TWIN PEAKS – STAGIONE 3 (Episodio 8) (2017), di David Lynch
«Your devils and your gods, all the living and the dead, and you’re really all alone?
You can live in this illusion, you can choose to believe
You keep looking but you can’t find the woods while you’re hiding in the trees
What if everything around you isn’t quite as it seems?
What if all the world you used to know is an elaborate dream?
And if you look at your reflection, is it all you want it to be?
What if you could look right through the cracks?
Would you find yourself afraid to see?»[Right where it belongs dei Nine Inch Nails, dall’album With Teeth (2005)]
Chiedo innanzitutto a chi legge quello che segue di perdonare i possibili, vaghi personalismi. Saranno pochi, prometto.
Nel 1989 venne girato il primo episodio di Twin Peaks, uno storico episodio pilota che fu un vero e proprio terremoto per la TV a livello internazionale. Nel 1990 fu trasmessa la prima stagione, che Lynch e Frost videro lentamente tramutarsi in un’inaspettata e sconvolgente rivoluzione mediatica: non s’era mai visto niente del genere. Tutti volevano seguire il mistero del morboso omicidio di Laura Palmer, in principio, e poi tutti si affezionarono ai personaggi della serie come ai personaggi delle soap operas che il progetto di base voleva prendere per i fondelli con classe. Oltre al giallo sull’omicidio di Laura, v’era un altro mistero, più profondo e complesso per gli spettatori e quindi forse meno interessante, ma probabilmente più sconquassante a livello sensoriale, legato a un universo onirico/metafisico in continua espansione, legato al più duro e puro surrealismo, che lasciò in ansia il pubblico a partire dalla prima apparizione televisiva del Man from Another Place interpretato dal nano Michael J. Anderson. La seconda stagione cominciò con la supervisione di Lynch, sempre più legato ad approfondire questo sottobosco paranormale e irreale, ma con la decisione del network ABC di svelare chi ha ucciso Laura Palmer è giunta anche una perdita di controllo da parte degli ideatori della serie, il che ha portato a una spirale di episodi in una lenta distruzione degli intenti generali; episodi in cui in realtà veniva approfondita la mitologia meno “reale” della serie, ma in maniera superficiale, più disinteressata – Lynch stesso è il primo a dire di odiare la seconda parte della seconda stagione, nonostante una ripresa conclusiva sceneggiata da Frost e diretta da Lynch, che virava la narrazione completamente nella direzione del grottesco e del visionario, con simbolismi sempre più duri da digerire e un finale aperto che non era però abbastanza per il pubblico e per il network. Lynch non sopportava che il progetto si concludesse così e cercò di programmare una trilogia di film, dei quali il primo prequel e il secondo e il terzo sequel, per continuare e finire il progetto Twin Peaks: è così che nasce Fuoco cammina con me, nel 1992, un prequel che non piacque a nessuno, né a Cannes né nelle sale, perché ormai non c’era più un pubblico definito per ciò che era legato alla serie e a Lynch in generale. Regnava la più totale delusione. E in questa delusione, il film fu snobbato dalla critica al punto che gli altri due non vennero realizzati. Dopo varie affermazioni da parte di Lynch e Frost sul fatto che il progetto fosse completamente morto, 25 anni dopo la fine della serie è stata annunciata la terza stagione, prodotta da Showtime, scritta interamente dai due e diretta dall’inizio alla fine dal regista di Strade Perdute (1992), forte dell’esperienza col digitale in INLAND EMPIRE (2006). Nel 2017, è cominciata la trasmissione di questa terza stagione, iniziata da un clamoroso errore del servizio di Sky Atlantic solo qui in Italia. Dopo una proiezione a Cannes dei primi due episodi della serie, montati come un film unico, Showtime ha messo gli episodi 3 e 4 sul proprio servizio streaming: anche solo da questi quattro primi episodi, si poteva percepire un nuovo sguardo sul futuro e sul presente, sul mondo. Lynch ha messo la cittadina di Twin Peaks, praticamente unica scenografia della serie originale, in sottofondo, dando molto più spazio a un approfondimento della mitologia spirituale dell’universo di Twin Peaks, visitando dunque altri stati, altre città, altri lidi, altre Americhe. Las Vegas e la sua periferia, in un plastico Nevada, sono diventati il centro della storia del protagonista Dale Cooper, nella sua grottesca lotta con il problema di rivivere una nuova infanzia, come in una rinascita junghiana, in un mondo noir forse troppo maturo e complesso per lui. Si è passati da una strana e lenta fluidità ritmica, attraverso la cittadina di Twin Peaks, a misteri violenti con teste decapitate e siparietti umoristici, e poi dal puro surrealismo alla tragedia umana.
Lynch è riuscito, insomma, a sorprendere tutti nuovamente, con un progetto artistico senza pari, imprevedibile, ambizioso, colmo di simboli atti a creare una nuova rivoluzione per il medium televisivo, a partire dal montaggio. Ma c’è molto altro, incluso quello che pare essere un riassunto di tutta la produzione di Lynch, tramutando la serie originale in una specie di cadavere che deve essere resuscitato tramite riti umanamente incomprensibili. Si sapeva sin dall’inizio che l’ottava puntata della stagione sarebbe stato un punto di non ritorno, una tappa definita e definitiva nel processo di maturazione all’interno del film – perché, sì, è sempre giusto ribadirlo, Twin Peaks – The Return è un fluviale film. Difatti sul sito di Showtime le “trame” delle puntate (perché più che sinossi vere e proprie sono citazioni ermetiche di frasi pronunciate all’interno dell’episodio) e le programmazioni ufficiali delle prime trasmissioni sul calendario del palinsesto del canale erano segnate fino all’ottava parte, con l’enigmatica domanda «Gotta light?». Ma nessuno, forse, si sarebbe potuto aspettare qualcosa del genere. La settima puntata, preceduta da ben tre episodi che arricchivano Twin Peaks più esteticamente che concettualmente, portava in sé innovazioni narrative che promettevano presta risoluzione. Quest’ottava puntata, però invece che continuare a muoversi sui binari dei filoni lasciati dalla parte precedente, costituisce più che altro un tassello importantissimo nell’universo cinematografico di un autore statunitense la cui complessità è troppo spesso messa in dubbio, passata per irrazionale, data per scontata. Potrebbe essere la cosa più estrema della sua ricca e emblematica filmografia, una decisione coraggiosissima che ci ricorda la lettura di Kubrick del mito di Icaro. Si stenta a credere che un oggetto bulimico come questo sia potuto essere trasmesso in prima serata in televisione negli USA. Questo sostanzialmente perché la ricerca delle origini della mitologia lynchana esce dall’idea di viaggio verso l’interno in maniera definitiva: ovviamente non si smette mai di giocare con l’onirico (non si può fare altro che ricordare quello che disse Phillip Jeffries, il personaggio interpretato da David Bowie, in Fuoco cammina con me: «we live inside a dream», “viviamo dentro un sogno”, l’universo della serie, in quanto appartenente a un maestoso e caratteristico micro-mondo di finzione, può replicare la lentezza e l’assurdità del sogno con i suoi vari piani di realtà e irrealtà); ma il surrealismo, in quanto meccanismo legato al realismo nel senso di suo superamento che non ne dimentica le regole e la logica, significa anche costituzione di una realtà superiore alla realtà, una sorta di immaginazione di idee che si rincorrono l’un l’altra per aprire la mente, il “terzo occhio” o “sesto chakra” attraverso il quale vedere, comprendere, intuire le entità che non fanno parte della percezione tradizionale.
Lynch, in quest’episodio, ha compiuto dunque un qualcosa di mastodontico: ha apparentemente interrotto il racconto dopo un suo climax emotivo, apparentemente rivelatore da un punto di vista tanto narrativo quanto tematico, per entrare nei meandri delle origini del Male; non, forse, il Male assoluto o generale, per il quale bisognerebbe addentrarsi in uno spiritualismo più profondo che l’autore sicuramente conosce ma che comunque decide sempre di non voler trattare (la meditazione trascendentale pare chiave nel mondo di Lynch ma, eccetto vaghi riferimenti nel personaggio di Cooper all’inizio della prima stagione della serie, non vi sono approfondimenti di alcun tipo a riguardo), ma al centro tutto c’è il Male del suo mondo, il suo male, interiore ed esteriore. Un Male che ha origine, in questa finzione che a volte sembra una versione digitale e (più) tragica dello Stellar (1993) di Brakhage, nella pura energia di un’esplosione di un test nucleare in New Mexico nel 1945, giusto un anno prima della nascita del regista. Questa potentissima immagine era già rappresentata anche in una gigantografia che sovrasta l’ufficio dell’agente Gordon Cole, interpretato da Lynch, in alcuni degli episodi precedenti, messa parallelamente di fronte a un’enorme foto di Kafka: l’autore dei racconti incompiuti, cosa che è stata per più di 25 anni anche Twin Peaks, un autore che il regista ha sempre considerato un po’ come un suo fratello spirituale ed artistico, che osserva la catastrofe, ne contempla l’atrocità, riflette in quello sguardo la tragedia dell’autodistruzione dell’uomo, della guerra, dell’esplosione fisica che diventa mentale e viceversa. Lynch entra proprio all’interno dell’esplosione, entrando in una visione di cui siamo unici veri protagonisti: luci, effetti speciali, la costituzione di un mondo stellato, un mostro dalle braccia storte che vomita ovuli tumorali, un incubo in bianco e nero su di un “convenience store” demoniaco circondato da luci e trucidi boscaioli che distorcono lo spazio-tempo con la stessa delirante imperfezione di montaggio che caratterizzava l’inizio della terza puntata. E in conclusione di questo vero e proprio viaggio in uno sperimentalismo completamente ignoto all’idea tradizionale di TV, l’episodio si sposta in una scenografia più definita: un edificio, appunto quello dell’inizio della terza puntata, immerso nel nulla, sopra una roccia in una specie di oceano viola. Questo luogo portò alla rinascita di Cooper, attraverso una sorta di utero meccanico posto nello spazio (torna il cosmo di Eraserhead, 1977), ed è quindi forse considerabile una specie di enorme “spazio di gravidanza” tra un mondo e l’altro. Sospeso, al suo interno, in un assurdo bianco e nero, vi si entra attraverso una finestra nera e rettangolare che rimanda subito alla mente 2001: Odissea nello spazio (1968), ma per una volta, una delle poche, pochissime nella Storia del Cinema, non sembra essere un paragone gratuito quello con il capolavoro fantascientifico di Kubrick: se il regista newyorchese utilizzava l’allucinazione per descrivere un viaggio ai limiti dell’uomo e di Dio (che finiva tra l’altro con una rinascita) e il Monolito per delineare un inizio, di un atteggiamento, di una tendenza, di un’essenza umana o divina attraverso la violenza e il progresso tecnologico, allora Lynch usa l’allucinazione per descrivere qualcosa di invece estremamente limitato. Un qualcosa di cui Lynch però vuole distruggere i limiti, vuole entrare nell’esplosione, carpire dall’interno la violenza e la crudeltà del mondo e dell’uomo, non vuole descrivere l’errore umano kubrickiano bensì vuole compiere un errore umano, continuare ad ambire alla costruzione e alla distruzione di un qualcosa. Anche del passato. In questa logica, il Monolito, che è Dio ma che è anche uno schermo cinematografico, diventa una porta, un limite che la macchina da presa riesce a superare (grazie al digitale), penetrando nei meandri del nucleo surreale del mondo.
L’episodio comincia con un momento critico nella narrazione, si sposta in qualcosa di simile alla video-arte per poi passare a qualcosa che rimanda il Lynch dei primi tempi (in particolare Eraserhead) concludendosi sulle note dolenti di un qualcosa che, invece, non s’era mai visto nella sua opera: una specie di noir storico e desertico, apparentemente scollegato dal resto, che presto diventa ossessivo e cruento. Il regista divide in parti la propria idea di cinema, dando il giusto spazio in queste quattro sezioni (che possiamo anche chiamare “quattro movimenti”, usando un’etimologia sinfonica) a quattro manifestazioni egualmente importanti di un mondo totalmente nuovo: la prima parte mette in risalto le qualità di Lynch come narratore, già evidenziate in questa terza stagione dalle due sottotrame di Cooper, dal fluido collegamento tra le vecchie stagioni e questa e da una serie di sequenze memorabili per pathos, su tutte quella dell’investimento del bambino nella sesta puntata; la seconda parte mette in risalto un’idea cinematografica pura e sensoriale, creando una specie di The Tree of Life/Voyage of Time lynchano che è davvero epocale, unico, fuori dal mondo per visione e coraggio; la terza parte è l’approfondimento definitivo della mitologia di Twin Peaks, la narrazione delle sue origini in maniera criptica ma fortemente simbolica, riuscendo a spiegare qualcosa attraverso le domande e non attraverso le risposte, come in Fuoco cammina con me; e la quarta parte è una dichiarazione d’intenti. Vengono presentati attraverso l’episodio, e sono onnipresenti in ognuna di queste sezioni, dei boscaioli dalla pelle annerita, testimoni dell’orrore che poi diventano partecipanti in esso; si erano già visti precedentemente (nella seconda e nella settima puntata soprattutto, ma anche in Fuoco cammina con me in una versione prototipale, più colorata), ma qui sono in massa, terroristi del subconscio, crudeli pianificatori di violenza metafisica, assassini. La dichiarazione d’intenti del regista sta nell’atto compiuto dal più brutale e crudele di queste figure, che interrompe la quotidianità dei passanti chiedendo un accendino, per poi uccidere due persone e intercettare una radio per trasmettere in loop la registrazione continua di una frase criptica, continua, misteriosa. Come Lynch, il boscaiolo schiaccia i cervelli delle persone e trasmette un qualcosa che non è abitudinario per gli spettatori/ascoltatori, che svengono, rimangono colpiti e annientati, scompaiono, si annullano. Una bambina mangia un mostro a metà tra una rana e una falena, e l’uomo scompare in un buio assoluto, un nero che è il colore predominante di tutto l’episodio; ci si può aspettare un barlume di speranza, una luce che si manifesti attraverso il nero dando l’idea di uno spazio altro come in A spell to ward off the darkness (2013), ma non succede nulla. Si sente solo il nitrito di un cavallo, forse lo stesso cavallo che vede Sarah Palmer in una puntata della seconda stagione e in Fuoco cammina con me, forse lo stesso cavallo (digitalizzato) che appare oltre i confini delle tende rosse della Loggia nella seconda puntata della terza stagione, sicuramente il cavallo di cui parla il boscaiolo nella trasmissione radiofonica: «The horse is the white of the eyes and dark within». È associazione libera di idee (per immagini), è una seduta di meditazione nella più profonda oscurità dell’inconscio che si tramuta in approfondimento di un reale che non può essere meno reale – è Lynch allo stato puro, con una violenza nei confronti dell’occhio dello spettatore che fa tremare e che spaventa, come replicando il taglio al bulbo oculare del vitello di Buñuel in Un Chien Andalou (1929).
Si può parlare del fatto che Lynch non ha un distacco completo dalla realtà della narrazione, poiché questi “nuovi” antagonisti boscaioli distorcono la realtà, come si può notare sia dal montaggio video sia dal montaggio audio, penetrandovi, ma essa in sottofondo permane. E si può parlare di come sia un atto di enorme spavalderia il portare in TV nel 2017 un episodio che per più o meno metà della propria durata è in bianco e nero e che per una percentuale ben più ampia di durata ha come sottofondo silenzio o un lungo effetto drone. E si può anche parlare di come lo stridente brano di Krzysztof Penderecki che accompagna la penetrazione nell’esplosione si intitoli Threnody for the victims of Hiroshima, creando un altro collegamento con la Storia, con il nucleare, con l’attuazione della megalomania umana nella direzione della tragedia attraverso l’energia e la tecnologia, la guerra. Si può parlare di come il teatro del Club Silencio di Mulholland Drive (2001) sia diventato un cinema, che proietta la Storia ma la tramuta in finzione, con il personaggio di Carel Struycken che “genera” Laura Palmer dall’energia dell’esplosione creando un ovulo dorato che riprende Magritte, a partire da una sorta di manifestazione mistica di tube di Falloppio, con lo stesso colore della “garmonbozia” e dunque del dolore e della sofferenza, dando l’idea di un dolore collettivo e universale che è quello della vita di Lynch ed è quello della vita di Laura Palmer, e manifestando in maniera definitiva il personaggio di Laura come fantasma cinematografico eterno e senza tempo. Si può parlare di come il demone che fa nascere BOB dal nucleare si chiami, seguendo i titoli di coda, “Experiment”. Si può parlare di come l’esperienza di visione di Twin Peaks in generale possa cambiare per chiunque e di come questo episodio sia una sfida a ogni spettatore, da chi ha visto la serie 25 anni fa fino a chi l’ha vista or ora, da chi conosce Lynch a menadito a chi invece è ai primi approcci con la sua idea di arte cinematografica, fino a chi, come me, è nato dopo l’inizio degli anni ’90 ma ha visto la serie originale abbastanza presto (5 anni fa nel mio caso) da aver subìto sulla propria pelle, anche in dimensioni minori, il dolore di una lunga attesa. Si può parlare di come il sipario musicale di quest’episodio abbia come protagonisti i membri di un gruppo ben più popolare dei gruppi presenti negli episodi precedenti, ovvero i grandi Nine Inch Nails di Trent Reznor, in un ruolo che non è più solo quello di una pausa nella narrazione: la musica, l’elettricità degli strumenti e della luce, sembra quasi il motore della rivoluzione e del risveglio nel demone BOB e nell’orbo che costituisce la sua assenza. Si può parlare dell’afasia e dell’apnea che ho sentito dopo la visione, che mi hanno portato a fumare tre sigarette di fila senza battere le palpebre, trovando difficoltà nel dormire. Ma forse alla fine si può parlare di tutto ma di importante c’è poco o niente, è giusto una questione di percezione, di umanità ed emotività – in questo vortice cosmico da imparare a decifrare per imparare a vedere, di nuovo.
Nicola Settis