UN ALTRO GIORNO D’AMORE (2022), di Giulia D’Amato

Dovevo ancora compiere quattordici anni, al momento del G8 di Genova. Eppure, quel torrido 20 luglio del 2001 con il corpo di Carlo Giuliani riverso sull’asfalto, e forse ancor di più la notte successiva con il blitz alla scuola Diaz contro persone del tutto inermi, una parte di me sapeva già di avere perso prima ancora di avere avuto il reale tempo di dare un reale contributo. Ero poco più che un bambino ed era (già) cambiata la società, era (già) finito (quasi) tutto. È per questo che Un altro giorno d’amore, opera prima di Giulia D’Amato che già dal titolo-omaggio alla Banda Bassotti mi reimmerge direttamente negli anni intorno al liceo, è un film che mi tocca troppo direttamente per non passare alla generalmente odiata scrittura in prima persona. Perché va a smuovere uno per uno – manco fosse fatto apposta – quasi tutti i miei nervi più scoperti. Scava nei miei stessi traumi, nei miei stessi luoghi, nella mia stessa ferita adolescenziale mai del tutto rimarginata, nel mio stesso senso di sconfitta generazionale, nei miei stessi ideali, nei miei stessi interessi, per molti versi nel mio stesso vissuto, fra l’analogia e la condivisione a distanza. Con il quasi esatto controcampo perugino della mia passione per il Genoa, con la medesima centralità del cinema nel percorso di vita e nel modo di ragionare, con molto simili convinzioni politiche di chiara ispirazione marxista, con la stessa vicinanza e condivisione con le altre tifoserie amiche e gemellate, e con pari consapevolezza delle tante sfaccettature straordinarie in ambito sociale del movimento Ultras, che ben al di là di qualche scontro e marachella è sempre stato generosissimo e in prima linea in caso di alluvioni, terremoti e raccolte fondi di beneficienza. Ma anche con il suo consapevole lambire la “mia” Gradinata Nord rossoblù, dal Grifo al Grifone, Un altro giorno d’amore è un film che mi avvicina personalmente, nell’intervista a un persona amica – Mariapia Merzagora, ma ammetto di faticare a non chiamarla anche qui semplicemente e con affetto “la Pia” – che conosco e frequento da tempo immemore in tanti momenti dentro e fuori dagli stadi (meraviglioso il malcelato disgusto con cui pronuncia il nome dell’ormai ex proprietario Enrico Preziosi, contrapposto ai momenti di relax nel glorioso Circolo Bianchini di Rifondazione Comunista), e soprattutto nel suo ricordo di chi invece ho fatto in tempo a conoscere appena di sfuggita, e invece negli anni di (non) assenza è riuscito a diventare un amico fraterno mai realmente andato via, per il quale sono orgoglioso di aver più volte portato lo striscione Ciao Edo sul campo del Ferraris. Ma forse il principale motivo delle mie copiose, pubbliche e per nulla dissimulate lacrime di Pesaro, dove il film prodotto da Gianluca Arcopinto e realizzato con vari contributi tecnici del Cinema Postmodernissimo di Perugia è stato presentato in anteprima fuori concorso nella mia totale incapacità di riprendermi dall’inaspettata batosta emotiva, sono stati soprattutto i video della mia città devastata durante quei giorni del 2001, in cui non fatico a riconoscere e piangere ancora ogni singolo anfratto inquadrato nell’archivio, centrali come il punto di non ritorno di una partecipazione politica rimasta uccisa con i proiettili di Piazza Alimonda, con le camionette blu a sbandare per cercare di investire manifestanti pacifici, con le ripetute cariche ai cortei, con le molotov fabbricate dai militari per coprire o tentare di giustificare i massacri. Immagini che, a oltre vent’anni dal G8 e nella ormai evidente ripresa dei sibilare più destrorsi di chi ha evidentemente poca memoria, è ridiventato necessario e urgente raccogliere e mostrare per come sono, senza censure né fuoricampo, compreso il dolorosissimo momento della morte di Carlo e l’ultima foto che lo ritrae ancora in vita in Corso Gastaldi. Una straordinaria rivincita politica del cinema amatoriale, che con i suoi inequivocabili filmati degli abusi di polizia si è rivelato l’unico grave “errore di valutazione” della repressione governativa del tempo, la prova delle verità pronte a emergere in un mare di tentate menzogne, la dimostrazione inconfutabile della più grave sospensione dei diritti umani mai attuata in tempo di pace in uno Stato democratico.

Da Indymedia ai telegiornali, dalle videocamere in strada a quelle dai palazzi, fra teste spaccate e manganellate gratuite, fra inseguimenti e lacrimogeni, fra le minacce e i veri e propri agguati di una guerriglia, Giulia D’Amato recupera ogni abuso in divisa disponibile e, in un accurato evitare il rischio di pornografia, sceglie intelligentemente di trasformarlo in un sostanziale trenino di capodanno delle più efferate violenze, presentandolo accompagnato dall’amara ironia di una colonna sonora del tutto nonsense, che affianca alle splendide cover fra il synth pop e l’oi! de L’amour Toujours e Dragostea Din Tei realizzate da Frontemare e Kimerica i grandi classici kitsch AEIOUY, Meu amigo Charlie Brown e le sambe brasiliane. Una scelta musicale figlia della consapevolezza che il G8 è stato solo l’inizio, una prova generale, una prima e decisiva rappresaglia di Stato con cui silenziare buona parte delle voci contro del presente e del futuro, e cambiare il più possibile la mentalità azzerando sempre più la voglia di manifestare degli altri. Tanto che è di dieci anni dopo, il 15 ottobre 2011 degli scontri romani di Piazza San Giovanni, il momento dell’arresto del teramano Davide Rosci. Un detenuto «fortunato perché politico», entrato non per mettersi qualcosa in tasca ma per il bene comune, e trattato di conseguenza sia dai reclusi sia dalle guardie. Eppure «il carcere è la più inutile delle istituzioni», dice con convinzione, «è solo la migliore università del crimine». Di certo il momento più buio per un Ultras e militante di sinistra a cui nessuno è mai riuscito a togliere il sogno di cambiare «questo fottuto mondo di merda che è sempre un carcere, ogni tanto di cemento e gli altri giorni a cielo aperto». Un uomo sostenuto durante la reclusione dai lampi di luce di quasi milletrecento lettere da tutta Italia, e sempre conscio di come si fossero formati gruppi di semplici concittadini a sostenere, anche economicamente, lui e soprattutto la madre rimasta sola. È per questo che, per quanto Un altro giorno d’amore parta dai messaggi sul telefonino di Selvaggia, insicura alter ego adolescente della regista che vuole salvare l’amato del tempo da un agguato Ultras in una cornice di finzione necessaria per simboleggiare il percorso interiore fra dubbi e consapevolezze, eppure forse l’unica parte non del tutto convincente del film, è proprio il found footage in handycam della partenza degli Ingrifati per Genova 2001 il primo filo conduttore fra i tanti filoni (gli Ultras del Perugia, l’attivismo politico, gli archivi dei vecchi scontri di piazza al G8 e poi a Roma, i viaggi di oggi verso Teramo e Genova per gli incontri e gli anniversari, le tre interviste realizzate dalla regista, la messa in scena di chi cerca di fare ordine in tutto questo e nella propria vita) che si alternano nell’arco del film di Giulia D’Amato. Il momento in cui la Curva e la militanza sono ufficialmente diventati una cosa sola, e al contempo il canto del cigno di una reale partecipazione collettiva e popolare, schiacciata dalla repressione di Stato, dalla paura, dallo sconforto, da una destra sempre più estrema mentre la Sinistra, (nemmeno troppo) poco per volta, ha semplicemente smesso di esistere. Ma anche un momento a metà fra il sollievo e il rimpianto per chi non c’era, come Giulia e la sua famiglia che ancora adesso non sa perché alla fine avesse deciso di non partire per le manifestazioni. Con la consapevolezza che dopo il G8 del 2001 è stato lo proprio stadio il nuovo laboratorio e prova generale di repressione, ma di conseguenza proprio dagli stadi sono nati i nuovi laboratori di ribellione. Il resto è la storia, vera, di una ragazza inizialmente non interessata al calcio, e tanto meno alla Curva, ma che proprio nella Nord del Curi e nei gruppi scoprirà l’appartenenza, l’emozionarsi insieme, la reciproca solidarietà. Un nuovo modo, un po’ popolare e un po’ parareligioso, di fare militanza politica, presenza sul territorio, generoso sostegno e partecipazione sociale, così differente eppure così simile dall’esempio casalingo della militanza extraparlamentare in tanti anni di Lotta Continua che emerge dall’intervista della regista al padre Raffaele D’Amato. Modalità portate avanti anche attraverso le amicizie e i contatti degli Ingrifati perugini con le altre tifoserie, i teramani e (no)i genoani, anche attraverso le loro strade di supporto umano durante i sei anni e mezzo passati in carcere da Davide e attraverso la solidarietà più volte dimostrata verso “la Pia” (o meglio, Mariapia, cerchiamo di rimanere il più possibile professionali fino alla fine), che ha perso un figlio di ventidue anni, Edo Parodi, pochi mesi dopo il suo storico amico Carlo Giuliani e in circostanze forse meno violente ma per molti versi analoghe, prontamente insabbiate dalle autorità elvetiche intervenute con la forza alla manifestazione di Zurigo. Tutte ramificazioni di un film che è un vero e proprio atto politico, un vero e proprio atto di Fede e di appartenenza (militante, calcistica e di tutto il bello che ci sta intorno), un vero e proprio atto d’amore verso i compagni di lotta e ciò in cui credono. Un lavoro duro, potente e umanissimo, fortemente amaro e disilluso eppure ancora capace di credere in un mondo diverso e migliore, ancora consapevole della necessità di non smettere mai di lottare, di gettare il cuore oltre l’ostacolo, o per lo meno oltre il tornello. Per alzare ancora una volta un coro, una pinta, una bandiera, e non smettere mai di camminare insieme. Nessuno rimarrà mai solo.

Marco Romagna