e il più duro. Segni e simboli, nelle nebbie e nei boschi, traiettorie e metafore continue che raggruppano il senso più intimo della fisicità sensibile, in uno stato di continua ricerca dell’etereo, perdendo continuamente il fuoco sulla storia. Milton corre verso la sua dissolvenza a bianco del destino, incompiuto nel romanzo come nel film, mezzo vivo e mezzo morto, senza senso e senza senno, come se qualcuno potesse ancora pensare a una possibile differenza tra i due stati. L’ultimo lavoro e testamento dei Taviani (il solo Paolo accreditato alla regia, per i problemi di salute di Vittorio) è, per chi scrive, assolutamente necessario, un altro degli ultimi film del mondo che guarda inesorabilmente al futuro restando legato a un passato così denso, e così drammaticamente vicino. Lotta contro coloro che già lo detestavano a priori, contro chi pensa a un assolutismo realista di tanto cinema italiano a venire (e già venuto, assai male), e soprattutto punta al restituire la stessa esperienza della Resistenza, senza per forza educare alla sua Storia, quasi come se fosse ancora una specie di fantasma (dalla parte di chi dovrebbe divulgarla). In questo film vive la speranza di una dialettica continua, di ciò che rimane nonostante tutto ciò che si perde, della lotta di un individuo contro il destino anzitutto, qualsiasi esso sia. In un’intervista concessami pochi anni fa, un partigiano della zona concluse la parata dei sui ricordi affermando che la Resistenza fu sostanzialmente un enorme atto d’amore. Come quella frase con cui si apre questa specie di articolo; la più bella frase d’amore che abbia mai letto, in mezzo alla guerra. Il compimento di una stagione in un’altra stagione che tanta paura potrebbe farci. Con amore, con tutto l’amore del mondo, perso e poi ritrovato. Resistere, qui e ora, è solo il non cessare di pensare a «loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi a un tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi» (Calamandrei).
Erik Negro