Con il ritorno effettivo e coscienziale del protagonista Dale Cooper, annunciato dall’episodio precedente con un risveglio attraverso il cinema classico (ovvero con Viale del Tramonto di Billy Wilder) e in maniera molto più esplicita in questo episodio attraverso l’acceleramento della dialettica e del linguaggio cinematografico con come sottofondo l’iconica sigla della serie, arriva il ritorno di Twin Peaks come simbolo estetico. Una baraonda mediatica legata all’effetto nostalgia, un tour de force metafisico, una nuova odissea della mente ricchissima di riferimenti epici e lirici: è questo il nucleo di The Return, e con il più recente sconvolgimento narrativo (quest’episodio contiene almeno 4 colpi di scena all’interno di una trama che spesso si è mossa in maniera faticosa lasciando spazio allo stile e al commento su se stessa) sembra sempre più necessario un riepilogo di tutto il flusso del racconto per come si è evoluto fino a questo punto. Ricapitolando, se escludiamo le collocazioni geografiche all’interno delle quali gli eventi sullo schermo sono stati brevi o velocemente autoconclusivi, come può essere per gli spezzoni di trama ambientati in New Mexico, a New York e a Buenos Aires, possiamo identificare 6 filoni narrativi, che si sono lentamente incrociati l’uno con l’altro fino a costruire l’idea di questo neo-Twin Peaks: The Return che è così magmatico e (post?)moderno da risultare forse attualmente come lo spazio più importante del cinema attuale: le indagini a Buckhorn sull’omicidio di Ruth Davenport, le indagini dell’FBI sui nuovi casi “rosa blu”, la vita di Dougie Jones con tutti i pericoli che è costretto a tentare invano di evitare a causa di Duncan Todd, le peripezie del doppelgänger di Cooper a giro per l’America, e infine due filoni ambientati a Twin Peaks, ovvero da una parte le nuove indagini che scavano nel passato e dall’altra le vicende personali degli abitanti della cittadina tra inganni, omicidi più o meno accidentali, storie d’amore, spaccio di sostanze stupefacenti e numeri musicali nello storico Bang Bang Bar, quel Roadhouse che fu palcoscenico alcune delle scene chiave della serie originale. Considerando come molte di queste sottotrame si uniscano in un lasso di breve tempo, possiamo sostanzialmente in realtà per ora delinearne anche solo tre, ovvero la storia di Dale Cooper, la storia del suo doppelgänger (che a modo suo si unisce con Buckhorn e con l’FBI) e la storia di tutto ciò che accade a Twin Peaks.
Andando con quest’ordine, si comincia col protagonista effettivo Cooper: dopo aver ricevuto dal “Fireman” tre indizi su come muoversi appena uscito dalla Loggia Nera dopo ben 25 anni (e gli indizi sono: «430», «Richard e Linda» e «Due piccioni con una fava» – c’è ancora molto, insomma, da scoprire…), Cooper ha incontrato nella “sala d’attesa” della Loggia, teatrino delle sequenze più memorabili della serie originale, una serie di volti riconoscibili che, pur inquietanti, hanno cercato di aiutare la sua fuoriuscita. Laura Palmer gli ha rivelato di essere nel contempo viva e morta ed è scomparsa nell’aere, suo padre gli ha detto di andare a cercarla, l’uomo senza un braccio e l’evoluzione metafisica del suo braccio hanno provato ad aiutarlo a uscire mentre il doppelgänger del braccio l’ha mandato nella scatola di vetro a New York, strumento per l’apparizione dei demoni metafisici, dalla quale è stato poi catapultato in un nuovo spazio irreale precedentemente inedito, nominato dai fan della serie “la zona malva”. Questo luogo, limitato all’interno di un castello in mezzo a un oceano viola, sembra essere strettamente legato, come scopriamo nella già epocale puntata 8, con il luogo in cui si trova il “Fireman”, ovvero, ipoteticamente, la Loggia Bianca. Dale qui incontra Naido, una donna giapponese senza occhi che si muove avanti e indietro nel tempo come frammentandolo e comunicando attraverso questa frammentazione; lei porta Dale in cima all’edificio su una specie di cubo metallico nello spazio su cui si trova una campana di ferro che emana elettricità, buttando lei nello spazio. Quando Cooper scende, si ritrova a dover scappare dalla minaccia di “Mother”, un demone che probabilmente non abbiamo visto in faccia (ma che forse equivale a Experiment, visto nel primo episodio e nell’ottavo), entrando in una presa elettrica che sostituisce il suo corpo con quello di un suo sosia chiamato Dougie Jones, creato dal doppelgänger di Cooper per non dover rientrare nella Loggia dopo 25 anni e per inserire al proprio posto, appunto, Dougie. O l’elettricità o i ritmi della Loggia stessa hanno però rallentato Cooper, fino a una specie di coma cosciente, tramutando Dougie, come viene comunque chiamato dalla famiglia, dagli amici e dai colleghi, in una specie di ironico e catatonico eroe noir, vittima degli eventi. Il piano del doppelgänger di Cooper puntava tutto sull’eliminazione fisica di Dougie attraverso i piani della criminalità organizzata orchestrata da Duncan Todd, ma per diversi motivi, alcuni legati alla guida dell’uomo senza un braccio attraverso altri piani di realtà, tutti i sicari mandati a uccidere Cooper finiscono per fallire e anzi questi, forse involontariamente, aumenta di popolarità all’interno del proprio mondo, viene amato e apprezzato dai colleghi e dal capo, stringe importanti amicizie professionali e riporta in vita l’amore della moglie Janey-E e del figlio nei suoi confronti. In un certo senso, questa trama può voler raccontare l’ascesa di un nuovo tipo di eroe cinematografico, scomposto e lontano da tutto e da tutti, un eroe che va nella direzione del bene.
Tanto è programmatica la sottotrama di Cooper, che in fondo in fondo non fa altro che essere un susseguirsi ironico di attentati scampati e semi-risvegli, quanto lo è quella del doppelgänger, che è solo e soltanto una programmazione di un viaggio verso delle coordinate che egli deve scoprire, mentre nel frattempo vengono programmati omicidi a distanza, anche grazie al succitato Duncan Todd. E anche lui deve scampare a due pericoli, collegati ma ben distinti, ovvero il suo omicidio ordinato da Philip Jeffries e l’apparentemente inevitabile ritorno nella Loggia. Dopo aver orchestrato l’omicidio di Ruth Davenport a Buckhorn per incastrare il suo amante Bill Hastings e ottenere dalla sua segretaria le coordinate di questo ipotetico luogo, in cui non si sa bene cosa dovrebbe accadere (e non vogliamo eccedere in supposizioni fuori luogo), “Bad Cooper” ha scoperto dalla sua scagnozza Darya di un piano per la propria uccisione, e dopo questa scoperta l’ha assassinata. Durante un viaggio in macchina, nel medesimo istante in cui Cooper entrava nell’identità di Dougie, il doppelgänger ha avuto un incidente d’auto a causa di una visione, e si è ritrovato a vomitare una sostanza tossica. Incarcerato, è stato interrogato da due suoi ex-colleghi dell’FBI, il suo capo Gordon Cole insieme ad Albert, e da una loro nuova compagna d’indagini, Tammy Preston, che hanno subito ricollegato l’incontro a probabili eventi paranormali. Per verificare questa cosa, è stato organizzato un incontro tra “Bad Cooper” e Diane, la sua storica segretaria mai vista prima in carne e ossa sullo schermo, e durante questo incontro l’FBI ha compreso che Diane ha qualcosa da nascondere. Durante il loro viaggio di ritorno, “Bad Cooper” è evaso di prigione insieme al suo scagnozzo Ray minacciando il direttore del carcere, ma Ray ha tentato di uccidere “Bad Cooper” sotto gli ordini di Philip Jeffries, non riuscendovi a causa dell’entrata in scena dei Boscaioli, tirapiedi del Male celato nel “convenience store”. Mentre il doppelgänger si è fatto dare una macchina da due altri suoi scagnozzi, Hutch e sua moglie Chantal, le indagini dell’FBI si sono spostate a Buckhorn, rivelando che Bill Hastings ha ottenuto quelle coordinate da una visione con protagonista il maggiore Garland Briggs. Ruth, poi, pare essere stata uccisa in una location periferica e spoglia nella quale Gordon ha una visione di un portale nello spazio, e nella quale Hastings viene ucciso da una forza paranormale. Mentre gli altri membri dell’FBI, tra Gordon che sembra essere ossessionato da sogni e visioni e Tammy che invece entra ufficialmente nella ‘task force’ della “rosa blu”, sembrano sospettare sempre di più di Diane, “Bad Cooper” trova Ray e lo uccide, scoprendo da egli le coordinate che gli mancavano, per poi recarsi da Jeffries nel “convenience store”, ricevendo altre coordinate ancora, forse corrispondenti. In un certo senso, questa trama invece sembra delineare una specie di percorso di complicazione e completamento dei ritmi e degli spazi della crudeltà umana e sovrumana, costruendo se stessa su una nuova versione estetica di un antagonista che è vera prosopopea del male.
A Twin Peaks, lo spaccio di droga (pesante) sembra essere arrivato a massimi storici, tra rash ascellari e vomito esorcistico, tra capi-pusher illusionisti e tossicodipendenze condivise di coppia. In questo gioco continuo, i veri protagonisti sembrano essere i clienti del Roadhouse, che si incontrano nel bar per discutere di faccende personali violente ma incomprensibili, e Richard Horne, figlio di Audrey, che in un momento di paranoia e rabbia mossa dalla droga ha investito un infante, ha tentato di uccidere l’unica persona che l’ha riconosciuto durante quest’atto di violenza spontanea, ha derubato la nonna ed è scappato da Twin Peaks. Il capo del “Fat Trout trailer park” Carl Rodd, dopo essere venuto a Twin Peaks in macchina insieme a un suo amico, il marito di Linda (che non si è vista, però ricordiamo… «Richard e Linda»), ha visto la sofferenza del bambino volare dal suo cadavere verso i cavi elettrici dei pali. Nel “Fat Trout trailer park” peraltro abita Becky, moglie di Steven e figlia di Shelly e Bobby, ma Steven, con il quale ha una relazione tormentata di condivisione di droghe pesanti, l’ha tradita con la sorella di Donna, Gretchen, e si è poi suicidato nella foresta. Shelly, invece, ha lasciato da tempo Bobby e ha cominciato una relazione con Red, il nuovo capo dello spaccio di stupefacenti nella città. La collega storica di Shelly, Norma, dopo una breve parentesi sentimentale con un businessman, si è rimessa insieme con Big Ed, che è stato lasciato dalla moglie Nadine dopo che si è resa conto che per lei la cosa più importante è la di lui felicità – e se n’è resa conto, assurdamente, grazie a un programma web-televisivo del dottor Jacoby basato sull’usare pale dorate per scavare la propria via fuori dalla “merda” della società. Benjamin Horne è ancora direttore del Great Northern, e insieme alla segretaria Beverly, insoddisfatta dal proprio matrimonio, sente spesso un suono ricorrente provenire dalle pareti dell’albergo; invece suo fratello Jerry è passato dall’essere avvocato a essere commerciante legale di marijuana, e si è perso nei boschi come conseguenza di un’improbabile pesante botta psicofisica legata al suo consumo di essa. Sarah Palmer, bloccata in un’esistenza di alcolici, tabacco e televisione, sembra posseduta dal proprio schermo che glitcha e soprattutto da un violento demone. James, sempre perdutamente innamorato di donne che non può ottenere, lavora come guardia di sicurezza proprio al Great Northern insieme a un nuovo personaggio, Freddie, la cui mano destra è coperta da un guanto ottenuto grazie ai consigli del “Fireman” e la cui funzione, legata a una misteriosa forza estrema, non è ancora stata rivelata. Dopo una rissa al Roadhouse a ritmo di ZZ Top, sono entrambi finiti nelle celle della stazione dello sceriffo. La Signora del Ceppo, prima di morire, ha telefonato più volte il vicesceriffo Hawk spronandolo a cominciare delle indagini su qualcosa “che manca”, qualcosa di legato all’agente Cooper e a Laura Palmer. Hawk, con l’appoggio del nuovo sceriffo Truman, fratello dello sceriffo della serie originale, Harry, che è malato, e di Bobby, diventato anch’egli vicesceriffo, di Andy e di sua moglie Lucy, ha dunque cominciato a investigare, trovando 3 delle 4 pagine mancanti del diario di Laura Palmer e trovando indizi lasciati nel passato dal padre di Bobby riguardanti degli eventi che devono accadere nella foresta alle 2:53 – stesso orario in cui Cooper è uscito dalla zona malva. Qui trovano il corpo nudo di Naido, e Andy ha una visione del “Fireman”, che gli rivela il proprio nome e gli mostra immagini di cose già accadute e di cose che devono accadere, sottolineando l’esistenza di due Cooper. Andy salva Naido e la mette nella cella di fronte a quella di James, accanto a un ubriacone che ripete scimmiottando tutto quello che sente e accanto a Chad, poliziotto corrotto in combutta con Richard, appena scoperto per i propri crimini e colpevolizzato dai suoi colleghi per ciò. Nel frattempo, Audrey si è sposata con un nano di nome Charlie ed è diventata amante di Billy, che è misteriosamente scomparso. Tutta la sezione di trama dedicata al mondo di Twin Peaks sembra voler dimostrare come il cambio stilistico effettuato da Lynch con il passaggio dalla pellicola al digitale indichi semplicemente una dilatazione dei tempi e degli spazi, oltre che un’accentuazione sull’eccesso di determinati aspetti più grotteschi e surreali rispetto alla serie originale, mentre il mondo, tecnologia a parte, è rimasto lo stesso di sempre; e, in un certo senso, se la serie degli anni ’90 era un meta-commento sulle ‘soap operas’, questa serie può essere un meta-commento sulla serialità americana moderna, e ciò si concentra soprattutto in come è messa in scena la cittadina stessa di Twin Peaks con i suoi stolti intrighi interni, che nel momento in cui sono raccontati sembrano scempiaggini mentre nel momento in cui sono messi in scena aumentano di complessità in maniera stilisticamente impressionante, in ogni singola sequenza. Come nel videoclip della sua canzone Crazy Clown Time, in cui Lynch mette in scena un party delirante che ha le stesse caratteristiche dei numeri di danza e delle follie giovanili dei normali video musicali pop ma con una messinscena che ne mette in risalto l’assurdità, il regista, attraverso la città-simbolo del suo cinema, sottolinea il delirio implicato dalla narrazione sfruttando immagine e suono, in un lento flusso dal linguaggio incredibilmente complicato.
Questo è probabilmente l’episodio migliore in assoluto della serie per fare un riepilogo, perché è tanto importante nella narrazione da meritarselo quanto poco pregno da un punto di vista di messinscena e stile, eccetto che per qualche sequenza che ha, difatti, un impatto illuminante, in particolare nella seconda parte della puntata. Svariati i risvolti inaspettati: Richard è il figlio del doppelgänger di Cooper, il Cooper vero si risveglia e ha perfetta cognizione di tutto quello che è successo negli ultimi 25 anni della sua vita (ovvero: le logiche della Loggia e la vita che ha vissuto nei panni di Dougie) al punto da agire immediatamente in direzione di un ritorno verso Twin Peaks, la Diane che abbiamo visto sinora è sempre stato un tulpa presumibilmente creato dal doppelgänger di Cooper dopo averla violentata e la realtà in cui vive Audrey, che potrebbe includere parte della realtà che abbiamo percepito attraverso le scene al Roadhouse per tutta la stagione, non è quello che sembra; e se da una parte Richard sembra morire (o essere risucchiato dalla Loggia, chi lo sa), dall’altra anche il tulpa di Diane svanisce nell’aere o nell’etere, diventando un seme surreale e magrittiano. Seguendo l’idea visuale del buio che risucchia tutto, già sperimentata nella macrosequenza del convenience store del glorioso episodio precedente, l’apertura della puntata 16 è proprio immersa in un’oscurità quasi assoluta, illuminata giusto dai fanali della macchina. Con codardia brutale, “Bad Cooper” fa sacrificare suo figlio Richard, simbolo di un male terreno, tramutando se stesso nel principale antagonista (dis?)umano della serie, come costituendo una gerarchia del Male. Mentre da lontano l’ignaro zio Jerry prova a osservare la scena utilizzando un binocolo ma puntandolo nella direzione sbagliata, come se avesse dimenticato il mestiere dello spettatore, come se l’immagine umana appartenente al passato non avesse più capacità di vedere e dovesse cercare di re-imparare come si fa. Una specie di fulmine estemporaneo ed effettistico si abbatte sul corpo di Richard dal nulla, e sulla collina accanto appare enorme l’ombra del suo corpo urlante e disperato, come riecheggiando i vampiri dell’Espressionismo Tedesco secondo lo sguardo di Murnau, o l’apparizione tenebrosa nell’Otello (1951) di Welles del personaggio titolare, presa la decisione di uccidere Desdemona: è l’ultimo lascito di un antagonista definitivo ma costretto a diventare vittima in quanto patetico, infantile, viziato, incapace di proseguire la propria Iliade maligna poiché c’è sempre qualcos’altro che lo può superare, un Male assoluto a cui riferirsi.
Lynch, poi, ha sempre ammesso di essere un fan della neo-serialità americana, riferendosi in particolare a Mad Men e a Breaking Bad. Se di Mad Men probabilmente il regista apprezza l’eleganza, l’aspetto consumistico e la rappresentazione dell’America anni ’60 a cui è tanto legato, probabilmente di Breaking Bad ha apprezzato la resa soleggiata e folle della violenza negli spazi urbani, come dimostra la sequenza con Chantal e Hutch di fronte a casa di Dougie, densa di un’idiozia della brutalità che ha tanto la tensione del western leoniano quanto il senso dello slapstick di Chaplin o la stoltezza programmatica e prevedibile del cinema di Tarantino. È una sequenza post-televisiva e anche, in effetti, post-tarantiniana o post-coeniana, in cui la violenza è ridicolizzata nel momento del suo attuarsi estemporaneo e casuale, come delineando sempre di più la “nuova America” della società moderna che Lynch attacca nel contempo con passività e aggressività, costruendo i suoi eroi, tra i quali Cooper forse è l’unico davvero puro, e i suoi antagonisti, vere personificazioni di una malvagità sottocutanea che intacca più l’umanità come organismo collettivo che i cittadini statunitensi. La scena, imprevista e delirante, si conclude con un’inquadratura che mostra il quartiere di Las Vegas di Dougie con la stessa fotografia giallognola che caratterizza Albuquerque e il deserto in Breaking Bad, con la macchina da presa che va verso l’alto, due personaggi che si spostano, uno che rimane immobile, in una composizione a metà tra un noir classico e una deflagrazione decomposta di un quadro di Hopper. E se Lynch vuole farci credere in questo calderone di stupidità, è probabilmente anche perché vuole farci credere, appunto, nell’eroe. Il risveglio di Cooper è, difatti, un vero e proprio ritorno dell’eroe, un controcanto idealistico quanto grottesco della scomparsa all’Orizzonte dell’eroe stesso che è diventata l’immagine forse più riconoscibile del cinema western in assoluto con il finale di Sentieri Selvaggi (1956) di John Ford. La tendenza al Bene ormai non è più l’unica cosa a caratterizzare la potenza di Cooper, perché è mischiata anche con la generosità del voler donare alla famiglia di Dougie una nuova versione di Dougie stesso, ma soprattutto con la conoscenza e la consapevolezza, il raziocinio che in fondo era la vera cosa alla base dell’osmosi tra Dougie e Cooper che davvero mancava. Questo neo-cowboy sacrificale e illuminato, che ritorna alle origini del proprio “essere l’inizio di questa versione di se stesso” portando il punto focale sul casinò nel quale cominciarono le sue disavventure, finisce per dare alla serie uno dei suoi momenti più densi e commoventi, in quello che parrebbe essere un addio, o forse semplicemente un “arrivederci”, a Janey-E e Sonny Jim, la famiglia con cui ha vissuto per ore e ore di cinema, confermando una specie di senso di non appartenenza che ha tanto un aspetto supereroistico quanto un aspetto noir, tanto un aspetto umoristico quanto melanconico e tragico.
Se la rivelazione legata a Diane può essere stata scioccante per alcuni spettatori, nonostante i sospetti sul suo coinvolgimento emotivo e morale all’interno della trama, la cosa più emotivamente sconquassante della sequenza a lei dedicata sta probabilmente nell’uso della musica e del sonoro, tra il remix di American Woman che avevamo già sentito nel primo episodio della terza stagione e gli spari, tra il campo-controcampo tra lei e un cellulare che cambia orari scomponendo il tempo e il suo arrivo definitivo nel reame impenetrabile della Loggia Nera. La fase problematica però giunge con Audrey, quasi dandoci una risposta alla domanda che ci potevamo esser posti di fronte alla dodicesima, per molti deludente, puntata: «come mai un personaggio chiave per l’estetica della serie è giunto in scena così tardi?». La risposta, probabilmente, sta proprio nel fatto che Audrey è e rimane comunque un simbolo di un qualcosa che è scomparso, e in questa rilettura del cadavere incompiuto che è diventata la serie originale il suo essere se stessa è destinato a essere rimpiazzato dal delirio, dall’assurdo, dal ridicolo, con completa incoscienza del mondo che gira attorno a lei, che, come direbbe Battiato, gira attorno alla stanza mentre danza – un’incoscienza che comprende la morte di suo figlio. Dopo un concerto di Eddie Vedder, la cui canzone originale Out of Sand in un certo senso riassume tutta la storia di questi 25 anni di Cooper, il pubblico del Roadhouse si mette da parte per lasciare spazio, nel centro dell’immagine e della platea, a Audrey, con la band che annuncia l’inizio della Audrey’s Dance di Badalamenti, uno dei pezzi più riconoscibili della colonna sonora originale. Gli spettatori si muovono in maniera finta e meccanica, seguendo il flusso del ritmo e coordinandosi vicendevolmente, mentre la macchina da presa gira attorno a Audrey scomponendo sempre di più il suo ballo, frammentandone le tempistiche a ritmo di musica o a ritmo di montaggio. Un momento caotico, che ricorda la corruzione traumatica che fa parte di Twin Peaks, interrompe quest’apparente utopia per lasciare spazio alla necessità di tornare a casa, la stessa necessità delle scarpette rosse de Il mago di Oz che era stata riletta da Lynch stesso in maniera profondissima col sottovalutatissimo Cuore Selvaggio (1990). Ma il ritorno a casa non si attua con un incantesimo, anzi, non si attua proprio, è solo “evocabile” con il racconto, come può dimostrare la narrazione intensissima dello stupro di Diane, che in realtà ironicamente diventa un distanziamento da casa più che altro – il distanziamento si riflette anche in Audrey, che con l’espressione del desiderio sembra auto-trasportarsi, attraverso un effetto sonoro di scarica elettrica, nel raggiungimento di un momento di autocoscienza che rimane però per noi (e per lei) in ogni caso completamente spaesante, lontano dal reale e sconvolgente, riflettendo il proprio volto in realtà deformato (dall’incendio in banca della seconda stagione?) in uno specchio, in una realizzazione isterica e crudele del passaggio del tempo, in mezzo a un bianco accecante che non vuole darle risposte. E non dobbiamo, forse, aspettarci vere e proprie risposte; ma semplicemente continuare a vedere.
Nicola Settis