TWIN PEAKS – STAGIONE 3 (Episodio 10) (2017), di David Lynch

Ogni settimana si possono programmare cose da dire e da aggiungere nello scrivere qualcosa di Twin Peaks: The Return, cose che si sono dimenticate o sottovalutate: per esempio, si può notare che l’identificazione tra Bobby Briggs, il personaggio delle stagioni originali che più sembra aver subìto un cambiamento morale attraverso gli anni, e il senso più profondo di nostalgia e sguardo scherzoso e malinconico verso il passato della vecchia serie, espresso con sguardi lucidi e commossi, è solo uno degli aspetti interessanti della serie esplicitati dal suo nono episodio; insieme a essa, anche il fatto che la probabile resa dei conti che giungerà tra poche puntate con Frank Truman, lo stesso Bobby e Hawk si debba svolgere nel “palazzo di Jack Rabbit”, dove Bobby da bambino con suo padre andava a inventarsi nuovi mondi e nuove storie, come Lynch sta facendo con gli spettatori e con un rapporto specchiato con la serie vecchia. Ma si può anche dire che, se l’ottava parte della stagione era un capolavoro imprescindibile anche grazie alla libertà che Lynch è riuscito a ottenere a livello espressivo, la nona era stata leggermente meno d’impatto perché era più un proseguimento narrativo legato ai bisogni d’approfondimento del co-sceneggiatore e co-creatore Mark Frost, così mettendo in risalto una certa duplicità, di certo necessaria e non sicuramente da criticare, che è alla chiave dell’impero semantico di tutto il progetto, anche nel comparto di costruzione narrativa della sceneggiatura. Ma è anche giusto e doveroso che ogni settimana si rimanga stupiti da quello che ci viene mostrato o rivelato, siano essi anche solo dettagli minimali o proseguimenti narrativi. La tagline-titolo a essere annunciata per questo episodio era «Laura is the one» (“Laura è quella giusta”), e subito i fan si sono messi a calcolare possibili risvolti nell’intreccio, in particolare riguardanti un possibile seguito simbolico di una già emblematica sequenza presente nel secondo episodio: infatti, quando Laura Palmer sussurra nell’orecchio di Dale Cooper all’interno della stanza rossa, i più appassionati e accaniti seguaci di Twin Peaks si sono prontamente messi ad analizzare l’audio cercando di capire cosa potesse dire, alzando il volume o abbassando il riverbero in un costante tentativo di comprensione inconscia. Considerando che Lynch cura da solo il sound design di tutte queste 18 ore, era facile intuire che qualcosa potesse essere rivelato sulla natura intrinseca delle cose, dei personaggi e dei demoni della mitologia della serie attraverso quei pochi secondi che replicavano parzialmente, in maniera digitalizzata e rugosa, una delle scene di culto della serie originale. La frase che Laura dice pare sia «Don’t assume, nobody can spot your dark suit but me. Laura is the one.», ovvero “Non darlo per scontato, Nessuno a parte me può scorgere il tuo vestito scuro. Laura è quella giusta”. Insomma, in teoria, se questa è la verità allora il riconoscimento, quello stesso riconoscimento del campo-controcampo che Lynch ama riscrivere in ogni suo film e in ogni puntata di questa magnifico prodotto (anti)televisivo, potrebbe essere un qualcosa che riscrive l’intero apparato metafisico della serie: Laura potrebbe avere una versione ancora viva nel mondo reale mentre la sua versione carnale che abbiamo visto morire in Fuoco cammina con me (1992) potrebbe essere un suo doppelgänger, portandoci a necessarie riflessioni sul mezzo simbolico di Twin Peaks: The Return e su come questo revival funga anche come resurrezione in versione postmoderna di quella stessa tragica sofferenza che mosse i due autori a costituire l’universo di Twin Peaks a inizio anni ’90. Solo Laura può riconoscere Dougie/Cooper e riportarlo alla coscienza del proprio spazio nella collettività del racconto? Vista, appunto, la tagline dell’episodio, si poteva immaginare che questo riconoscimento avvenisse all’interno di questa decima puntata, sempre se vogliamo credere che questa ‘fan-theory’ sia vera – e probabilmente non sarà così ed è meglio così, la cosa importante è sempre quella di voler e dover essere stupiti. Comunque rimane un qualche risvolto che si possa specchiare nel passato, riflettendo una sorta di naufragio dalle parti del ritorno al Caos, con l’uscita della puntata programmata per il 16 luglio, precisamente 72 anni dopo i primi test Trinity in New Mexico per la bomba atomica, riecheggiati in versione di potenza inenarrabili in Twin Peaks: The Return, Part 8. Ovviamente non è così.

Ma rimane una sorpresa la maniera in cui la frase «Laura is the one» viene pronunciata, poiché a dirla è il personaggio iconico della signora del ceppo, interpretata da Catherine E. Coulson, che girò pochissime scene per la serie a causa della sua morte per malattia a meno di un mese dall’inizio delle riprese, e che disse le stesse parole, in un contesto interamente diverso, nell’introduzione dell’episodio pilota della serie originale. A lei è dedicata la penultima scena dell’episodio, con un triste e romantico monologo poetico, che attraverso il solito ermetismo lynchano potrebbe essere nel contempo essenziale da una parte e misterioso nella sua assenza di comprensibilità dall’altra. La cosa principale che rimane nella mente dopo averlo sentito, è che Laura, sì, è la chiave, è la risposta, è la bolla d’oro inviata per rispondere al Caos, è la maniera con cui tutto si dovrà concludere. Quest’episodio si posiziona perfettamente a metà la visione narrativa di Frost e la visione immaginaria e grottesca di Lynch, creando, come nelle puntate 5 e 6 che erano veri e propri collage di sequenze suggestive, un puzzle in crescendo in cui è difficile distinguere i tasselli di importanza capitale da quelli che invece sono solamente approfondimenti di un’idea estetica e concettuale. Alcune scene certamente servono solo per una coerente continuità anche nelle sottotrame che possono sembrare meno importanti come quelle riguardanti Nadine e Jerry Horne. Comunque alcuni di questi proseguimenti apparentemente superficiali possono contenere in realtà suggerimenti e riflessioni notevoli, anche su come determinati passaggi prevalentemente ironici possano avere un nuovo valore ritrovato a causa del passaggio del tempo degli episodi e quindi della più complessa argomentazione degli eventi e dei dettagli: e in questo il primo esempio che ci viene in mente è il dottor Jacoby, visto che il suo primo exploit complottista nell’episodio 5 ci aveva fatto semplicemente pensare a una parodia dell’isterico giornalista Alex Jones mentre, col senno di poi, gli atteggiamenti che lui sembra criticare sono gli stessi dell’etica statunitense della convenienza post-epoca del nucleare che il regista stesso sembra attaccare in maniera implicita ed elettrica sin dall’inizio della propria carriera, con come apice assoluto l’ottavo è già forse fin troppo discusso episodio di The Return.

L’episodio comincia in medias res con la calma di un camper in mezzo al nulla interrotta da un brutale tentato omicidio fuori campo e un vetro rotto, e continua con il personaggio di Harry Dean Stanton che canta una canzone alla chitarra e la sua pace viene fermata da un secondo vetro rotto. Sono sempre uomini che feriscono donne, in uno strappo del velluto dello spettacolo sessuale che ha i ritmi pragmatici di una circolarità cronologica in cui tutto si ripete in una sua versione peggiore, più marcia, con meno senso del contegno e del limite. Una profonda assenza di controllo sembra muovere queste vittime neofite verso la coscienza del loro ruolo di vittime. Il primo vetro rotto parte dalla crudeltà del mondo esterno che penetra nell’intimità della povera testimone Miriam assassinata dal sempre più sadico e autistico Richard Horne, un antagonista maschile inetto e giovane e quindi odios come pochi altri nell’universo di padri osceni di Lynch, mentre il secondo vetro rotto mostra più l’intimità che esplode con rabbia distruggendo la tranquillità esteriore, eliminandola e penetrando nella sua spazialità in maniera prorompente e disturbante. È un discorso biunivoco in fondo, una continua comunicazione e collimazione tra due mondi e due percezioni a metà tra il folklore, la realtà cinematografica e un presunto realismo atto a denunciare l’angosciante bruttezza del comportamento umano, o meglio di una sua frazione, di uno dei due lati della medaglia. Ma forse di nuovo analizzare le singole scene lascia un po’ il tempo che trova, anche se a volte ci pare un dovere, e la cosa più importante sono quelle innovazioni linguistiche che paiono voler riassumere un po’ tutto uno stilema cinematografico riflesso qui in quella che potrebbe essere una magnum opus della dilatazione temporale in luce di un complesso macrocosmo in cui un qualsiasi wifebeater di periferia può trovare un inquietante osmosi con la trascinante e trascendentale potenza di un qualcosa di identificabile con il Male assoluto. La tanta carne al fuoco brucia via via sempre di più fino ad assumere ritmi al limite del tragicomico, mettendo in scena così tanti personaggi da creare un vero e proprio spazio comune che supera i limiti della chiusura nell’unità di luogo Twin Peaks, qui, in questo episodio, più che mai con una velocità di ritmo e di montaggio che può includere davvero tutto o quasi. Se nella serie originale il televisore (nel senso vero e proprio di oggetto-schermo) metteva in scena popolari soap opera che esplicitavano l’intento crudele e parodistico di Lynch ma soprattutto di Frost, e se invece in Fuoco cammina con me il televisore veniva fatto a pezzi con un’ascia e identificato con il male spirituale e industriale che è causa di tutta la violenza nell’universo narrativo di Lynch, in questo episodio c’è una nuova lettura; una lettura che si lega all’universo di Mulholland Drive evolvendo due personaggi contenuti nel suddetto film, ovvero i fratelli mafiosi Castigliane interpretati da Dan Hedaya e dal compositore Angelo Badalamenti, che in The Return hanno perso la propria origine italoamericana divenendo i fratelli Bradley e Romney Mitchum, egualmente inquietanti ed esilaranti tra il nome che cita gli attori di culto John e Robert Mitchum e il loro paragonarsi al Vito Corleone del Padrino (1972) di Coppola, interpretati rispettivamente dal comico Jim Belushi e da Robert Knepper. Infatti, le tre ballerine vestite di rosa, apparse precedentemente solo in una specie di manifestazione onirica che rimandava subito alla mente i quadri di Degas, qua trovano una propria resa parodistica in una scena che sembra quasi una parodia di uno dei migliori episodi di Breaking Bad (2008-2013) di Vince Gilligan, serie che in effetti Lynch ha detto di aver apprezzato molto: un lungo, disperato tentativo di una delle ballerine di colpire una mosca, poi uccisa con un telecomando che ferisce pure uno dei due fratelli Mitchum sulla guancia, in un’esplosione comica le cui conseguenze sembrano essere quasi funeste.

Il mezzo televisivo non è più “distrutto” con una violenta arma-cinema, bensì diventa esso stesso arma, nel contempo angosciante e divertente, in un delirio di immagini assurde che vanno accettate, come quell’angosciante, incredibile sequenza in cui Richard, praticamente confermato come figlio di Audrey, deruba la propria nonna, minaccia di picchiarla e di uccidere lei e il suo figlio Johnny, mentalmente disabile, li insulta, li schifa. Mentre un pupazzo, che indossa un grottesco volto che ricorda la pittura astratta del regista, ripete ossessivamente la frase «Hello Johnny, how are you today?», ci si aspetta che Richard lo spacchi raggiungendo un apice nella tensione, ma non succede. C’è il crescendo, ma non c’è il climax: il climax, sotto certi punti di vista, è tutta la scena, con quella musica dolce che la accompagna, paradossalmente. E il pupazzo assurdo, il cui aspetto comico e surreale è presto traslato sotto una luce tutt’altro che divertente, è un oggetto di scena apparentemente fuori contesto, ma soprattutto potrebbe essere una specie di evoluzione vitrea degli uomini-palloncino in Pierre and Sonny Jim, corto di Lynch del 2001 che nel titolo riporta i nomi di due bambini appartenenti all’universo di Twin Peaks: l’infante/mago Pierre apparso sia nella seconda stagione della serie sia in Fuoco cammina con me e Sonny Jim, il figlio di Dougie, che in questo episodio appare brevemente quando si sveglia nottetempo sentendo i propri genitori durante un amplesso che nel contempo è patetico e sentimentale. Ci si emoziona, insomma, come sempre, perché Lynch pur non riuscendo spesso a spiegare gli aspetti razionali e lineari della narrativa umana e umanista (o meglio: lo fa, ma a modo suo, con una logica sua), riesce sempre a toccare le corde giuste, a comprendere cosa dev’essere colpito e cosa no nello sguardo del suo spettatore. Come una riscoperta sessuale all’interno di un processo comatoso interiore, come in Dougie e in Janey-E, una Naomi Watts ancora sensuale tanti anni dopo Mulholland Drive. Ed è Lynch stesso, nel ruolo del suo personaggio Gordon Cole, a percepire una specie di apertura assurda, una finestra/schermo invisibile tra lui e il resto del mondo composta da Laura Palmer, uno stralcio nella realtà che scoperchia la realtà stessa andando nel passato, nell’adolescenza naïf e pessimista che desiderava il suicidio cosmico in Fuoco cammina con me, poi aprendo nuovi stacchi musicali. E con la Rebekah Del Rio che cantava Orbison in spagnolo in Mulholland Drive che qui invece si esibisce, vestita con un abito che sembra replicare il pavimento della stanza rossa, con una canzone composta da Lynch e John Neff, con Moby alla chitarra, No Stars: e dice appunto che non ci sono stelle, canta d’amore, canta di origine. E la sua voce è intensissima e triste, e ci si butta in questo strapiombo sensoriale in cui non si sa più cosa è percepibile come realtà cinematografica, senza via di fuga. Anche quando la narrazione si muove nel campo terreno, Twin Peaks: The Return sembra guardare all’assoluto, sfiorando l’universo e il suo annullamento, completando una duplicità spaziale a metà tra il divino surrealismo di Eraserhead (1977), l’esistenzialismo di The Elephant Man (1980) e la fantascienza senza mezzi termini di Dune (1984), in un continuo scambiarsi metatestuale tra registri di genere, che con questo episodio raggiunge livelli altissimi con una serie costante di giochi d’immagine e di timbro. Tutto, insomma, sembra riconfermare a ogni singola ora di serie che ci troviamo di fronte a un capolavoro di cui non ci dimenticheremo facilmente. E se è vero quel che dice la Signora del Ceppo, che il cerchio è quasi completo, ora che la metà della stagione è stata sorpassata di giusto un’ora, non possiamo che aspettarci grandi rivoluzioni nel futuro prossimo.

Nicola Settis