TWIN PEAKS – STAGIONE 3 (Episodio 6) (2017), di David Lynch
Come l’episodio precedente di Twin Peaks, questa puntata sembra essere “di transizione”. Un mondo sempre più complesso continua a essere costruito pezzo dopo pezzo, i nuovi personaggi si approfondiscono e quelli vecchi tornano anche in scene di enorme pathos. In tutto ciò, però, la sensazione rimane sempre quella: ovvero che scrivere di questi episodi di Twin Peaks è un po’ come concentrarsi su dei singoli, enormi pezzi di un puzzle ancor più grande ma per noi incompleto. Ci pare difficile cercare di penetrare nei meandri del significato generale di una scena senza sapere, per la precisione, cosa può significare nello schema superiore delle cose da un punto di vista anche solo prettamente narrativo. Un membro del gruppo Facebook Twin Peaks 2017 – Italia ha scovato, al posto del sottoscritto, un perfetto paragone per esprimere quello che questa stagione può essere sinora (e che potrebbe essere fino alla propria conclusione), ovvero una similitudine tra questa specie di blockbuster surrealista di ambizione e durata napoleoniche e il Kōan, strumento di meditazione appartenente alla cultura del Buddhismo Zen, consistente in un’affermazione paradossale, impenetrabile, atta a creare più domande che risposte, per risvegliare le coscienze proprio durante lo stato meditativo. E potrebbe non essere un caso, vista anche la passione dogmatica del regista per la meditazione trascendentale; in tutta la filmografia di Lynch tutto è un po’ Kōan, tutto è un po’ un paradosso per riflettere. Se mi perdonate il personalismo (e l’utilizzo della prima persona singolare e plurale), non posso che dire che le recensioni episodio per episodio, per quanto per molti possano lasciare il tempo che trovino, per noi sono un’importante tappa nel comprendere il puzzle, nel ritrattare quello che era stato compreso e quello che non era stato compreso. Per ricordarci, insomma, dov’eravamo rimasti, segnando i passi per un percorso che sembra delineare una mappatura di un qualcosa che non ha precedenti, per complessità narrativa e simbolica, per varietà stilistica, per apparenza illogica di casualità degli eventi. Ma la logica c’è sempre, gli incastri pure: tutto, in un modo, tornerà. Non necessariamente delineando una storia comprensibile (che è inutile richiedere da Lynch, un autore che comprende l’orrore della condizione umana abbastanza da riuscire a denunciarne la follia senza collegamento a nient’altro), ma magari approfondendo un’estetica, fino a svelarne i misticismi grafici e sensoriali più sottocutanei, sottili, geniali.
Quest’episodio si apre dove si era concluso l’episodio precedente, con un monito lentamente straziante della tragica catatonia di Cooper. Kyle MacLachlan, unico vero protagonista assoluto di una serie che 25 e rotti anni fa era prevalentemente corale, è bloccato in una specie di versione “opposta” di quello che era all’epoca: da eroe noir molto ‘sui generis’ a bambinone un po’ tonto, da agente FBI a silenziosa e flemmatica parodia del tipico perdente americano. Sfidando e stimolando gli spettatori a seguire una storia dai ritmi così pesanti, Lynch si trova a dilatare i tempi sempre di più, inserendo solo brevi, sporadici ed enigmatici siparietti che aprono finestre verso la Loggia Nera (o la sua “sala d’attesa”). Dale, ormai trasferitosi nella vita del ‘loser’ Dougie, è asservito a una narrativa che, senza il suo infantilismo pseudo-comatoso, sarebbe una semplice storia americana classica, ma con questa specie di alienazione tragicomica si sposta in un reame a metà tra Tempo di divertimento (1967) di Jacques Tati e Oltre il Giardino (1979) di Hal Ashby – e in ciò, come Shirley MacLaine nel film di Ashby, è straordinariamente credibile ed emotivamente comprensiva la figura della moglie interpretata da Naomi Watts, nel contempo drammatica e idiota, superficiale e tosta. Cooper è come un bambino autistico, che utilizza disegni e scarabocchi come metodo di comunicazione con un mondo “manufatto”, una Las Vegas plastificata con tanto di quartieri ancor più fittizi e costruiti, chiamati Rancho Rosa come la casa di produzione della seria, che sin dal nome forse cita La rosa del Rancho (1914) di Cecil B. DeMille e Wilfred Buckland. Ma una cosa è questa lancinante e nel contempo umoristica resa di una depressione di un personaggio-simbolo, un’altra cosa è un “mondo reale” distante e più legato al mondo vero, non alla realtà (Lynch, probabilmente, ha abbandonato l’idea di rappresentare il reale da quando ha cominciato a fare film, e l’incastrarsi tra i piani narrativi e onirici ha come unica pausa fiabesca e pseudo-realistica nella sua filmografia il film del 1999 Una storia vera), ma alla finta realtà narrativa di Twin Peaks, alla necessità di salvare i personaggi e dunque proseguire nella costituzione di un arricchimento del significante. Il puzzle continua a prendere incastri e nuovi pezzi, ma soprattutto, e questa è la cosa più importante, alcune storie sono destinate a concludersi (o a dare l’apparenza di una conclusione) e alcuni misteri sono destinati a risolversi. Tra questi misteri, ve n’è uno che resiste densissimo dal primissimo episodio della serie, il pilota girato nel 1989, e che è stato dunque svelato giusto un paio di giorni fa: l’identità di Diane, difatti, è stato un vero e proprio segreto per quasi tre decadi, ed è solo giusto che un’entità talmente arcana e particolare, diventata di culto senza aver mai avuto un volto, si ritrovi nel 2017 con la faccia di Laura Dern, musa del regista da Velluto Blu (1986) e poi Cuore Selvaggio (1990) e INLAND EMPIRE (2006). Sul suo ruolo, che sarà sicuramente importante e si sa già grazie ad affermazioni di Lynch, Frost e dell’attrice stessa, è difficile speculare qualsiasi cosa, ma la sola rivelazione del suo volto può svelare molte cose di Lynch e di questo progetto: innanzitutto lo spostamento della logica registica su di una riflessione continua sul campo-controcampo nel digitale, già iniziata nel succitato INLAND EMPIRE, ma anche la decisione di connettere tutto, sia all’interno della filmografia del regista più in generale sia nel senso del progetto Twin Peaks. È come un promemoria, per chi non ci crede ancora, che ogni filone può delinearsi in una direzione precisa senza annaspare ad libitum.
Ciò si può notare anche nel ribaltamento delle certezze e dei ruoli nella sequenza che vede protagonisti due neo-antagonisti della serie, Red e Richard Horne. Il primo, interpretato da quel Balthazar Getty che già era protagonista inetto (e soprattutto il suo ribaltamento) di Strade Perdute (1997), qua si trova dall’altra parte dello spettro: non più osceno e debole figlio di un ingranaggio mentale a cui non vuole appartenere, cercando una fuga, ma ormai vero criminale, pieno di inquietanti tic, con capacità e proprietà magiche che lo tramutano in una specie di cupa e fulminea parodia noir del mago di Mulholland Drive (2001). Il misterioso Richard Horne ha anch’egli un ribaltamento, ma al contrario: mentre nell’episodio precedente sembrava un antagonista tanto irrefrenabilmente violento e misogino quanto insopportabilmente carismatico, qua diventa un patetico e bambinesco infanticida in continue crisi d’ira. Passando per lo stesso scorcio stradale in cui Leland Palmer bruciò il proprio motore urlando in Fuoco cammina con me, Richard, noncurante e rabbioso, investe un bambino: quest’inquietante scena, forse l’apice della serie sinora insieme ad un altro paio di sequenze, non ha tuttavia come centro focale l’incidente d’auto quanto le sue conseguenze. Ci sono il dolore, gli sguardi dei passanti, la musica struggente di Badalamenti che prima costruisce tensione e poi commenta la sofferenza come faceva nel primissimo episodio della serie attraverso il leitmotiv del pianto disperato, ma soprattutto ci sono gli occhi di Carl Rodd (Harry Dean Stanton), giunto a Twin Peaks (come eliminando la scissione tra la serie e Fuoco cammina con me in maniera definitiva: i due mondi si compenetrano, si uniscono per definire il presente o addirittura il futuro del progetto, attraverso questa nuova, illuminante stagione), che ha una visione mistica appena il bambino perde la vita. La visione mistica, che consiste nella percezione di una luce gialla che esce dal cadavere del bambino e vola verso il cielo, non va probabilmente vista come un exploit in un delirio meta-religioso (cosa che poteva essere Fuoco cammina con me nei suoi minuti conclusivi) quanto come una scelta semi-ingannevole: la luce non va verso il cielo, forse, ma verso i cavi elettrici, e la luce, in quanto gialla come la garmonbozia (“dolore e sofferenza”), non simboleggia l’anima quanto la morte stessa e il suo essere risucchiata dal mondo surreale ed elettrico della Loggia. Harry Dean Stanton riprende un ruolo piccolo ma emblematico, che può svelare le sue sottovalutatissime capacità recitative in un gioco cinematografico moderno che ormai sembra essere una vera e propria analisi enciclopedica di tutto ciò che il cinema può essere e può fare. È, sì, surrealismo, ma nuovo, applicato al mondo in una sua totalità e universalità che gioca con l’onirico come con il metafisico in maniera ben più ampia e complessa rispetto alla mitologia della serie originale, mischiando i toni e i generi. Lo spettatore (proprio Carl Rodd, proprio Harry Dean Stanton) sembra tentare di entrare nella scena, si manifesta nell’inquadratura come uno sguardo onnisciente che percepisce con sottigliezza il trauma – un po’ come la Signora del Ceppo, legata a Carl Rodd nel romanzo di Mark Frost Le vite segrete di Twin Peaks (2016) – per far percepire ai personaggi fittizi l’empatia, per comunicare lo sguardo, farlo penetrare attraverso il cinema. Non è più uno sguardo perverso e osceno che guarda l’apocalisse (come Kafka nella puntata 3 o il figlio della tossicodipendente a Rancho Rosa nella puntata 5), è uno sguardo simpatico nel senso greco del termine, “sum” + “pathos”.
Con una seguente scena ultra-pop brutale e lercissima, Lynch riporta in scena un nano. Il nano, figura metafisica sia nella serie originale sia, in un altro ruolo ma sempre con il volto di Michael J. Anderson in questa serie assente, in Mulholland Drive, qui, pur rimanendo grottesco, è un killer spietato e concretissimo. Quindi il folle diventa concreto, il cacciavite (lo stesso di INLAND EMPIRE?) si piega, il sangue scorre, con in sottofondo un’assillante beat hip hop un po’ kitsch. È un’esperienza sconcertante, che confonde e disturba. Ci si trova di nuovo di fronte a un qualcosa di completamente alienante e difficilmente definibile per il suo forte surreale senso dell’immagine, completamente mutevole, completamente viscerale. Completamente privo di senso per molti, pienamente logico per chi, forse, conosce Lynch meglio: è una mitologia da scoprire e da riscoprire? O forse più che una mitologia è appunto una logica, una cosa più intensamente interna, in cui bisogna penetrare, comprendendo cosa è onirismo, cosa si spaccia per reale, cosa diventa meccanismo illusorio e cosa invece è più sfacciatamente uno scozzo tra simboli effimeri. Quello che sopravvive è un forte senso apocalittico e romantico, di distanza tra gli sguardi, di enorme comprensione pop e anti-pop delle potenzialità del simbolo televisivo/cinematografico. E il complicarsi del gioco sta sempre di più tramutandosi in architettura della tragedia e in ricostruzione della narrativa, proponendo qualcosa di superiore, di magico, di incredibile.
Nicola Settis