TWIN PEAKS – STAGIONE 3 (Episodio 11) (2017), di David Lynch
Siamo nel bel mezzo di un crescendo. Le piccole cose stanno diventando sempre più simili a chiavi per l’intendimento, e le cose più grandi stanno sempre di più diventando grandi. Twin Peaks: The Return verrà ricordato, tra i prodotti di David Lynch, come uno dei più ambiziosi e complessi, e per molti sembra non essere un pregio: è difficile forse capire quanto rimarrà nell’immaginario collettivo oltre gli appassionati del regista che sono sempre pronti a difendere a spada tratta le sue decisioni stilistiche. Questo perché, indubitabilmente, il revival della serie anni ’90 sta attraendo verso di sé una notevole attenzione mediatica e critica che è quella che sicuramente si merita, ma rimangono sempre in parte del pubblico delle perplessità nello sguardo e nella comprensione, nel tentativo continuo di decodificazione dei mezzi e degli scopi all’interno di questa logica così a metà tra la logica televisiva e quella cinematografica. È stato detto che forse la serie va vista come un film di 18 ore e va visto tutto di fila, ma è anche stato detto che vedere un episodio a settimana accresce la tensione e lascia più spazio allo spettatore per immagazzinare i dati della visione e per emozionarsi maggiormente a ogni nuovo tassello di narrazione. Ed è stato detto qualcosa per ogni episodio della serie, considerando che ognuno di essi contiene in sé un qualcosa di magnifico e mai visto: le prime due puntate come oscura e criptica reintroduzione in un mondo che non è più quello che credevamo di conoscere, la terza e la quarta come costituzione di un nuovo linguaggio televisivo in cui il surrealismo mistico è spostato dal montaggio fino al sonoro e dal sonoro fino alla fotografia in un continuo cambio di registro, la quinta come inizio del vero e proprio puzzle narrativo, la sesta come dilatata allucinazione capace di svelare misteri e riassumere tutta l’opera del regista in pochi istanti (l’incredibile scena dell’investimento del bambino), la settima per ricchezza dei dettagli nel riuscire a riunire i fili rossi della trama, l’ottava per la propria struttura rivoluzionaria da poema epico di approfondimento capace di mischiare 2001: Odissea nello Spazio (1968) di Stanley Kubrick con l’horror in un buio pesto e quasi muto che sembra essere vera manifestazione filmica del male assoluto, la nona come proseguimento impeccabile della narrazione attraverso gli sguardi e la decima come cupo promemoria dell’oscurità implicata in questo universo fittizio attraverso intense canzoni e scene thriller ossessive. In tutto ciò, l’undicesima puntata riesce ad approfondire tutte le puntate precedenti risultando un definitivo riassunto tematico e tonale, passando dalla tensione allo sperimentalismo mistico e poi dalla ripetizione sonora (il clacson come il pupazzo parlante dell’episodio precedente o come il «Gotta light?» del boscaiolo nell’agghiacciante finale dell’ottava) alla leggerezza sincera e commovente del finale sentimentale.
L’intento del regista, e qui sembra più chiaro che mai, pare essere quello di riscrivere il proprio mondo in una nuova chiave che ne dimostri la confusione e la grandezza in egual misura, usando come principali punti di riferimento il passaggio del tempo e l’apparente sconclusionatezza sensoriale e grafica delle sequenze prese singolarmente. Se l’opera alla fine sembra mancare di organicità forse è perché il principale scopo non è quello di compiere un qualcosa che rientri perfettamente nei canoni della linearità in senso stretto, e l’idea basilare che manda avanti tutto potrebbe semplicemente essere la fondazione di un impero semi-onirico basato sulla coralità. Se l’introduzione del personaggio di Becky nella quinta puntata poteva già sembrare una specie di spiegazione sul valore romantico, estatico e tragico della sua esistenza, grazie alla canzone I love how you love me delle Paris Sisters che sembrava deformarle il volto scandendo le sue espressioni facciali un inquietante e dolcissimo sorriso sacrificale, allora questa sua nuova apparizione può benissimo confermare come la ciclicità del tempo interessi al regista e a Mark Frost per delineare al meglio il pulsante caos di un mondo che non ha mai smesso di essere assurdo e (sic) dotato di cuore selvaggio. E se Becky e Steven sembrano rappresentare il massimo raggiungibile dalla strisciante violenza di questo mondo di Twin Peaks forse più che mai corrotto (insieme magari all’insopportabile Richard Horne e alla tossicodipendente malata Ella, che in questa puntata non si vedono), il bambino che spara per sbaglio all’interno del Double R Diner e la ragazza che vomita in macchina possono rappresentare una specie di più esplicita manifestazione del crudele dolore che sembra specchiarsi nel futuro, corporalmente e fisicamente, mischiando la parodia di Alfred Hitchcock presenta con una disgustosa apparizione romeriana (che coincidentalmente ci ricorda quanto già ci manchi il regista di Zombi). Oppure un corpo mezzo morto può essere trovato nel nulla da dei ragazzini, in stile Stand by me. Più si vede la cittadina di Twin Peaks più si sente un ritorno dell’atmosfera tradizionale originale, ma allo stesso tempo, tra la grana della fotografia digitale e lo scorrere frammentato di eventi apparentemente irreali, Twin Peaks definitivamente potrebbe avere parte dell’umore che aveva in passato ma non è lo stesso luogo che la cultura pop ricorda sotto una luce così falsamente positiva. È un mondo sempre più simile a quello di Fuoco cammina con me (1992), un mondo in cui il romantico esiste ma è soffocato dalle apparizioni metafisiche di un mondo altro che sembra sempre poter penetrare nel momento più inaspettato all’interno di un’idea di realtà marcescente e gremita di pessimismo cosmico. La canzone No Stars alla fine dell’episodio precedente già presagiva una profonda discesa all’interno dell’oscurità, forse anche a causa della voce di Rebekah del Rio che già in Mulholland Drive (2001), attraverso una cover in spagnolo di Crying di Roy Orbison, aveva avuto un effetto simile. E quindi non possiamo che scendere, come già ci aveva suggerito il boscaiolo alla fine dell’episodio 8, in questo brutto sogno in cui non ci si può fidare neanche del reale, come in una perpetua frapposizione semantica tra manipolazione delle aspettative dello spettatore e scelte di linguaggio grottesche e teoriche come quelle di Velluto Blu (1986) e di Strade Perdute (1997).
Il grande pregio di quest’episodio forse è quello di evidenziare, attraverso la propria tripartizione, una vera e propria scissione in tre parti della serie sia da un punto di vista di genere cinematografico sia da un punto di vista di interessi tematici nelle sottotrame: c’è la cittadina di Twin Peaks, ovviamente, con il suo incrociarsi a volte comico di volti e situazioni, in un continuo pericolo a causa di una riscoperta di sé che risveglia i fantasmi del passato in un registro giallo/thriller; ci sono le indagini dell’FBI che, insieme ai misteriosi eventi di Buckhorn e alle avventure del doppelgänger di Cooper (che non vediamo da un po’…), sono più legate al genere horror e a una sorta di universo noir in una decomposizione surrealista; e c’è ovviamente Cooper, a Las Vegas, che, attraverso una serie di atteggiamenti infantili e comatosi, replica l’idea di una rinascita in una nuova identità, inseguito da assurde sfortune che neutralizza più o meno involontariamente in un processo nel contempo esilarante e struggente. Per quanto riguarda l’aspetto horror, quest’episodio con una sola macrosequenza manda molto in avanti la trama, tra cadaveri ritrovati e omicidi evanescenti con sangue sfacciatamente computerizzato. Lynch stesso si mette in scena utilizzando il proprio personaggio Gordon Cole come mezzo di comunicazione tra i due mondi dopo la spaventosa allucinazione dell’episodio precedente in cui ebbe modo di vedere Laura Palmer in uno squarcio verso il passato, finestra temporale capace di confermare sospetti e aumentare il mistero sull’importanza di quella ragazza morta 25 anni fa. Nel cielo sembra vedere un’apertura verso la zona, un luogo ancora quasi sconosciuto che sin dal nome riecheggia in egual misura Andrej Tarkovskij e Rod Serling, in un vortice che sembra farlo quasi scomparire in un effetto a metà tra un raggio traente di un UFO e l’apocalittico Black Hole Sun del celeberrimo video musicale dei Soundgarden. Le lenti deformano l’immagine in una sfocatura sokuroviana, le scale, che in Jung rappresentano un viaggio verso l’alto e quindi verso la sconfitta di propri demoni personali, sono bloccate da quegli stessi demoni e fantasmi che sembrano sempre di più ossessionare l’intero mondo della serie, in una stanza che pare essere decorata come l’area con la carta da parati floreale in Fuoco cammina con me – e non possono che fioccare mille teorie, su come per esempio Laura Palmer sia rimasta, all’epoca, bloccata all’interno del quadro, e a morire sia stato il suo doppelgänger (che i boscaioli stiano bloccando lo sguardo verso quella realtà, e stiano in realtà “allontanando” Laura Palmer?). Il regista insomma è pronto a scomparire all’interno dell’immagine ma è anche pronto a non dimenticarsi di tenere i piedi per terra nel definire la distinzione tra la finzione reale e il mistico. L’orrore permane e diviene alienante pure per l’autore stesso della sua mitologia, sottraendo le aspettative in un oscuro campo-controcampo che in un certo senso ricorda la citazione più abusata di Friedrich Nietzsche: «e se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». L’abisso qui però è il cielo, la manifestazione di questo male, che è un fuoco nero composto da morte ed elettricità moderna, come dice Hawk, e va visto verso l’alto o verso l’altro, in una divina umanità disumana che a volte necessità analisi ma a volte deve lasciare lo spazio all’intolleranza immotivata del istinto primordiale. E torna il canto funebre alle vittime di Hiroshima di Penderecki, creando un’osmosi tra quell’errore/orrore nucleare malefico, in cui eravamo entrati ormai più di un mese fa in maniera sconvolgente e inaspettata, e questo nuovo sguardo verso l’alto, verso quel cosmo che, osservato da Laura Palmer in Fuoco cammina con me, sembrava presagire un’infinita caduta verso un destino inesorabile.
Ciò ci lascia dunque soli con Cooper nel corpo di Dougie, che viene ironicamente sempre più trattato come un figlio dal suo capo che fino ad allora lo aveva sottovalutato, nel giorno dell’incontro con i fratelli Mitchum, protagonisti dell’episodio precedente in cui avevano dimostrato di essere nel contempo minacciosi e autoparodistici. Tra una visione e un mezzo risveglio, Dougie passa attraverso una Las Vegas da videoclip, in un exploit che sembra uno spot turistico, a ritmo di Viva Las Vegas di Elvis Presley reinterpretata da Shawn Colvin. L’operazione è simile a quella di Mulholland Drive nei confronti di Los Angeles, in una visione distruttiva che è basata sull’idea di una costruzione di un mondo-set plastico, in cui tutto è possibile finché rimangono i sogni. Sogni magari premonitori, come quello di Bradley Mitchum (Jim Belushi) che finisce per salvare Cooper da quella che altrimenti sarebbe stata una morte sicura – e il sogno è talmente importante che i fratelli Mitchum sono la vera focalizzazione dell’azione e della contemplazione nell’intera scena, con il protagonista della serie che rimane al centro ma in sottofondo, sfocato. Come al solito la chiave si deve trovare nell’inconscio, non nel reale, forse proprio perché in sottofondo c’è la coscienza di una comprensione del fatto che la finzione cinematografica in quanto finzione cinematografica non è reale – è “non-existent”, parafrasando l’evoluzione del braccio. La conclusione è una riunione attorno a un simbolo, la celebre torta di ciliegie che più che un simbolo di nostalgia diventa un simbolo di unione in una passione verso il bene: un bene che in realtà per i fratelli Mitchum è un bene individualistico, mentre per Cooper è un bene assoluto e forse questa sua pulsione verso il bene è l’unica cosa che gli è davvero rimasta, l’unico tratto caratteristico del suo personaggio originale che ora, in questa nuova versione digitale che presto dovrebbe risvegliarsi, pare annaspare in ogni direzione e in ogni modalità nel sondare la realtà. Ad accompagnare quest’ultima commovente sequenza che sembra essere anche uno dei principali momenti di presa di coscienza per Cooper, in sottofondo v’è un pianista che suona un nuovo brano di Badalamenti che sembra un po’ mischiare il tema musicale originale di Laura Palmer con il notturno in mi bemolle maggiore di Chopin e con Oci Ciornie. Ed è tra quelle note che ci si perde, come in una nuova melodia che vive in direzione di una manifestazione di questo bene, che deve sconfiggere il male, che deve essere inserito nel contesto di una lotta sempre più complessa. Una lotta tra immagini e tra sguardi, volendo.
Nicola Settis