TWIN PEAKS – STAGIONE 3 (Episodio 5) (2017), di David Lynch
I detrattori di questa terza stagione di Twin Peaks, che potrà riempire i nostri sguardi e i nostri pensieri per tutta l’estate, sicuramente (e purtroppo) di fronte alla quinta puntata si troveranno a confermare le proprie perplessità sul fatto che l’operazione, di base, sia un’enorme perdita di tempo. Lynch si prende i suoi ritmi e decide di confrontarsi con tutta calma con la materia narrativa, dilatando i tempi poiché, tanto, la struttura da film di 18 ore può rivelare in se stessa dei momenti meno integrati in un ritmo “veloce” o “televisivo”: ciò porta a un’operazione criptica, in continua rivelazione di se stessa, in cui, come abbiamo già notato negli episodi precedenti, ogni minimo dettaglio può rivelarsi illuminante e importante successivamente – seguendo, appunto, delle tempistiche proprie, staccate da tutto il resto. Questo quinto episodio, pur mostrando abbastanza la città di Twin Peaks e i personaggi vecchi (che sembrano essere le uniche due cose che interessano a chi guarda la serie solo per l’effetto nostalgia e non per seguire la trama o il discorso digitalizzato di Lynch), prosegue direttamente su questo binario: dà indizi, si sposta di città in città mostrando pure la Buenos Aires abbandonata da David Bowie/Philip Jeffries in Fuoco cammina con me, e rimane enigmatica. E continua la junghiana rinascita spirituale di Dale Cooper e quindi della serie stessa attraverso il suo corpo con l’identità di Dougie Jones, che vaga in un mondo lavorativo reale (ma divertito come un film di Tati) in 16:9 alienante e spazioso cercando di ricomporre i pezzi del puzzle della sua vita come un ingenuo bambino, ma continuano anche svariate indagini, svariati complotti, svariati incontri-scontri, incluso il figlio di Dale/Dougie che sbatte le palpebre al contrario e sembra essere un ibrido tra umano e creatura della Loggia, che si muove e comunica per gesti. Abbiamo notato molte cose nei primi due episodi e nelle successive puntate 3 e 4, dal grammofono che nella sequenza d’apertura già registrava le scene nel casinò con Dougie al demone nella scatola di vetro che riecheggia le fotografie di Lynch stesso, dall’occhio che uccide diventando metafisica espressione delle proprie riflessioni agli spixelamenti grafici atti a spaventare e a confondere gli spettatori streaming, dall’inserimento implicito della garmonbozia (parodia horror della leggenda del granoturco nel Popol Vuh) a continui riferimenti dichiaratamente non eccessivi al passato della serie, dalla faccia di Laura Palmer che diventa lo specchio luminoso di Meshes of the Afternoon (1948) di Maya Deren in versione digitale a un campo-controcampo tra Sarah Palmer e uno schermo televisivo che rimanda sia a Cuore Selvaggio (1990) sia all’episodio pilota della serie originale; è come un lento riemergere di ricordi, in mezzo ai quali spunta un presente spietato, che deve sempre distruggere tutto. In luce di ciò, la cosa giusta forse è concentrarsi su scene singole e non sulla puntata nella sua completezza considerato l’ermetismo generale dell’operazione, evitando tentativi di decifrazione narrativa e semmai cercando di percepire lo sguardo, gli sguardi. E con ciò detto, aggiungendo che Lynch a metà episodio è riuscito nell’impresa forse impossibile di rendere inquietante Jim Belushi, addentriamoci.
Un fil rouge dell’episodio, che rientra in una serie di particolarità che questa stagione sembra avere più o meno in sottofondo, è un discorso sugli Stati Uniti d’America e sulla decadenza della sua estetica. Una sequenza che ha più o meno la funzione di concludere la prima metà dell’episodio è quella girata nella tenuta di case di Rancho Rosa. Questa zona fittizia, situata in Nevada vicino a Las Vegas, è dove è stato incontrato per la prima volta il misterioso Dougie Jones, terza versione o secondo doppelgänger di Cooper, nel terzo episodio di questa stagione; in questo episodio, due personaggi che appaiono brevemente nella terza puntata ricompaiono, probabilmente dando un inizio a una sottotrama che potrebbe tanto diventare più importante col tempo quanto cominciare a smettere di essere significativa – è, sì, così imprevedibile. Le dinamiche sono relativamente semplici: due uomini che per ragioni ignote vogliono far fuori Dougie piazzano una bomba sotto la sua macchina, abbandonata lì dopo l’incontro con la prostituta Jade. Ma non sono loro i protagonisti della scena. I protagonisti sono la “Drugged-Out Mother”, ragazza tossicodipendente e autolesionista, e il suo (presunto) figlio che guarda dalla finestra, ingenuo, la macchina. È incuriosito da essa. Questa curiosità lo spinge a uscire di casa, abbandonando la (presunta) madre per avvicinarsi alla bomba e toccarla. Un gruppo di giovani criminali subito accorre, allontana il bambino dalla macchina lanciandogli sassolini mentre questo, ammutolito, non reagisce. I ragazzi scassinano la macchina, fanno partire il motore e la macchina esplode. Il bambino rientra in casa, la madre si sveglia, lei lo guarda, lui guarda fuori dalla finestra ammutolito attraverso le persiane e la macchina continua ad andare a fuoco mentre le fiamme divampano. Questa sequenza può essere un’evoluzione dello sguardo voyeuristico com’è concepito in Velluto Blu (1986), ma è anche una resa più esplicita di un qualcosa che era già innestato alla fine del terzo episodio: da Velluto Blu è ripresa l’immagine della persiana, e lo sguardo infantile verso la violenza, ma questo sguardo non è più uno sguardo di ambigua attrazione, non è più uno sguardo sessuale. Il bambino, figlio di un’America che non è più quella del male nascosto bensì è diventata quella del male ostentato, osserva una tragedia ed è osservato. Un’esplosione, un’apocalisse – ed è qui che si ritorna alla puntata 3, nella quale la gigantesca fotografia di Kafka nell’ufficio di Gordon Cole era posta parallelamente a una gigantografia di un’esplosione atomica, la stessa foto appiccicata accanto al letto di Henry in Eraserhead (1977). Che lo sguardo sia quello inquieto e alienante dello scrittore preferito da Lynch o che sia quello di un’immatura marionetta del suo gioco cinematografico (e non vergogniamoci di usare questo termine parlando di una serie TV, in questo caso) poco cambia, perché quello che conta, forse, è la percezione di quest’implosione o di quest’incomprensione che tuttavia è la radice della violenza, di BOB: la dualità tra la banalità della cattiveria e la sua radicazione più complessa e calcolatrice, l’infanzia o l’adolescenza violate o da violare e l’età adulta in cui tutto si complica. Il guardarsi e il contemplarsi tra la tragedia e l’uomo è complicato dalla presenza della madre che guarda il figlio, creando una seconda dimensione umana; la terza siamo noi spettatori, che, a questo punto, evidentemente stiamo guardando uomini che guardano uomini che guardano tragedie. La metanarrazione del mondo americano, questa decadenza della joie de vivre dell’american dream, ormai percepita sin troppe volte nel cinema attraverso oggetti come Spring Breakers (2012) o American Honey (2016), per Lynch si tramuta in altro, in un qualcosa che non respira vitalità poiché sta collassando sotto il peso della propria assenza apparente di energia. Va tutto in fiamme, cosa resta?
Una scena seguente, che è già tra le più memorabili di questa stagione se non di tutto Lynch, è un ritorno in una delle location più iconiche della serie originale e quindi della cittadina di Twin Peaks: il double R diner di Shelly e Norma. Entrambe lavorano ancora lì e sono ancora amiche, ma sono passati gli anni. Shelly ha una figlia, Becky (padre ancora ignoto), interpretata da Amanda Seyfried, fidanzata o sposata con l’inetto e disoccupato Steven, interpretato da Caleb Landry Jones, visto di recente in Get Out (2017). Becky chiede soldi alla madre, Norma le dice che è un problema il fatto che chieda sempre soldi, dicendo qualcosa sulla scia di «questa canzone l’abbiamo già sentita». Che Becky sia la nuova Laura Palmer? La nuova vittima del mondo, il nuovo simbolo di una generazione di giovani distrutti dall’America e distrutti dal cinema? Il dialogo tra il viscido Steven e lei è lento, morboso, scomodo. Insieme però si fanno una striscia (cocaina? eroina e fentanyl? le nuove designer drugs d’importazione cinese di cui parlano lo sceriffo Truman e Bobby nel quarto episodio?) e compare un’illusione di libido o addirittura di amore, presto soffocata in un primo piano sovraesposto à la INLAND EMPIRE (2006) che ha dell’incredibile: sulle note della versione delle Paris Sisters di I low how you love me, Becky guarda il cielo, il fuori campo, è strafatta, intossicata, sorride. La musica da diegetica diventa extradiegetica, la scena da cruda e semirealistica diventa quasi spirituale, come un’estasi romantica senza tempo spostata in un contesto a cui forse non dovrebbe appartenere. Becky, come Laura Palmer, appare da subito come vittima (Laura della morte, Becky della vita) e il suo sguardo perso e isterico appare come lo sguardo verso il ventilatore di Laura nei Missing pieces di Fuoco cammina con me (1992). La chiave è sempre nella dualità: la bellezza della vita e la tragedia della provenienza di questa bellezza, il futuro e il passato che si incatenano in maniera pessimistica tra la paura razionale del primo e la nostalgia irrazionale del secondo, sensualità e romanticismo. Per 50 secondi ci si perde nel bellissimo sguardo della Seyfried, ci si chiede cosa lei stia guardando e se avrebbe senso volerlo guardare con lei. È un simbolo che, sì, sembra nascere con già in sé il fantasma della propria morte. Ma del resto forse è questo che Lynch esprime, attraverso il digitale: racconta i fantasmi del decadimento del suo cinema, le nuove versioni diversamente masterizzate dei demoni ossessivi di ciò che già esisteva in lui. Mettendo in luce l’aspetto estatico della tossicodipendenza, il regista riesce di nuovo a sfondare l’oscurità dell’inquadratura raccontando la generazione Y come l’ennesimo errore corrotto dal cinema, dall’idealismo dell’immagine romantica, dal ritmo musicale, trascendentale.
C’è altro, ovviamente. C’è Dr. Jacoby protagonista di una feroce parodia di Alex Jones osservata in diretta da vari abitanti di Twin Peaks incluso Jerry Horne che fuma uno spinello, c’è Dale che beve caffè come un poppante che viene allattato, c’è un marchingegno che implode e si trasforma, e c’è il doppelgänger di Cooper che prima si guarda allo specchio vedendo il proprio volto tramutarsi in quello di BOB mentre divampano i ricordi del passato e poi guarda in macchina causando crisi elettriche per comunicare messaggi in codice. E poi c’è il Roadhouse, punto di conclusione nostalgica degli episodi precedenti, che qui non solo non è conclusivo ma non è neanche uno spazio di ritrovo, come un sogno sentimentale: questa scena nel pre-finale introduce un nuovo personaggio antagonistico, che nei titoli di coda si scopre chiamarsi Richard Horne. Collegato sicuramente alla famiglia Horne (che sia collegato a Ben o a Jerry o a Audrey lo scopriremo presumibilmente più tardi) e anche al monito con cui il Gigante introduce l’Agente Cooper nel primo episodio di questa stagione (gli dice «Richard and Linda»), questo nuovo personaggio è uno sfacciato criminale che corrompe poliziotti, fuma accanto ai cartelli “No Smoking” e minaccia di stupro una ragazza che gli ha chiesto un accendino, mentre in sottofondo suonano i Trouble, gruppo sperimentale tra il blues rock e il jazz composto tra gli altri da Riley Lynch, figlio del regista, e Dean Hurley, musicista che da tempo collabora con Lynch ma anche con altri come Chrysta Bell, Karen O e Zola Jesus. Una scena, come altre nell’episodio, apparentemente sconnessa dal resto, ma che ci ricorda un qualcosa che è importantissimo in Lynch e nell’universo di Twin Peaks: l’assenza di via di fuga dalla misoginia, che altro non è che una manifestazione di un male assoluto e sottocutaneo, una crudeltà nella quale torna la dualità dell’enigma tra demone e uomo. E se Richard è così importante pure per un’entità metafisica come il Gigante, presumibilmente non è solo un essere umano – almeno nell’ottica lynchana, che ha per molti anni veduto le figure demoniache come esplicitazioni delle oscenità freudiane (i padri-mostro come Frank in Velluto Blu o Mr. Eddie in Strade Perdute (1997) o, ovviamente, Leland Palmer). Ricordiamo che per Lynch la parola chiave non è mai “allegoria”, nonostante sia facile abusarne, ma “idea”: le idee funzionano come pezzi di un puzzle, e fino alla quarta puntata sembrava che Lynch non facesse altro che aggiungere questi pezzi. In questa quinta puntata, che sembra priva di una direzione a causa del format per forza di cose dispersivo ma anche geniale per creare curiosità e perplessità, più che aggiungere pezzi sembra aggiungere incastri, più che spiegare di più cos’è l’immagine conclusiva sembra porre sopra di essa una luce maggiore, per renderla più comprensibile lasciando intatto l’ermetismo. In ciò Lynch continua un’indubbiamente potentissima metafora dei mostri americani, ma continua a mantenere mistero nel connettere i puntini della sua visione. Una visione essenziale e memorabile, che potrebbe diventare il suo testamento digitale definitivo.
Nicola Settis