UN COUPLE (2022), di Frederick Wiseman

Frederick Wiseman, finalmente celebrato come merita con l’Oscar e il Leone d’Oro alla monumentale carriera ricevuti negli ultimi anni, è un’istituzione del cinema documentaristico tout court: un entomologo che restituisce appieno l’illusione della “camera invisibile”, che penetra in consigli d’amministrazione e riunioni di collettivi, briefing che precedono gli spettacoli e consigli comunali, mai nascondendo il suo preciso punto di vista nei confronti della materia mostrata/narrata. La sua opera rappresenterà, in futuro, un corpus fondamentale per analizzare la società statunitense (e non solo, vedi i film sul Crazy Horse parigino e sulla National Gallery londinese) e le sue dinamiche cangianti e immutabili al contempo, uno sguardo democratico e progressista mai invelenitosi e mai davvero invecchiato, nonostante l’ormai veneranda età di 92 anni. Habitué della rassegna veneziana, dove era spesso arrivato  fuori concorso ma anche all’interno della competizione stessa con Ex Libris – New York Public Library qualche anno orsono, ci torna nel 2022 con un progetto all’apparenza anomalo, in realtà con dei precedenti (Seraphita’s Diary, La dernière lettre) nella sua sterminata filmografia. Un couple, coproduzione tra Usa e Francia interamente recitato nella lingua d’Oltralpe, ha, in apparenza, una sola protagonista, l’attrice francese Nathalie Boutefeu (performance notevole), che veste i panni ottocenteschi di Sofia Tolstoj, moglie, copista e amministratrice per il marito Lev, l’autore (tra gli altri) di Guerra e pace e Anna Karenina, uno dei più grandi scrittori dell’intera storia della letteratura. Viene declamato il complesso e doloroso carteggio intercorso tra i due, una delle storie d’amore sicuramente più “documentate” del XIX secolo, o, meglio, recitato con intonazione e trasporto, posizionandosi all’opposto dello spettro emotivo e stilistico rispetto a grandi “ripropositori” di letteratura in immagini come il sodalizio artistico formato da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Dove questi ultimi, per scelta politica prima ancora che stilistica, rinunciano a ogni tipo di orpello, Wiseman inscrive il suo film, col suo modo di procedere caratteristico e riconoscibile, montato con precisione ritmica e ben pianificata, all’interno del luogo naturale (un giardino, la Boulaye, in un paesaggio insulare della Bretagna) scelto come location.
Si parte dall’osservazione del contesto, da immagini fisse dove fiori, alberi, insetti, il vento e la forza del mare (quest’ultimi sottolineati da un sound design accurato, supervisionato dallo stesso regista) lo descrivono attraverso le sue parti. Wiseman inizia i suoi film sempre così, per farci entrare e per tracciare i confini, e quindi anche in questa opera “di finzione” non abbandona minimamente il proprio stile, sostituendo soltanto l’osservazione documentaria (qui impossibile) con la riproposizione delle lettere autografe. L’amore umano si sposa e compenetra, così, con la forza degli elementi, come se non vi fosse soluzione di continuità alcuna tra le due cose, il tutto espressione precipua e caratteristica degli abitanti di questo strano, contorto e meraviglioso pianeta. Sui motivi che lo hanno portato ad operare questa scelta per la sua nuova opera si può solo ipotizzare, ma siamo certi di non allontanarci troppo dal vero – del resto titolo e argomento potrebbero rappresentare un affettuoso omaggio postumo alla compagna di una vita, Zipporah Batshaw, scomparsa recentemente dopo sessantasei anni di matrimonio. Tutte le unioni lunghe, anche quelle più riuscite, attraversano momenti diversi, umori diversi, e nello svelare il vissuto di una coppia celebre si vuole sottolineare la complessità della convivenza, la necessità di ridefinizione del rapporto nel tempo e, last but not least, ridare tridimensionalità ad una figura come quella di Lev Tolstoj, svincolarlo dal santino del gigante della letteratura per conferirgli di nuovo una tridimensionalità di essere umano. Nelle parole di Sofia, dunque, Wiseman si (e ci) pone come ascoltatore, concedendo lo sfogo senza replica alcuna, come auspicandolo dalla donna amata e assente.

Sofia ci narra il suo smarrimento e il suo amore, il suo risentimento e il suo affetto verso un marito scostante e di genio, a cui ha dato tredici figli, posseduto da un’insaziabile voracità sessuale che lo portava ad accoppiarsi (e a mettere al mondo figli illegittimi mai riconosciuti) con un grande numero di popolane. È interessante notare che tra i seguaci del cosiddetto “tolstoismo” (dottrina intrisa di anarchismo, comunismo e cristianesimo che interpretava i testi dello scrittore in maniera dogmatica, osteggiata dagli zar e da Tolstoj stesso) Sofia fosse considerata una sciagura, un po’ come, cento anni più tardi, Yoko Ono venne e viene tuttora considerata dai “lennoniani”, quasi come se le imperfezioni e le delusioni non potessero venire ascritte al proprio “eroe” ma avessero bisogno di un vero e proprio capro espiatorio a cui riservare l’astio. Qui invece il proscenio è totalmente di Sofia che, seduta su un masso o davanti ad un focolare acceso, appoggiata a un albero e con le pesanti vesti mosse dal vento, racconta gli sfoghi di rabbia e le riconciliazioni, i travagli interiori e le urla vomitate, riecheggiando come eroina tragica uno dei personaggi più celebri della letteratura, russa e non solo, Anna Karenina, a sottolineare ancora una volta come ogni famiglia infelice lo sia in un modo sempre diverso, brodo di coltura per la drammaturgia dalla notte dei tempi. Fino a leggere e interpretare anche le risposte del marito Lev, Une couple in un solo volto e in una sola voce, in una sempre più totale identificazione fra la parola e l’ambiente, e quindi fra la letteratura e il documentario.
Singolare la scelta d’inserire questo piccolo progetto (poco più di un’ora di durata) all’interno del Concorso principale, quando la collocazione più adatta poteva sembrare quella fuori dalla competizione, ma che noi approviamo perché quest’ultima è quella con maggiore visibilità e una Mostra collegata alla Biennale d’Arte deve, o meglio dovrebbe, accogliere la forme cinematografiche più disparate, anche escludendo, per una volta, la narrativa. Vista l’ormai veneranda età, poi, ogni nuovo progetto di Wiseman è una gioia per critici e cinefili, e viene accolto come un regalo. Dopo avere, parlando solo degli ultimi anni, descritto minuziosamente la comunità di Monrovia, borgo dell’Indiana nell’America più profonda, o l’amministrazione illuminata della “sua” Boston e la gentrificazione selvaggia del quartiere di Jackson Heights a New York, questa volta dona voce ad una donna importante e qualunque, all’ennesimo dietro le quinte, operando un viaggio temporale nella Russia di due secoli fa. E, per un regista così profondamente statunitense, scegliere di portare in giro per il mondo una voce russa, di questi tempi, è tutto tranne che scontato.

Donato D’Elia