Twin Peaks: The Return è una sfida allo spettatore, è un gioco complessissimo con la sua sensibilità, è un riassunto surreale sia di un secolo di cinema sia soprattutto dei 40 anni e più che David Lynch ha passato innovando l’immagine cinematografica. E a volte, è anche implicato un lavoro di pazienza da parte di chi guarda. Gli ammiratori più sguaiati e dichiarati dell’autore sono sempre stati pronti a difendere il prodotto in tutte le sue sfaccettature, dalla stratificata struttura narrativa all’approccio completamente innovativo nei confronti della scissione tra impianto televisivo e impianto cinematografico, dalla rilettura metafisica della forma digitale alla messinscena grottesca del male assoluto e delle sue diramazioni mitologiche all’interno del reale, dalla manifestazione simbolica della nostalgia e del passato della serie originale degli anni ’90 a una serie di trovate visionarie capaci di rendere anche il minimo dei dettagli una clamorosa presa di posizione nei confronti dello stato attuale dell’arte video e della narrativa televisiva. In ciò, sembra che una delle idee di base sia stata mettere in scena una serie di misteri suggestivi e parentesi divaganti capaci di confondere in continuazione il pubblico, ma con una forma che, pur fondando gran parte della propria tensione verso un crescendo narrativo ed emotivo che forse ha avuto i propri apici con gli episodi 8 e 11, spesso basa parte della propria densità sulla dilatazione dei tempi, sul seminare gli indizi uno a uno, ovvero, insomma, sulla costruzione di un mondo, di un umore, di un tema. Il che ha portato molti, compresi fan della serie e dell’autore, a spazientirsi, a trovare problemi con questa nuova idea di narrazione che, tra un colpo di scena e un altro o tra una sequenza di culto immediato e un’altra, si ritrova spesso ad avere dei tempi morti. Non è una cosa che può essere controllata, è una cosa che semplicemente fa parte dell’idea su cui si basa la serie, e anche in altri capolavori di Lynch possono essere trovate sicuramente scene che non aggiungono nulla al comparto contenutistico del tutto: si può prendere come esempio Mulholland Drive (2001), un film su cui è praticamente impossibile fare critiche, ma che contiene almeno una, singola scena sconnessa dal resto sia all’interno dell’intreccio sia all’interno del discorso sull’illusione e sull’amore che il film analizza per tutta la sua durata – e, in questa dimensione, si può riportare alla mente come esempio ideale la scena dell’energumeno infantile che picchia fino allo svenimento la moglie di Justin Theroux e il suo amante interpretato da Billy Ray Cyrus. Una scena che non aggiunge nulla, semplicemente fa parte del film senza privarlo di naturalezza. Nella dodicesima parte di The Return, un personaggio viene assassinato, un vecchio personaggio viene rimesso in scena, e vengono spiegate due piccole rivelazioni dalle implicazioni precedentemente prevedibili. Ci sono pochi elementi che si muovono, all’interno di uno spazio di raccordo necessario, tra i quali una prostituta francese (interpretata dall’ex-Bond girl Berenice Marlohe, recentemente vista in Song to Song di Malick accanto a Rooney Mara), un nano, un uomo che ha rischiato di essere investito, un fucile e una chiave che scompare fuori campo, o diventando oggetto funebre o aggiungendosi al mistero di base della serie. Questa puntata ha il triste rischio di essere, nel sottotesto meta-mediatico del progetto, una proiezione “allungata” di quella scena di Mulholland Drive, di quel momento breve e apparentemente inutile che vive a prescindere dal resto.
Vi chiederei di perdonare i seguenti personalismi, che forse sono davvero necessari, come e più di altre volte in passato, nel cercare di comprendere lo spazio che un determinato tassello di questo enorme puzzle può avere all’interno di questo meccanismo. Sono da sempre stato uno dei più grandi sostenitori del revival di Twin Peaks, sin dai primi due episodi che per molti erano stati alienanti, seguendo il progetto in tutto il suo lavoro di rielaborazione del passaggio del tempo e nel suo rincorrersi continuo tra piani narrativi. La dodicesima parte, che rimane necessaria all’interno dell’operazione e che quindi comunque mi trovo a difendere a spada tratta, mi ha fatto comunque capire il punto di vista dei detrattori. Mi ha fatto capire il bisogno di spazientirsi di fronte a certe scelte stilistiche, l’irritazione di fronte alla lentezza di sketch grotteschi e prolissi e il personale astio nei confronti dell’eccessiva libertà che si prende Lynch in determinate situazioni. Certo, 18 ore sono tante, e ciò non fa che giustificare il fatto che un episodio così possa esistere e possa arrivare in questo determinato momento, a poche ore, all’interno della trama, da un climax che dovrebbe e dovrà essere chiave definitiva (un concentramento in direzione di Twin Peaks come luogo fisico, dove sta presumibilmente per arrivare il “Cooper cattivo”, dove andrà la polizia della cittadina dopo le scoperte fatte nell’episodio 9, e dove sembra andare forse pure l’FBI dopo un recente ritrovamento di cadavere), e comunque in 6 ore può succedere di tutto. Viene spiegato il significato delle parole “Blue Rose” che dal 1992 ossessionano la mitologia della serie senza una spiegazione definita (nonostante sia supponibile), ed è scandito duramente dall’energetico «Let’s Rock!» di Diane, che riecheggia una delle scene più celebri della serie originale. Dalle note dell’inquietante colonna sonora di Fuoco cammina con me (1992) che si sentono durante una crisi di nervi della mamma di Laura Palmer, che sembra nascondere qualcosa in quella che è sicuramente la più inquietante scena dell’episodio, si passa a una lenta e forzata discesa nel mondo del “già visto”, con una galleria di nomi e volti sconosciuti e fuori contesto, affiancati invece da altri a cui siamo sin troppo affezionati: se Dougie/Cooper qua appare giusto mezzo minuto in un’immagine bloccata nel tempo che sembra essere stata inserita solo per rinforzare lo “Starring KyleMacLachlan” con cui iniziano i titoli di coda di ogni episodio, un viso riconoscibile che invece appare molto a lungo è quello di Audrey Horne, personaggio di culto interpretato da Sherilyn Fenn, che sinora non aveva messo piede in The Return. La sua vita è sconvolta da eventi di cui non sappiamo niente, ha un amante di nome Billy ed è sposata con un borioso nano che non valorizza la loro relazione né le necessità di lei. In un dialogo lungo 10 minuti e rotti, praticamente nulla di tangibile accade, non vi sono riferimenti pregressi: è un’apertura verso una nuova porta, che verrà definitivamente spalancata nel futuro remoto. Benjamin Horne si dedica a un monologo nostalgico, su una figura paterna mai vista, ripercorrendo l’idea del padre osceno lynchano anche manifestandolo nella propria assenza. “Hutch”, interpretato da Tim Roth, compie un omicidio su commissione e il suo freddo occhio assassino penetra il mirino come un obiettivo, un po’ come Peeping Tom (1960) e un po’ come La farfalla sul mirino (1967) di Seijun Suzuki, in un exploit brutale, sconnesso. Due ragazze parlano (apparentemente) del nulla in un bar e vengono raggiunte da un uomo, appena uscito dagli arresti domiciliari. I Chromatics, che erano già apparsi alla fine della seconda puntata, si dedicano a un brano strumentale che non ha il fascino iconico che aveva Shadow ormai più di due mesi fa. Il concentramento verso Twin Peaks diventa digitalizzato, attraverso un letterale zoom su di una schermata di Google Maps. Sono tutte piccole pennellate raffinate in un mondo che invece sinora si è presentato come un teso calderone di ossessioni: è una puntata spettrale, vacua, che gira a vuoto in un’attesa snervante di un’implosione, mostrandone soprattutto i retroscena come a voler confermare che certe cose, in un’unità di tempo e spazio definita come la cittadina titolare, non cambiano mai o quasi, per tensione o per semplicità, anche quando i personaggi messi in scena sono ignoti.
Da un certo punto di vista, il mio non apprezzamento dell’episodio (almeno a livello intuitivo, momentaneo, legato alla prima esperienza e alla prima visione) mi ha aiutato a comprendere ancora di più la complessificazione delle carte in tavola, confondendo quello che può essere messo in scena e quello che no, connettendo questi nomi così enigmatici e misteriosi, come il più volte ripetuto Billy che forse avevamo visto e sentito nominare nell’episodio 7, in un più complicato e ampio (dis)ordine delle cose. Twin Peaks: The Return è diventato ufficialmente una sfida anche per il sottoscritto, mentre mi era parso sino ad ora soprattutto una magnum opus del digitale e una sorta di riassunto degli stilemi di Lynch: la rigenerazione del surrealismo, la rinascita junghiana che si incrocia con il cancerogeno dissiparsi dell’odio, della misoginia e della violenza, il continuo confrontarsi tra passato e presente tra cose che sono cambiate e cose che sono rimaste uguali, e anche i fantasmi delle proiezioni dei mondi cinematografici e audiovisivi dell’altrove, con il ripetersi di simili simbolismi in nuovi contesti, con per esempio i nani che scompaiono dall’assurdo e piombano direttamente nel concreto, che siano violenti a livello primitivo e istintuale o più sottocutanei, inquietanti, chiusi in se stessi. Se Lynch, comunque, crea una visione di realtà, e dunque di vita, il tempo morto rimane necessario – anche perché ciò che è morto può sempre essere riscritto, rinnovato, portato in avanti da nuove logiche e nuovi eventi, nuove immagini e nuovi contesti, nuovi riempimenti e nuove finestre su passato, presente, futuro. Il tempo rimane dilatato perché così dev’essere, e il diluirsi degli schemi narrativi, che lasciano spazio e tempo a uno scorrere degli eventi sintatticamente reso, qui più che mai, come un’esplosione cadaverica, è straziante, nella lentezza e nei marcescenti ritmi interni; i quali, comunque, si confanno a un’idea coerente, a una scansione dei tempi televisiva e a un’espansione viscerale di quest’idea fuori dai limiti della serialità come solitamente impostata. Il vuoto, che sia davvero vuoto o che dia un’illusione del vuoto (e, per questo episodio, è difficile dire quale sia la realtà), riempie, o forse meglio può riempire. Le sensazioni negative della prima visione non possono che rimanere, in particolare per determinati spettatori, ma forse questa è solo un’ennesima maniera per l’autore di mettersi in gioco mettendo noi spettatori in gioco: il fatto che ci sia poco da discutere non può fare altro che collocare in maniera definitiva questa dodicesima parte nell’ingranaggio in una posizione difficilmente collocabile e realizzabile, in uno spazio a parte che non necessita respiri ulteriori ed esterni. L’orrore sfocato che arriva, decentrato, diventa uno sguardo assassino e circolare nel mezzo del buio, e il resto è accantonato in lunghe conversazioni, in un modernismo strisciante che inquieta senza richiedere spazio ad altro se non all’atto di fede che sembra sempre di più essere richiesto. Audrey a un certo punto dice che «I sogni, a volte, portano mano a mano alla verità» – e, se ciò è vero, allora The Return è un sogno che nasconde una verità o che deve portare in essa, deve penetrare in essa, e per farlo cerca svariati punti di contatto all’interno di sé. Ed è complesso, ed è frustrante. E forse giungere al punto di non riuscire ad apprezzarne pienamente un segmento fa anch’esso parte del meccanismo e di questa insolita follia, che sorprende ogni volta in maniera diversa, anche contattando l’interiorità più profonda degli spettatori, i loro gusti più realizzati, le loro emozioni più nascoste – e, con esse, la loro assenza, lo schermo spento, l’autoanalisi e la rabbia.
Nicola Settis