«When you’re standing at the crossroads
That you cannot comprehend
Just remember that death is not the end
And all your dreams have vanished
And you don’t know what’s up the bend
Just remember that death is not the end»[Death is not the end di Nick Cave & the Bad Seeds, dall’album Murder Ballads (1996)]
Nella quindicesima puntata di Twin Peaks: The Return, David Lynch è riuscito a mettere in scena un potentissimo flusso di pura emotività. Seguendo narrativamente i due episodi precedenti, l’episodio 15 comunque trova un proprio spazio personale grazie a un susseguirsi di sequenze ben definite, delineate e separate, ma la cui potenza rimane in un certo modo collegata, come spiegando cos’è il simbolo stesso di Twin Peaks negli occhi del regista attraverso varie metamorfosi simboliche, mettendo in discussione il passato, il presente e il futuro di un progetto multimediale versatile che sembra destinato all’immortalità. Una scena che risulta esplosiva per la propria felicità, anche grazie a un uso godardiano di I’ve been loving you too long di Otis Redding, meravigliosa canzone che quest’anno abbiamo avuto la possibilità di ascoltare al massimo della propria potenza anche in Piazza Maggiore a Bologna durante il Cinema Ritrovato con Monterey Pop (1968) di D.A. Pennebaker, viene subito contrapposta a un viaggio interiore nelle profondità del Male assoluto e del nero più denso; un alienante commento cinematografico sulla piaga della tossicodipendenza finisce per precedere due o tre punti di svolta narrativi necessari; e un incredibile ed estremamente sentito tributo che sembra segnare la morte definitiva della serie come la si poteva conoscere negli anni ’90 sfuma in una conferma di questo aspetto attraverso una disperata violenza psicologica inaudita, dimostrando che ancora l’autore riesce a sorprenderci con la propria visione surrealista del mondo. Riassumere 25 anni di narrazione con una sequenza “doppia”, nella quale una storia d’amore che gli spettatori davano per persa riesce a ritrovare il proprio spazio e il proprio innamoramento, peraltro grazie al MacGuffin delle pale dorate del dottor Jacoby che sono state il primissimo tuffo nella realtà della cittadina nel primo episodio della terza stagione, sembra una dichiarazione d’intenti per Lynch su cosa era Twin Peaks più che su cosa è nello scorrere attuale degli eventi e dei suoi simboli. I fili sconnessi della parte soap-operistica della seconda stagione si riconnettono quasi miracolosamente, con un amore forse anziano ma vivissimo, reso dal regista attraverso un piano americano di Big Ed che, a ritmo di musica, diventa un primo piano, fino ad allargarsi per lasciare spazio a Norma, e poi a un bacio – sovrapponendo a questo idilliaco momento di romanticismo, che ha quasi un aspetto spirituale, alcune riprese agli alberi, alla cittadina, al cielo, alle radici naturalistiche e metaforiche di quello che Twin Peaks rimane nell’immaginario collettivo, ovvero un’idea di riconnessione con un mondo semantico e geografico riconoscibile, una specie di spazio visuale americano e nostalgico che però, ormai, digitalizzato, non è più quello di una volta, bensì deve lasciare spazio a una nuova tecnica registica; e, in questa dimensione, la sequenza serve per rievocare quel mondo senza doverlo per forza ricreare, come esagerando nella dimensione di un idealistico amore cinematografico sempiterno per poterne dimostrare la superficialità e l’impossibilità nello stato odierno delle cose.
La luce è presto risucchiata da un nero pece devastante, con fili elettrici che si muovono attraverso l’obbiettivo con ossessività epilettica, presto sostituiti da una strada immersa nel buio, in puro ricordo di Strade Perdute (1997). Ci si trova a penetrare finalmente all’interno di uno dei luoghi più importanti dell’intera opera del regista Lynch, con una macrosequenza horror tra le più dense e angoscianti della sua intera filmografia: tra la carta da parati floreale già vista in Fuoco cammina con me (1992) e nella puntata 11 e l’evoluzione di Phillip Jeffries divenuto pittorica macro-teiera/brucaliffo in un altro piano di realtà, la scena tramite una palpabile tensione è atta a demonizzare le certezze dello spettatore con l’ennesima sequela di enigmi e raffinatezze visuali. Per esempio, in un breve lampo che mette in scena per il nostro sguardo la figura dell’uomo che salta, visto precedentemente solo in Fuoco cammina con me, se si ferma l’immagine nel momento giusto si possono intravedere i volti di un anziano David Bowie (ovvero Philip Jeffries, personaggio chiave che la rockstar britannica non ha potuto interpretare a causa della malattia che l’ha poi portato alla morte) e di Sarah Palmer, presumibilmente “posseduta” dalla creatura, che potrebbe essere una sorta di visualizzazione cristologica del Male, di Babalon, che è una e trina come il Dio cristiano e che dunque è tripartita attraverso tre metamorfosi, l’uomo che salta (Cristo), la Madre (Dio, che non si vede) e l’Esperimento (lo Spirito Santo); l’apertura verso l’ipotetico ma apparentemente inesistente secondo piano del ‘convenience store’, è puramente elettrica, rendendo tale secondo piano, ovvero il luogo in cui i demoni delle Logge abitano, uno spazio se possibile ancora più astratto di qualsiasi altro spazio abbiamo visto sinora (e pur essendo legato al concreto, visto che parte dello spazio è occupata da una scenografia di un motel riutilizzata da una scena ambientata nella realtà di Fuoco cammina con me – pur ricordando che «we live inside a dream» –, la vera astrazione sta nel momento in cui all’interno di questo luogo si possono creare altre, ulteriori finestre verso altri, ulteriori luoghi con al loro interno nuove porte verso l’ignoto); e infine l’inesistenza onirica dello spazio geografico stesso è messa in evidenza da una dissolvenza che crea un’osmosi tra il luogo allegorico e quello fisico, ovvero i boschi. In questo climax della suspense, gli spazi e i tempi sono dilatati e si muovono intorno agli effetti sonori creati dal regista e alla Trenodia per le vittime di Hiroshima composta da Penderecki, tema ricorrente della stagione. In questo inferno sensoriale, che contemporaneamente risponde a domande e ne crea di nuove, introducendo nuovi personaggi e frammentando ancora di più la linearità del tempo, l’unica certezza pare essere l’oscurità, con la sua profondità di campo creata attraverso paradossi di fotografia e montaggio, in un’ennesima manifestazione del Male assoluto composta con l’ausilio del mezzo-cinema. Come definendo in maniera permanente la dicotomia stilistica e contenutistica dell’intero progetto attraverso la contrapposizione tra l’amor vincit omnia di Big Ed e Norma e il noir metafisico con come protagonista il doppelgënger di Cooper, Lynch conclude la prima metà dell’episodio con un riferimento pseudo-fantascientifico che mischia il mito dell’elettricità con l’ossessione per gli UFO di Mark Frost, creando un definitivo punto d’incontro tra i due sceneggiatori; peraltro senza la patina datata anni ’90 della serie originale o di The X-Files né l’epicità semi-plastica della rivelazione “aliena” nel finale di Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (2008) di Spielberg.
Twin Peaks: The Return evidenzia svariate tematiche di sottofondo, alcune delle quali prendono uno spazio specifico in determinati episodi, e tra questi temi possiamo sicuramente enumerare i seguenti: l’eredità morale di generazione in generazione, la degenerazione degli spazi e degli stilemi della serie originale, la distruzione di confini e limiti prestabiliti in favore della costruzione di nuove aperture per la comprensione del mondo, l’importanza del contatto umano e fisico, l’osservazione dell’orrore, la rinascita e la ricrescita secondo i ritmi spirituali di Jung, il Male, la scomposizione della narrazione e dello spazio-tempo, la pazienza e il ruolo dello spettatore. E se la puntata 11 era un riassunto tematico e tonale di tutta l’operazione, probabilmente questo episodio 15 ne è un’evoluzione poiché riesce ad avere lo stesso effetto mandando ancora di più avanti la storia e allo stesso tempo riuscendo anche a essere un riassunto emotivo e simbolico, cerebrale e straziante. I vari cenni alla società malata della gioventù della cittadina di Twin Peaks, tra il rash ascellare di Sky Ferreira nella puntata 10 (e con esso tutti i dialoghi nelle cabine del Roadhouse) e bambine che vomitano come in preda a possessioni demoniache, raggiungono un apice stilistico con una sequenza potentissima il cui ruolo nell’organismo può essere sottovalutato a causa dell’apparente ininfluenza del tutto all’interno della narrazione: la scena che citiamo avviene nel bosco, quell’ossessivo e impenetrabile nucleo dell’attenzione e dell’azione più losca all’interno del meccanismo metafisico che è la serie, e ha come protagonisti Steven, marito tossicodipendente e autodistruttivo della figlia di Shelly, Becky, ovvero un personaggio nuovo della serie, e Gersten Hayward, figlia più piccola del dottor Hayward e sorella minore di Donna (la quale è forse l’assenza più cruciale nel cast della serie), ovvero un personaggio già presente, pur per poco, nella serie vecchia. Questo contrasto tra vecchio e nuovo, che è solo e soltanto puramente idealistico considerato che i due personaggi appartengono più o meno alla stessa generazione, una generazione che Lynch rappresenta come un coacervo inquietante e ambiguo di rapporti tra ruolo di carnefice e ruolo di vittima all’interno di uno spazio corale, è come se finisse per soccombere, perlomeno visivamente ma anche uditivamente, alla maestosità scenografica e naturalistica del bosco stesso. La magnificenza di questo ipotetico male che è reso tale solo e soltanto dalla mente umana e dunque dalla paura, che è appunto tra i principali punti di focalizzazione dell’intera serie sin dagli anni ’90, sovrasta un dialogo enigmatico quanto tragico e allucinatorio nei suoi deliri probabilmente derivati dall’eccesso di stupefacenti. Gli sguardi di Steven e Gersten si posano sui tronchi degli alberi, quando fuori fuoco per lasciare spazio ai loro più intimi, egoistici e autocommiseranti interessi personali, con un crescendo ritmico musicale che giunge alla propria definitiva conclusione nel momento in cui un passante, interpretato dal co-creatore della serie Mark Frost, li vede per caso. Anche il riconoscimento, e dunque il campo-controcampo, diventa uno e trino, proprio come il cinema e proprio come il Male, dimostrandosi in una sua terza manifestazione, dopo essere stato sintomo di tragedia e di tenerezza: qui è sintomo di prologo per l’orrore, dal quale è scaturito un suicidio fuori campo che diventa una sorta di liberazione.
Un altro dei temi principali della puntata è la morte, o forse è meglio dire la percezione di essa. In un mondo ipoteticamente confuso e frammentato da uno scorrere del tempo inusuale, il suicidio di un drogato come Steven ha seriamente un sincero impatto sull’organicità del mondo, mentre un brutale doppio omicidio a Las Vegas, che peraltro colpisce due personaggi ambigui ma ben definiti a livello di importanza all’interno del racconto, sembra quasi scomparire nell’aere. L’unico lascito di questa azione, compiuta da Chantal, trista mietitrice col volto e corpo di Jennifer Jason Leigh, è un buco cruento nel tessuto dell’immagine, come creante un’illusione di pellicola, di bruciatura di sigaretta come in INLAND EMPIRE (2006) con le proprie ossessioni formali e mediatiche. La forma definitiva dell’omicidio pare essere dunque una sua evoluzione grafica che perfora l’immagine, la priva di una spazialità e di un significato, trattando con superficialità non solo la morte ma anche la sua etica di fondo da un punto di vista spirituale e religioso, come Chantal dimostra parlando col marito Hutch (Tim Roth) in una conversazione quasi tarantiniana sul nulla e sui valori cristiani nel discutere il nulla e il divenire del nulla – nel senso esplicitamente emotivo del termine ‘nulla’, nel senso di morte, nel senso di vuoto, come quel cielo senza stelle che osservano e che riecheggia la canzone composta da Lynch e cantata da Rebekah del Rio alla fine dell’episodio 10, No Stars. Questa sottovalutazione del potere della morte da parte degli individui, strettamente legata alla iper-valutazione del delitto creata attraverso effetti speciali volontariamente fuori contesto, viene contrapposta a un lutto simbolico già indimenticabile: la morte per malattia della signora del Ceppo, uno dei simboli più eccentrici e riconoscibili del Twin Peaks di una volta. Del resto, l’attrice che la interpretava, ovvero Catherine Coulson, morta nel 2015 poco prima dell’inizio delle riprese della serie, è sempre stata una collega e amica stretta di Lynch, sin dai tempi di Eraserhead (1977) e del matrimonio tra lei e Jack Nance, attore feticcio del regista, morto nel 1996 e apparso praticamente in tutti i suoi film fino a Strade Perdute. In memoria della Coulson era stato dedicato il primissimo episodio della stagione; invece questa puntata mette in scena l’ultima straziante telefonata tra lei e il vice sceriffo Hawk, che si ritrova a darle l’addio definitivo mentre il suo ceppo “diventa d’oro”, con lei che piange, la luce della sua casa che si spegne con grazia e Hawk che giunge a dare la triste notizia ai suoi colleghi, come un foriero di morte che appare dal buio, opposto di Laura Dern in Velluto Blu (1986), e scompare in una dissolvenza tra gli alberi. Ed è dunque giusto, come conclusione di un discorso simbolico, che l’episodio sia dedicato non più a Catherine Coulson bensì alla memoria di Margaret Lanterman, il nome “veritiero” del personaggio. Con la morte della signora del Ceppo muore un simbolo della serie, anzi, muore, forse, la serie stessa; ma se ne va con classe e gentilezza, ricordando che la morte non è la fine ma un cambiamento, e che Twin Peaks: The Return in parte parla proprio probabilmente di questa transizione, di questo spazio intermedio, sempre messo in discussione e visualizzato. Con questo luttuoso tributo è definitivamente confermato come la serie sia un progetto sul simbolo, o meglio sui simboli portati dalla serie, sul rapporto interno-esterno tra il mondo di Twin Peaks e la realtà, includendo l’influenza che l’una può avere sull’altra e viceversa. C’è scritto “Margaret Lanterman”, ma è sempre inteso e implicato “Catherine Coulson”, con la sua intensa interpretazione capace di riempire lo schermo con il suo dolce viso segnato dal tempo e dalle rughe e di riportare in auge lei stessa. L’opera d’arte sulla morte dell’artista che include riferimento alla mostra dell’artista non è una cosa completamente inedita nel cinema, e basti vedere certi sforzi nel cinema sperimentale che possono includere anche One cut, One life (2014) di Pincus, ma una tale osmosi tra personaggio e attrice rimane probabilmente una scelta artistica a suo modo senza precedenti che combatte come non mai la morte stessa all’interno di un meccanismo di finzione. Nel resto dell’opera di Lynch la morte è sempre stato un fantasma, una parte dell’incubo, un frammento di realtà destinata a ripercuotersi all’interno di essa fino ad annientarne determinati aspetti; qui definitivamente diventa un mostro da sconfiggere e che non può essere sconfitto, ma che il cinema più di ogni altra cosa può mettere in discussione, anzi deve mettere in discussione, in questi tempi bui e carnali in cui la spiritualità necessita sempre di più uno spazio all’interno dell’immagine, una luce.
La forza sovrumana e quasi parodistica di Freddy Sykes irrompe al Roadhouse dando vibrazioni à la One Punch Man e creando umorismo semi-volontario e violento all’interno del grottesco, interrompendolo e discutendolo. La furia misantropa di Audrey Horne, che pare sempre più fuori dal mondo, e gli schiamazzi scimmieschi che continuano a perseverare tra le celle di Twin Peaks fanno da cornice a due scene chiave: una rivela sia un fattore strettamente narrativo che uno filosofico incredibile per la comprensione della serie e la crescita all’interno del suo meccanismo, l’altra invece rivela un aspetto emotivo disperato e disperante che fa da sottofondo drammaticissimo al tutto. La prima ha come protagonista il protagonista vero e proprio della serie, Dale Cooper, ancora all’interno dell’identità di Dougie Jones. Continuando nella famigerata catatonia che incarcera Cooper più o meno sin dall’inizio della serie, il nostro protagonista aggeggia con un telecomando, MacGuffin simbolo della televisione stessa e del suo potere decisionale che era già stato usato come simbolo-arma involontaria nella puntata 10, finché non preme inavvertitamente il tasto per accendere il televisore. Per ogni cinefilo, probabilmente, quello che segue è stato un momento di emozione incontrollabile. Lo schermo trasmette una scena di Viale del Tramonto (1950), capolavoro di Billy Wilder che da sempre è stato tra le principali ispirazioni del regista, in particolare per quello che forse è ormai il suo film più celebre, Mulholland Drive (2001). Lynch ha sempre detto che il nome del suo personaggio all’interno della sera, Gordon Cole, è un diretto riferimento a un personaggio secondario proprio del film di Wilder; la scena su cui si sintonizza Cooper in questo momento sublime è proprio una scena in cui Gordon viene nominato, peraltro da un Dio riconoscibile del cinema del passato, Cecil B. DeMille nel ruolo di se stesso, che riempie lo schermo con la propria inequivocabile prorompenza. Tutte le teorie immaginabili e immaginate dai fan e dai seguaci della serie su come sarebbe potuto avvenire il risveglio di Cooper dal suo stato di crisi d’identità, nonostante molte di esse potessero essere decisamente convincenti e coerenti con l’operazione da un punto di vista narrativo, non avevano comunque messo in conto la potenza del cinema, quest’essenza dell’esistenza di un riconoscimento che possa andare attraverso lo schermo, verso il passato, verso l’amore per l’immagine e il richiamo all’interno di essa. Tutto è cinema, la vita e la televisione, il mistero interno e quello esterno, nel momento in cui il cinema si fa fattore simbolico di discussione tra un mondo e l’altro, cioè tra questi universi elettrici in conflitto che si amano e si odiano ma che risvegliano i sensi aprendo nuove porte, nuove storie, nuovi innamoramenti, nuove morti. Il momento definitivo della serie arriva dunque attraverso il cinema, attraverso la sua potenza sconfinata e i suoi stilemi abbaglianti che bucano il tempo, lo spazio e le nostre certezze. Un momento definitivo non solo per la storia ma anche per la crescita di Lynch stesso come autore, come se ancora lui potesse riscoprire l’arte con cui è diventato celebre e importante attraverso se stesso, compiendo discorsi sull’interno e sull’esterno, e sul passaggio del tempo. Quegli anni ’50 e dunque quel cinema se ne sono andati, ma se Twin Peaks: The Return rappresenta davvero, in un modo o nell’altro, un’indecisione tonale ed estetica che forma le proprie radici dal terreno di tutto il cinema tentando di riassumerne gli stilemi e la compattezza, allora l’immagine deve rinascere per la precisione da lì, dal riferimento citazionista che mai come oggi è tutt’altro che superfluo, che mai come oggi è assolutamente necessario per capire la settima arte, il suo futuro il suo incomprensibile pesante. E l’altra sequenza chiave, il finale al Roadhouse con in sottofondo il concerto dei The Veils che suonano Axolotl e con come protagonista una ragazza asiatica che si allontana gattoni dal suo tavolo, dal quale è stata spostata da due energumeni, forse non ha una valenza completamente cerebrale, simbolica e cinefila allo stesso tempo come nell’altra scena appena commentata, ma la forza emotiva e disperata che questa conclusione scioccante sprigiona grazie a quell’urlo che sfuma su nero è già iconica ed emblematica in riferimento forse a simboli e a fuoriuscite da essi che non possiamo ancora capire, ma che già possono spezzarci il cuore e portarci via l’anima. Il cerchio sta per chiudersi, come diceva la signora del Ceppo, ma le urla continuano; mancano tre ore alla fine di tutto, alla conclusione del progetto audiovisivo narrativo dal linguaggio più stratificato degli ultimi anni, ed è sempre più difficile discuterci e discuterne, e in un momento così forse la catarsi deriva più dall’emozione pure che dal ragionamento. E dobbiamo, d’ora in poi, ascoltare i suoni sempre più intensamente, perché, come presagivano i Chromatics sin dall’inizio, sta per essere l’ultima volta.
Nicola Settis