UN FILM DRAMATIQUE (2019), di Eric Baudelaire
Basterebbero quasi i magnifici titoli di testa, dove il nome del regista Eric Baudelaire appare come uno dei tanti nella schermata in cui tutti, grandi e piccoli, interpreti e tecnici, sono allo stesso livello in un lavoro orgogliosamente collettivo, di gruppo, comune e condiviso. Libero e senza ruoli, senza gerarchie, senza alcun tipo di gabbia. Il dispositivo cinema di Baudelaire, del resto, è da sempre un qualcosa in continua evoluzione, in costante mutamento e in eterno movimento. Oramai otto anni fa l’esordio sconvolgente di L’anabase de May et Fusako Shigenobu, Masao Adachi et 27 années sans images, una riscrittura di voci lontane e distanti, (ri)filmate negli spazi costruiti oggi dal Super-8 e corroso di/dalla militanza non solo estetico-linguistica, con cui lasciar ricomparire le immagini mancanti. Due anni dopo con The Ugly One la struttura prende una forma più narrativa, sempre nel contatto tra passato e presente, memoria e terrorismo, Libano e Giappone; torna il fantasma di Adachi, che confonde gli incontri e li disperde. Letter to Max pare proprio partire da qui, dalla corrispondenza, dal rapporto (im)possibile tra l’ideale e la realtà, dove è sempre la Storia protagonista apparente nella sua ricostruzione (o decostruzione, se possibile). Infine l’ultimo Also known as Jihadi, in cui la continua declinazione del paesaggio in forma implicita e teorica trova la sua evoluzione attraverso un’altra retrovisione – l’ennesima, quella che da Marx si protende fino, ancora, allo stesso Adachi. Per arrivare a questo Un Film Dramatique presentato nella sezione Moving Ahead come perla fra più preziose del 72mo Locarno Film Festival per spiccare il volo e cominciare il suo meritato giro festivaliero dal DocLisboa fino a chissà dove, in cui la drammatizzazione corrisponde all’atto creativo che porta alla rappresentazione, con il quale Baudelaire torna a fondere teoria e pratica nella libertà di un atto filmico che nega quasi la funzione autoriale per esaltare la purezza ingenua (e così profondissima) del gesto.
Quattro anni di dispersioni e riprese, quattro anni di riunioni e di ciak con la macchina da presa che passa di mano ma mai perde il suo infantile candore, quattro anni di messinscene, riflessioni e backstage con 20 alunni di una media nei pressi di Saint-Denis, alla periferia di Parigi. Un’oasi di spontaneità che Baudelaire mai si sogna di restringere: a lui – insieme a Claire Atherton già montatrice di Chantal Akerman – resterà solo (?) il tentativo di dare una forma al tutto. Corrono i bimbi in attesa di diventare ragazzi, continuamente dentro e fuori la scuola, come se la classe fosse solo in campo di un controcampo infinito con cui presto saranno obbligati a confrontarsi. Si viaggia e si sta fermi, si osserva e si discute; con il fluire del film entriamo pian piano in contatto con queste anime in divenire, mentre inesorabili le bozze narrative (quelle proprie anche del film drammatico che si intuisce dal titolo) si slabbrano continuamente fino a rimanere solo semi del possibile. Come in una sorta di Wiseman con bambini, quello che emerge realmente sono i discorsi, (più o meno) consapevoli, dialettici e critici sulla società e sulla realtà tutta, sul sentirsi più o meno francesi o sul conservare le radici dei genitori: gli elementi di finzione vengono costruiti e distrutti, la messa in scena crolla davanti all’urgenza di ciò che li circonda. Si parla di razze e di futuro, dell’abitare uno spazio e della fuga. Si parla della percezione personale e della codifica universale. Si discute di cosa possa essere un film, delle sue declinazioni. Senza, forse, pensare che loro stessi un film lo stanno già facendo. Così, quando il film sta per finire, quei ragazzi senza nemmeno rendersene conto sono diventati grandi, non devono più fare i compiti davanti alla camera, ma devono raccontarsi prima di salutarsi e (ri)cominciare le proprie vite. Prendono tempo e fiato, si imbarazzano e si emozionano. Gli anni passano, senza che nessuno di noi possa accorgersene. Ed è lì che viene il difficile: il gioco del cinema diventa il gioco del crescere e dell’aprirsi al mondo.
Tra la rivoluzione culturale del “maestro ignorante” di Rancière e la lettera giovanile di Godard per fare il cinema assieme agli amici, questo piccolo gioiello di Eric Baudelaire ci insegna non tanto come guardiamo, ma il procedimento che attraverso la vista ci porta meglio a comprendere la realtà, a decodificarla, a classificarla. Per poi ruminarla continuamente per poterla restituire. La bellezza è che a fare ciò siano giovani forse nell’età più critica, in cui la scoperta del mondo esterno coincide con l’evoluzione interiore di uno spirito d’osservazione. La pratica di filmare diventa dunque condivisione, corrispondenza, atto sostanzialmente politico di comprensione e ristrutturazione di una realtà ormai troppo marcia per i nostri occhi, un viaggio minimale alla ricerca della domanda, come della bellezza di guardarsi e guardare (nello specchio dell’altro). Perché il cinema non può (e soprattutto non deve) essere un gioco per i grandi, perché è ancora lui stesso bimbo nell’idea possibile che sia esso stesso una continua infanzia (un po’ scanzonata e giocosa) dell’arte. Ed ecco allora che Un Film Dramatique, ma più in generale un qualsiasi film, può parlare di tutto ed essere tutto, anche solo e semplicemente un film. Drammatico e comico, purché sia collettivo ma che allo stesso tempo guardi verso l’unicità e la personalità di ogni singolo studente. Che emerge, nelle sterminate ore di girato, dalla profondità del lavoro di Baudelaire. Un lavoro fatto di frammenti e sedimentazioni, che costruiscono un ritratto sul tempo che modella corpi e anime, di attori che diventano soggetti con il passare delle stagioni. Un atto di libertà che continente spiragli di speranza, o almeno ne definisce la possibile utopia. E se non è un documentario e non è finzione, cosa può essere se non un film drammatico? «…Dimenticare e sapere / presto e lentamente / il mondo / in se stessi. pensare e parlare. Che strano gioco è la vita!». O no?
Erik Negro