U – JULY 22 (2018), di Erik Poppe

Ci sono volte in cui la realtà supera ampiamente non solo la finzione, ma anche l’immaginazione, l’incubo, l’orrore. Nessuno nel 2011, nella tranquilla Norvegia dei fiordi e degli isolotti, si sarebbe mai aspettato un attacco terroristico, tanto meno un attentato terroristico interno, di matrice politica, perpetrato da quell’estrema destra che sempre più sta riprendendo piede in giro per l’Europa e il mondo. Su come si siano svolti i fatti non c’è mai stato alcun dubbio: è stata la mano nazifascista di Anders Behring Breivik, attualmente detenuto per i (soli) 21 anni che in Norvegia costituiscono la massima pena, quella che nel primo pomeriggio del 22 luglio 2011 ha piazzato un’autobomba sotto i palazzi governativi di Oslo per poi spostarsi armata fino ai denti fino a Utøya, isolotto nel bel mezzo del lago Tyrifjorden nel quale il Partito Laburista da sempre organizza campi estivi per i ragazzi dai 10 ai 20 anni, e fare fuoco uccidendo 69 giovani e ferendone 110. Quello di Breivik, come stabilito dal tribunale, non è stato un momento di follia, ma è stato un doppio attentato pianificato nei dettagli, frutto di veri e propri addestramenti sui videogiochi sparatutto e figlio di “ideali” nazisti e xenofobi secondo i quali Breivik avrebbe agito per punire il Partito “reo” di non chiudere a sufficienza le porte del Paese ai migranti. Il massacro di Utøya è stato l’atto più violento che la Norvegia ricordi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ed è ancora oggi, a pochi anni di distanza, il trauma di un’intera generazione e forse di un intero Paese, un qualcosa di inconcepibile, un qualcosa sul quale ragionare profondamente, e quindi un qualcosa che mettere in scena era necessario e assolutamente urgente ma al contempo molto delicato, con il rischio di scivolare nella retorica spicciola o, molto peggio, in una pornografica spettacolarizzazione del raid omicida. L’onere e onore di raccontare la pagina più buia della storia non solo recente norvegese è toccato al navigato Erik Poppe, chiamato a interrogarsi non tanto sul “cosa” mettere in scena, ma sul “come” metterlo in scena, sul linguaggio, sullo sguardo, sul punto di vista. Il suo Utøya 22. juli, in concorso alle Berlinale con il titolo internazionale U – July 22 e, memori dei tanti Orsi “politici” assegnati negli ultimi anni da Jafar Panahi a Gianfranco Rosi, serio candidato al premio principale, compie in questo senso una scelta radicale ed eticamente granitica, relegando la figura dell’omicida Breivik a un’ombra che appare una sola volta in cima a una scogliera, e concentrandosi invece sui 72 minuti vissuti dai ragazzi sotto assedio, sul loro comprensibile terrore, sulle loro continue fughe, sui loro traumi quando non si trova una persona amata, quando si sentono gli spari senza capire da dove provengano, o quando qualcuno muore fra le tue braccia.

Prima di tutto, alla base della notevole e tecnicamente impeccabile messa in scena di U – July 22, ci sono le unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione. Poppe affida il breve prologo della bomba esplosa a Oslo al found footage delle videocamere di sorveglianza, alla realtà “vera”, decidendo di ricostruire e girare solo il massacro di Utøya in un unico (e, va detto, tecnicamente straordinario) pianosequenza, flusso costante di emozioni e di devastazione, vero spazio e vero tempo della strage, nel quale rimane letteralmente incollato alla sua protagonista, figura di finzione innestata dove la realtà supera il videogioco. È forse l’unica scelta di regia possibile, l’unica in grado di restituire nella sua assenza di stacchi tutta la veridicità e tutto lo strazio di quei 72 minuti di terrore, più i pochi spensierati minuti che hanno preceduto l’attacco, eppure è una scelta di difficoltà estrema nella sua realizzazione, che richiede una scrittura calibrata al millesimo, una perfetta organizzazione del set fra chi entra e chi esce dal quadro, e chissà quante prove prima di poter girare. Sia ben chiaro, non tutto convince appieno in U – July 22, che soffre della discontinuità di qualche dialogo, che alterna picchi emotivi a cadute stilistiche e narrative – su tutte il mettersi a cantare di Kaja mentre la vicinanza di un killer alla ricerca di vittime imporrebbe il silenzio – e sul quale viene spontaneo esprimere qualche perplessità sulle sovrastrutture di finzione innestate nella ricostruzione dell’attacco, dalla relativa utilità della sorella da ritrovare alla circolarità un po’ forzata del finale che, al di là di un mero espediente narrativo, nulla aggiunge alle riflessioni politiche e teoriche sull’e(ste)tica della messa in scena. Ma, ben al di là di ogni possibile riserva, il film di Erik Poppe è un manuale di sincronizzazione fra gli attori, l’operatore di macchina, il focus puller e i fonici che riescono miracolosamente a registrare, correndo su superfici estremamente rumorose come un bosco, una spiaggia o addirittura nello sciabordio delle onde del lago, il suono di ogni passo, di ogni sussurro e di ogni respiro affannoso dei protagonisti senza che mai ci sia un qualcosa di fuori posto, senza che mai si sentano i passi della troupe, senza che mai ci sia un qualcosa di non perfettamente coerente con le immagini. Tanto che, più o meno a metà film, interviene anche la fortuna, perché la fortuna, si sa, aiuta gli audaci. Al termine della sequenza emotivamente più forte, una zanzara ovviamente impossibile da addestrare si posa sul braccio di Kaja. La macchina da presa va a prendersi l’insetto e la sua puntura, improvvisa come è necessaria una parte di improvvisazione ogni volta che si usa una macchina a mano, e innesta così, senza averlo pianificato, una scatola cinese a suo modo metacinematografica di realtà che rientra in quella finzione che è rappresentazione di un’altra realtà.

La macchina da presa di Erik Poppe, nel suo rimanere accanto a Kaja (un’esordiente Andrea Berntzen assolutamente strepitosa nel rimanere in scena per quasi 90 minuti cambiando in continuazione stato d’animo fra il riso e il pianto, fra la paura e la preoccupazione, fra il trauma e l’indecisione), è a tratti un vero e proprio personaggio, che corre e si getta a terra insieme ai protagonisti, che con loro si infila nelle tende e nelle insenature, che con loro scende a perdifiato i sentieri più ripidi dal bosco fino alla spiaggia, e che come loro continuamente alza la testa, si guarda intorno cercando chi sta sparando, oppure un qualche volto noto che più di tutto si vorrebbe sapere ancora vivo. Inizialmente è un’inquadratura sul campeggio, e poi entra in scena Kaja, che subito, nell’unico sguardo in macchina di tutto il film, sembra quasi rivolgersi al pubblico nel suo riflettere sull’esplosione – non ancora definibile e certa come attentato – avvenuta a Oslo un paio d’ore prima: «Voi non potete capire, dovete seguirmi». Ma è solo un istante fugace, un momento di immediata complicità e identificazione con il pubblico, una subliminale mano tesa, dopo la quale Kaja farà un passo indietro svelando di essere al telefono con la madre, si girerà e continuerà a camminare come se nulla fosse, come se la macchina da presa non esistesse (più). Solo in questo momento può cominciare davvero la finzione, con la soggettiva dell’occhiata in macchina che diventa oggettiva, e con lo sguardo di Kaja, quello sguardo che non incrocerà più l’obiettivo, che diventerà quello scelto da Erik Poppe per tornare sul massacro, quello accanto al quale rimanere per tutti i 72 minuti, fino alla fine, nella lotta contro il tempo e contro la paura, negli incontri e nelle disperate telefonate a un’impotente madre, nelle lacrime e nella (che sia realmente utile o meno) ricerca della sorella Emilie come necessità che inevitabilmente viene e passa di mente a seconda dell’adrenalina, a seconda della vicinanza dei proiettili, a seconda dell’intensità degli spari. Quello di Kaja, e quindi quello scelto dal regista, è uno sguardo necessariamente parziale, finito. È lo sguardo di chi si ritrova immerso in un qualcosa che non capisce, che non riesce a concepire, del quale non riesce a trovare un senso e nemmeno una verità. Kaja non può avere una visione d’insieme, non può sapere che a sparare è una sola persona così come non può nemmeno lontanamente immaginarne le (folli) motivazioni. Sa solo di essere sotto tiro, in costante pericolo, alla ricerca di una sorella che nel marasma non riesce più a trovare mentre intorno a lei i suoi coetanei vengono colpiti, soffrono, muoiono.

Quello che conta, in U – July 22, è l’immersione totale, è la paura, è lo strazio quando una sconosciuta finisce per spirare fra le braccia di Kaja, e sono i sensi di colpa, ingiustificati ma inevitabili, che nascono quando si rivede quel bambino scioccato che si è cercato di salvare riverso a terra privo di vita. La scelta di Erik Poppe è in un certo senso uguale e opposta a quella del Gus Van Sant di Elephant, termine di paragone che non si può non tenere in considerazione quando si mette in scena una strage di massa. Se infatti il regista norvegese radicalizza i pianisequenza di Van Sant in un unico flusso ininterrotto, è totalmente differente la costruzione dello sguardo, che in Elephant teneva al centro anche (e forse soprattutto) i due assassini, e invece qui non abbandona mai Kaja, seguendola nei suoi litigi con Emilie e nella grigliata con gli amici, e poi per quei maledetti 72 minuti dell’attacco ricostruito in tempo reale come una spirale di terrore, morte, inconcepibilità dell’orrore. Un qualcosa di per sé già talmente forte che, come già anticipato, probabilmente sarebbe stato sufficiente da solo, senza la necessità narrativa di una sorella da ritrovare, e soprattutto senza la circolarità meccanica del finale, nel quale proprio alla fine dell’attacco, quando sta arrivando il gommone di soccorso con il quale trovare la salvezza, l’ultima pallottola di Breivik colpisce proprio Kaja, costringendo la macchina da presa a un repentino cambio di sguardo su chi era di fronte a lei e l’ha vista morire per poi correre insieme verso l’imbarcazione. A bordo, immancabile e un po’ telefonata, spunta Emilie, viva e vegeta, impegnata ad aiutare un’altra persona ferita. È il paradosso finale, è la definitiva prova dell’insensatezza del gesto neonazista, è l’ultimo e definitivo chiudere gli occhi in una smorfia di dolore di fronte al destino sadico e crudele delle vittime, ma è anche il momento, l’unico, in cui il film di Erik Poppe perde la speranza e sceglie la strada del cinismo. Ma forse anche questo, nell’interrogarsi su un qualcosa che va oltre l’immaginazione ma è realmente accaduto, era inevitabile, e di sicuro non può scalfire l’etica del pianosequenza e della parte delle vittime in cui Poppe rimane fino alla morte. Per lo meno a tratti, U – July 22 ha forza e la potenza di un’esperienza immersiva e devastante, fatta di strazianti apici emotivi e di una strabiliante perizia tecnica portata sullo schermo che è tutto fuorché vacua e fine a se stessa, ma è anzi fondamentale per creare linguaggio, poetica e politica. È l’unico modo per tornare sul luogo del delitto, facendo coincidere forma e contenuto e trovando un punto di sintesi fra etica, estetica e lingua filmica nei valori dell’antinazismo e dell’antifascismo. Il che, nella progressiva e forse inesorabile deriva reazionaria che di questi tempi sta prendendo più o meno tutto il mondo, e con ancora in fondo agli occhi l’orrore di Macerata e i forse ancor peggiori onori tributati fra carcere e strada all’assassino, è un qualcosa che non viene ricordato mai abbastanza.

Marco Romagna