TWIN PEAKS – STAGIONE 3 (Episodio 7) (2017), di David Lynch
Nell’universo di Twin Peaks, un universo complesso a suo modo dotato di una propria mitologia, ormai sempre più collegata al mondo assurdo nel quale probabilmente è ambientata l’intera filmografia di David Lynch dai primi corti sperimentali ai recenti videoclip (v. Crazy Clown Time, 2011-2012), ci sono sempre stati vari filoni, connessi gli uni agli altri grazie al montaggio o a sottili riferimenti che si ricollegano lentamente. Questa terza stagione della serie ideata dall’autore di Missoula con Mark Frost segue, più o meno, sempre questa regola, ma a differenza delle due puntate precedenti, che sono servite al pubblico principalmente per conoscere nuovi personaggi e rivedere vecchi volti in contesti registicamente, narrativamente ed emotivamente costruiti alla perfezione (come la scena con Amanda Seyfried nella puntata 5 e quella con Harry Dean Stanton nella puntata 6), la settima puntata manda molto avanti la narrazione, riassumendo in parte quello che è successo in 25 anni, spostando l’attenzione dal dettaglio allo schema generale delle cose, riconnettendo i punti con quadratezza e sobrietà – sì, certo, una sobrietà “lynchana” e non una sobrietà tradizionale per i ritmi televisivi, ma comunque una narrazione tradizionale, che nel mondo di Twin Peaks forse non si vedeva da prima dell’ultimo episodio della seconda stagione; alla fine, considerate queste prime sei puntate che sono passate dal non-tempo di Eraserhead al Powell metafisico e dallo sperimentalismo di linguaggio puro alla tragicomica parodia post-nostalgica, The Return, ormai praticamente ufficializzato come un film lunghissimo in 18 parti, aveva una storia che dava l’apparenza di un giro alla ricerca degli incastri, e questi incastri stanno finalmente cercando una coerenza. Il mosaico è cosciente di sé, e nei suoi concatenamenti cromatici può dimostrare sempre di più le grande capacità di Lynch in tre campi: quello narrativo, quello sensoriale, quello simbolico. È un caso, dunque, che in quest’episodio, quello insomma più classico, quello che più forse rimanda a una sorta di cinema o schermo del passato, nonostante alcune punte sarcastiche di uso dell’informatica e di una novella violenza, il personaggio di Gordon Cole, interpretato da Lynch stesso, si trovi nel proprio ufficio, da solo, a fischiettare la colonna sonora di Amarcord (1973) di Fellini composta da Nino Rota? (anche se certi dicono che stia fischiettando Engel dei Rammstein; una cosa è sicura, Lynch non fischia particolarmente bene, a meno che non fosse volontariamente ambiguo…) Quasi sicuramente no, come quasi sicuramente non è un caso la grande presenza di tecnologia, inclusa una telefonata Skype con l’ora defunto Warren Frost (nel ruolo di Doc Hayward), padre di Mark Frost a cui è dedicato l’episodio, da uno schermo con una cornice di legno, e come quasi sicuramente non è un caso la resa sgarbata del carattere di Diane, quasi negando la possibile immagine più positiva ricavabile solo dalla suadente voce di Kyle MacLachlan nella serie originale, e come quasi sicuramente non è un caso il seguito dell’indizio dato all’inizio della prima puntata di questa stagione a Cooper, «Listen to the sounds», (tras)portato nell’albergo Great Northern da un misterioso suono che sembra provenire dall’interno, dal legno, da ovunque – come se qualcosa stesse osservando qualcuno, misteriosamente, da lontano, forse noi spettatori stessi. Regna il leitmotiv del pericolo, l’oscurità che svanisce, una sorta di complessità scenografica e registica che ha qualcosa di Welles e di Ford (in versione moderna, anti-pellicola), sia nella profondità di campo sia nelle inquadrature di stabilimento geografico, sia per come usa il passaggio del tempo sia per come mischia macrosequenze a pennellate di assurdità più sottili.
Lynch continua a cambiare la propria visione del campo-controcampo, continua a lavorare con la spazialità e la profondità del campo dell’inquadratura: la protagonista dell’immagine, per esempio, può rimanere in primo piano mentre un male superiore ancora incomprensibile svanisce, sfocato, e riappare, tramutandosi in neo-metamorfosi del demone di Mulholland Drive (2001) ma con meno impatto immediato e più strisciante inquietudine. Oppure il campo-controcampo può essere attraverso una linea telefonica (tra i fratelli Ben e Jerry Horne in un dialogo comico senza scampo) o attraverso una parete vitrea, con l’immagine che fa lentamente decomporre i volti nella disperazione statica dei primi piani. Laura Dern urla più volte un triste “look at me” che rimanda subito alla mente INLAND EMPIRE (2006): “guardami, e dimmi se mi hai già visto prima”, dicevano sia il suo personaggio sia quello interpretato da Karolina Gruszka in due diversi piani di realtà. E BOB (o Cooper, o il suo doppelgänger, o quel che è) la guarda, ma non è uno sguardo che restituisce emozioni, è uno sguardo simbolicamente spento, tragico nella propria chiusura plastica: non c’è il riconoscimento, almeno non oltre il cadaverico e lacrimevole scambio di sguardi tra Bobby e la foto di Laura Palmer nel quarto episodio. Forse è in ciò, che questa stagione sta risultando così alienante per ogni spettatore, sia chi conosce poco Lynch ed è affezionato alla serie sia chi invece è più legato alla logica surrealista del regista; non c’è un qualcosa che si auto-completa, non ancora, regna giusto un prepotente senso di straniamento. Anche perché la solita logica del doppio, specchiarsi di anima e corpo e di cuore e spirito, o di corpo e corpo e anima e anima eccetera, a parte che nel caso esplicito dello sdoppiarsi (anzi, triplicarsi) del corpo di Cooper, è molto filtrato attraverso la presentazione di un lato della medaglia per volta. Negli episodi 5 e 6 si vede Richard, ma Linda non si è ancora vista; e, prendendo come esempio quest’episodio, Frank Truman rimane in campo e Harry fuori, Andy si vede ma Lucy no, una persona a cui è stato rubato il veicolo da Richard si vede ma la persona che “teme” (forse proprio Richard) no, rimane in un impenetrabile nero oltre una porta enigmatica come in Velluto Blu (1986), e poi ci sono coppie che tentano di comunicare ma c’è sempre qualcosa che blocca il dialogo, che sia tecnologia oppure un vero e proprio problema di trasmissione verbale. Per il confronto umano è sempre più onnipresente la finestra, lo schermo, il digitale: un mezzo che non v’era, negli anni ’90, neanche per la visualizzazione video, o almeno non a livello mainstream. Cambiati i media e cambiato il metodo di comunicazione e di fruizione, bisogna riferirsi a un qualcos’altro, un qualcosa di invisibile che può presenziare attraverso i glitch e i pixel, un’apparizione demoniaca, appunto una sfocatura, un’apparizione/sparizione nell’immagine come in Personal Shopper (2016) di Assayas.
Ma il cinema non è solo spazio, ovviamente è anche tempo. E anche in ciò si riflette la riflessione sul glitch e sulla fruizione digitale: il “binge-watching” à la Netflix ha rovinato certi aspetti della serialità televisiva, e l’approccio cinematografico che è stato dato alla costruzione in scrittura e in montaggio di questa stagione, inclusa l’enorme segretezza anti-spoiler ed esclusa la collaborazione commerciale (probabilmente inevitabile) col servizio streaming di Showtime per gli episodi 3 e 4, va esattamente in direzione di ciò, provocando il senso di percezione dello spettatore attraverso trucchetti visivi che, in un contesto computerizzato, potrebbero essere male interpretati, potrebbero sembrare sconnessi. Una scena apparentemente insignificante e prolissa di quest’episodio è quella al Roadhouse: dopo sei episodi, dei quali quattro con sequenza musicale nello storico bar nella scena finale e uno con una simile scena poco prima del finale vero e proprio, è naturale aspettarsi, come può prevedere una sequenzialità televisiva che si muove così musicalmente, una nuova scena nel bar. La scherzosa e lunghissima sequenza che segue però è un’inquadratura fissa dilatata estremamente nel tempo, in cui un uomo spazza il pavimento del bar mentre scorre la musica, per più di 2 minuti. Ci si aspetta che “starring Kyle MacLachlan” appaia sullo schermo da un momento all’altro, ma l’episodio è tutt’altro che concluso, è un gioco di pazienza, sempre atto a ricordare come sia tutto un atto di attesa non passiva, ogni domanda potrà avere risposta e ogni risposta può avere riferimenti e suggerimenti seminati qua e là nel più insospettabile attimo di grande cinema. Lynch gioca sapientemente con lo spettatore dimostrando anch’egli di riuscire a essere condiscendente, non ci prende in giro ma ci sfida, ci riempie lo sguardo di indizi dove, nella serialità, tendiamo a non volerli più cercare – né tantomeno trovare. Ad esempio, può succedere nei titoli di coda, o nella sfocatura, o nel decentramento di un’inquadratura, nella roboante e grottesca violenza di una scena d’azione velocissima e improvvisa in mezzo a una sequenza invece lunga e lenta, come interrompendo se stesso, dando il giusto ritmo anche alla cosa più insignificante se ciò può alimentare la potenza del significante, o la sorpresa nel morboso, del violento, dell’azione. E poi la conclusione è riferita in un altro posto, il Double R Diner di Shelly e Donna, affollato, diverso, ma familiare, in un modo o nell’altro, in quella sorta di limbo di significato a metà tra il “nerd” e l’intellettuale (e l’anti-“nerd” e l’anti-intellettuale) che è spesso lo spazio d’incontro tra mondi per la cittadina di Twin Peaks. Il punto di vista di Lynch è sempre stato un punto di vista crudele nella propria obiettività onnisciente, e il regista ha sempre detto che i suoi film sono come dei tuffi in strani mondi, dei tentativi di navigazione attraverso lo schermo in nuove implicazioni, nuove immagini, nuove realtà: ma rimane una realtà definibile come tale, per quanto parallela, trasversale e collaterale, ed è attraverso gli sguardi che ciò si attua. Sguardi persi, in questo mondo selvaggio nel cuore e strano fino in cima, parafrasando un certo suo film del 1990, che si rincorrono e non si rispondono.
La grandezza di Lynch, che lo rende uno dei più stimati e grandi registi statunitensi (e non solo) viventi (e non solo), in cosa consiste? Ci sono varie caratteristiche che si possono elencare: la capacità di creare mondi, che siano inquietanti o ironici o entrambi, impenetrabili se non attraverso tentativi di comprensione logica di un suo senso dell’assurdo che passa fluidamente dal cinema di genere alla pittura, dal jazz al metal, dalla narrazione tradizionale americana all’incubo sperimentale; la ricchezza tematica ed emotiva dei suoi personaggi; l’iconico processo atto a tramutare in immagini riconoscibili anche le particolarità oniriche più stravaganti; i suoi discorsi sullo sguardo cinematografico, che a volte “attaccano” Hollywood e a volte invece si concentrano più che altro su di un conflitto tra realtà e finzione, tra manifestazione demoniaca da favola horror e tentativo di realismo grottesco; e il suo impatto storico che è riuscito a portare così in cima certe iconografie altrimenti “underground” grazie all’enorme e insospettabile successo di Eraserhead (1977). Nella terza stagione di Twin Peaks stiamo sempre di più riconoscendo la presenza di tutte queste cose: da un mondo scomposto come quelli di INLAND EMPIRE ma “ricomponibile” attraverso gli sguardi come quello di Strade Perdute (1997), da un punto di vista tanto narrativo quanto montaggistico e/o musicale; la galleria di personaggi che vanno dalla più parodistica spalla comica al neurone gigante e metafisico; l’immediata popolarità, almeno per quanto riguarda le visualizzazioni online, di ogni episodio, che pur facendo discutere riesce sempre a colpire qualche sguardo, a inserire qualche immagine in quell’immensa galleria di scene di Lynch indimenticabili, indispensabili; l’accettazione dello sguardo di Fuoco cammina con me (1992) e sempre Strade Perdute, che si tramuta in discorso simbolico sul decadimento dei corpi, sul passaggio del tempo, sull’icona Laura Palmer che deve re-imparare a vivere, re-inserirsi nel sistema “cine-mondo”; e la possibilità che l’influenza di questa stagione possa davvero cambiare qualcosa nella TV, creare nuove esperienze cinematografiche divise e suddivisibili in parti episodiche. Potrebbe essere un salvataggio dalla banalità, un modo per far vivere una nuova piccola rivoluzione al piccolo schermo, attraverso un’immensità immaginifica simile a quella di un Sole (finto, ferreriano) che esplode, una catastrofe iconoclasta auto-cannibalizzante, uno sguardo sul futuro che si spegne come in un tramonto.
Nicola Settis