C’era una volta l’avanguardia, ovvero coloro che nell’espressione del mezzo cinema non cercavano una narrazione o una semplice rappresentazione di ciò che era verificabile nel reale, ma che proprio da esso partivano per reinventarlo e farlo proprio, ristrutturarlo attraverso la visione pura e libera dei paesaggi che attraversavano. L’immagine in movimento, dalla sua nascita, ha convissuto con questa strada obliqua, e questa stessa strada è stata fondamentale come e più di quella puramente narrativa per lo sviluppo libero dello strumento come del mezzo, del linguaggio come dell’indagine che il cinema stesso può fare. Ora questo percorso pare inevitabilmente interrotto e prosciugato, quasi invisibile nella marea della conversione e nelle infinite possibilità di girare. Vedere oggi un film di Patrick Bokanowski, pioniere visionario e inafferrabile di una certa animazione sperimentale che postula le proprie radici nell’avanguardia più radicale, rappresenta un momento di libertà e intimità che va ben oltre lo stesso atto della proiezione. Pochi giorni fa, fra i Deep Focus dell’International Film Festival Rotterdam, è stato presentato alla kermesse olandese Un rêve solaire, il secondo lungometraggio di finzione del francese dopo lo splendido L’Ange, arrivato a Cannes nel 1982 e troppo spesso dimenticato, che in un certo senso ripercorre tutto il suo percorso da artista e autore, solitario e sognatore, profondamente unico.
Un rêve solaire è prima di tutto un’immersione nel buio nell’accezione più platonica possibile dell’origine di un’immagine; è un buio che avvolge lo schermo e attraversa la nudità del nostro sguardo. In quel regno delle ombre indefinito i primi spiragli di luce segnano la trasfigurazione impressionata della realtà, in cui l’unico effetto speciale diventa la profondità della nostra suggestione. Il sole che trafigge la spiaggia, i fuochi d’artificio che abbagliano la notte, le fiamme che contornano una macchia solare, i fari di un teatro e infine la luce accecante di un proiettore che inonda la macchina da presa. È Bokanowski stesso a scoprire e inventare le regole del gioco, a cercare e creare attrazione tra le proprie immagini disegnate, trattate, quasi scolpite, straordinariamente plastiche e materiche. È un viaggio all’apparenza infinito nella continua dispersione di una logica possibile, sottolineato dalle splendide musiche concrete e incantevoli della moglie Michelle, che disegnano queste figure e forme in uno spazio indefinito.
Tra il surrealismo e la poesia più pura, il cinema di Bokanowski si conferma di una limpidezza accecante, capace di evocare mondi immaginari e fantastici come di scavare nel profondo della nostra percezione, a uno a uno. Al di là della figurazione formale, delle continue sovrapposizioni, del lirismo più sfrenato, Un rêve solaire ha la capacità di trasportarci nella magia del reinventare un visibile sempre più astenico e corrotto. In fondo è solo il ricordo a essere chiamato a noi, l’infinita distesa di memorie che galleggiano nell’oblio attendendo un invocazione della luce, una lotta ipnotica che possa ancora permetterci di vedere. E in tutto ciò è ancora più straordinario pensare alla sensibilità e alla flagranza di questi maestri che, giunti al termine della propria carriera, sono ancora in trincea a illuminarci con la loro libertà. Probabilmente la vera avanguardia è ancora la loro, di quelli che l’hanno creata, affermata e difesa al di là di qualsiasi pretesa accademica e affermazione museale, segno di tempi che cambiano, di spazi sempre più aridi e quindi di sguardi da preservare sotto il sogno del sole.
Erik Negro