TWIN PEAKS – STAGIONE 3 (Episodi 3 e 4) (2017), di David Lynch
«Le soluzioni immaginarie sono il vivere e il cessare di vivere. L’esistenza è altrove.»
[André Breton nel Manifesto del surrealismo]
Breve (ci provo) nota personale: E invece mi ritrovo di nuovo qui. Dopo essermi interrogato sulla funzione cinematografica e sulla plausibile indipendenza dell’”introduzione” al nuovo mondo di questa terza stagione di Twin Peaks a causa della proiezione a Cannes delle prime due puntate, la visione degli episodi 3 e 4, messi in streaming online dallo stesso canale Showtime immediatamente dopo la proiezione dei primi due, mi ha portato a riconsiderare l’operazione. Sì, è un film di 18 ore, ne ha tutta l’apparenza, ma è altamente probabile che in questo conglomerarsi mutevole di stili e mondi, tutto possa cambiare in continuazione, rimescolare le carte in tavola. Forse per sempre, per tutta la filmografia di David Lynch. Quindi è altamente probabile che andrà così, in avanti, settimana per settimana, puntata per puntata, con continui nuovi tentativi di comprensione – non una comprensione logica della narrazione, che lascia il tempo che trova, bensì una comprensione dei concetti, che si ripetono o che scompaiono. O, più che una comprensione, un’interpretazione, per razionalizzare (quanto si può: non è necessario) il fascino irresistibile e folle che si finisce per subìre. Quello che segue l’ho scritto ormai una settimana fa, ma ho deciso di pubblicarlo ora per lasciarci (più o meno) alle spalle il Festival di Cannes e il Bellaria Film Festival, e anche per andare coi ritmi delle proiezioni su Sky Atlantic.
Lynch con l’episodio precedente di Twin Peaks ci aveva abbandonati nell’apice melanconico di due ore di apnea, un ritorno alla vecchia gloria dei personaggi non visti per 25 anni inseriti nell’atmosfera magica di una meravigliosa canzone dream pop che è già diventata di culto. Questa specie di paradiso nostalgico al neon, situato ovviamente nello storico Roadhouse, è solo un pezzo di un puzzle che dobbiamo ricomporre. E questa è una cosa che di Lynch abbiamo imparato a capire: le immagini sono lì, la sceneggiatura pure, il nostro compito è quello di completare ciò che già esiste con le nostre competenze e le nostre conoscenze. Ma in questi episodi Lynch lo dice apertamente, attraverso il personaggio da se stesso interpretato, Gordon Cole, che pone degli indizi di fronte a degli agenti FBI e dice «Fate voi». Ci sono gli strumenti, i piccoli pezzi, è tutto un lavoro di ricomposizione che dobbiamo provare a seguire lentamente fino a quando non spunta una parvenza di idea nella nostra mente. Attraverso i personaggi scritti dall’autore con Mark Frost bisogna penetrare in questo mondo per capire cosa ci deve essere detto, ma è impossibile concordare, tra tutti. Sia sulla qualità sia sul messaggio – un messaggio che spesso può essere un discorso in cui i dettagli più insignificanti possono contenere le minuscole differenze tra un punto di vista e l’altro. Questa terza stagione si ibrida con l’intera filmografia di Lynch fino a costituirne un nuovo capitolo ma flirta anche con le serie, come The X-Files o Lost, che da Twin Peaks hanno tratto ispirazione – si muove sui binari di un prodotto “nerd”, di un qualcosa di commerciale, ma non ne ha la forma, non ne ha le intenzioni. Come Lost, è un prodotto pregno di inintelligibilità costruita con alla base la formazione di un pubblico, passatemi il termine, “internettiano”: le discussioni, le teorie, quelle cose che animavano la serie negli anni ’90, ormai, come la serie stessa, si sono spostate su un’altra piattaforma, dal salotto casalingo al forum, Reddit, Facebook, 4chan. In un certo senso, sembra sempre di più confermarsi l’idea che, mandando a quel paese le convenzioni delle regole del “fanservice” e dimenticando le tentazioni di divagazioni nostalgiche, Lynch abbia deciso sempre di più, all’interno del suo archivio mentale e dei suoi meccanismi metafisici, che Twin Peaks, la serie di una volta, è morta. Stroncata prestissimo dall’assenza di libertà che l’autore ha potuto avere negli anni ’90. Dopo l’esplosione-incubo di Fuoco cammina con me, questa terza stagione è una vera e propria resurrezione dalle ceneri del tempo, con una nuova serie che è un mostro, che è più un commento sul tempo che è passato che una continuazione, una surreale ri-attualizzazione dei concetti e dei simboli di Lynch, con figure del suo immaginario che ritornano: nei primi due episodi, abbiamo potuto per esempio vedere due riferimenti espliciti a Mulholland Drive (2001), da un demone immobile e completamente nero che ricorda il mortifero barbone dietro l’angolo del fast food e una neo-scatola blu dei sogni che è messa in scena come un cubo di vetro che diventa una macchina fotografica che fa apparire demoni, diventando evoluzione metafisica del Peeping Tom (1960) di Michael Powell, già più o meno citato in Velluto Blu (1986). In questi due nuovi episodi c’è anche qualcos’altro: una testa che fluttua nello spazio in bianco e nero, riecheggiando l’inizio di Eraserhead (1977), e un incidente d’auto alienante, sudaticcio e pure un po’ riprovevole che rimanda alla mente la tensione urbana di Strade Perdute (1997).
Con ciò detto, addentriamoci nel labirintico spazio di questi episodi. Dualismi ed emozioni: è in questo che sta forse la grandezza nel surrealismo lynchano, nel riuscire a far convivere il respiro dell’assurdo con gli indizi di un razionalismo di base sincerissimo e con personaggi ben costruiti, umani anche quando sono macchiette. In mezzo al magma delirante dei vari spazi grotteschi e statici (che solo Lynch sa costruire così), tornano sempre immagini sdoppiate o anche triplicate, i picchi gemelli di Twin Peaks, Laura e la sua cugina, i vari doppelgänger. E tutto ciò respira un’enorme vitalità tragica, al punto che anche all’apice dell’incomprensione generale (penso al finale di INLAND EMPIRE) si può comunque percepire una sensibilità, anche una commozione. E questo dualismo si complica e si moltiplica quando si pensa ai piani di realtà, cosa è vero e cosa no, cosa è allegoria e cosa fa in effetti parte dell’intreccio narrativo. Si può pensare all’intera storia di Laura Palmer come a una metafora della pedofilia, dell’incesto, del trauma dello stupro – o forse davvero si sta subentrando nel reame della lotta mistica tra il Bene e il Male. Se vediamo l’intero mondo della vecchia serie di Twin Peaks come una proiezione post-mortem del Limbo di Laura Palmer e Fuoco cammina con me come il drammatico processo di allontanamento dallo schermo per la stessa Laura, si giunge a questa terza stagione con il dilemma: che cos’è, nel grande schema delle cose? Laura Palmer è morta, può vivere solo come proiezione epilettica dello spazio onirico, ennesimo fantasma perso in un mondo a metà tra la speranza di un’immortalità del simbolo (la Loggia Bianca) e il cannibalismo immateriale dei demoni deformi che si cibano della sua sofferenza e del suo dolore, della sua “garmonbozia” (la Loggia Nera). Ma Laura vive anche attraverso le foto, il ricordo, sia nella sigla sia nel più commovente campo-controcampo della storia di Lynch, ennesima riscrittura paradossale di una delle più basilari scelte cinematografiche, con un nuovo, vecchio Bobby che restituisce lo sguardo a una foto vecchia di 25 anni e scoppia in lacrime. È rimasto Cooper, e al centro della serie c’è la sua odissea, il suo ritorno a Twin Peaks, a un mondo immaginario, anch’esso, sospeso nel tempo. Quindi al centro della serie più che una re-immaginazione del mondo di Laura, vi è una re-immaginazione del mondo di Cooper: ormai è lui il demone che deve crearsi un Limbo parallelo, è lui che deve salvarsi e deve essere salvato.
E dopo 25 anni rinchiuso in uno spazio così astratto, è come se finisse, dopo un’implosione cosmica degli spazi e dei non-luoghi immaginifici della mente, nella psichedelia dell’utero di questo universo assurdo, in un grembo meccanico circondato dalle stelle e da un roseo mare amniotico: ennesima estensione della Loggia, pronto a partorirlo tra le urla di un personaggio scomparso nelle vene del tempo e una scossa elettrica, pulsante. Per arrivare qui, Cooper tenta la comunicazione con un essere dagli occhi tappati (attrice asiatica, personaggio di nome “Naido” = “senza” in giapponese), che deve imparare a vedere, deve imparare a comunicare verbalmente e quindi comunica con la distorsione del montaggio del video – in un segmento visionario che ricorda per ritmi e follia scomposta i primi corti sperimentali di Lynch, come The Alphabet (1968) e The Grandmother (1969); Cooper rinasce ed è immerso nel profondo infantilismo di un necessario rituale di crescita infantile, robotico, ingenuo, bambinesco, apparentemente pazzo negli occhi degli altri. La rinascita comporta anche questa problematica, questa deformazione corporea, nella quale tuttavia si attua la riscoperta di una concretezza, di un naturalismo, di una corporeità in un mondo cinematografico che in superficie non è pregno d’assurdo. Per fare ciò, viene inserita e subito eliminata una nuova figura di doppelgänger, sulla quale ha poco senso speculare forse, se non per notare come Dale (quello “buono”, non quello “posseduto”) sembra comprendere il linguaggio della Loggia, ma non quello del mondo reale: disabituato, traumatizzato, alla ricerca di un senso, istupidito come Peter Sellers in Oltre il giardino (1979) di Hal Ashby, (quasi) nessuno se ne rende conto. È anche la rinascita della serie, questa nuova lenta e divertente (dis?)avventura, fatta di specchi in cui cercare di comprendere qualcosa riecheggiando cliffhanger tragici del passato, movimenti elettrici come quelli dell’albero e prima di lui del nano, scelte estetiche ripugnanti, e in fine numeri, codici che simboleggiano momenti temporali, o porte circolari (nuovi obbiettivi, nuove camere oscure) che aprono porte per altri mondi come il buco di sigaretta nella seta in INLAND EMPIRE.
Il mondo di Twin Peaks, ormai ampliatosi a livelli universali che sembra davvero assurdo che Lynch sia riuscito a toccare in maniera così esplicitamente cosmologica (con la serie che da analisi della crudeltà subliminale del “piccolo” diventa mutazione ambiziosa e spirituale del mondo intero, o dell’America), però include anche i personaggi della serie vecchia e la cittadina in cui la serie vecchia era quasi interamente ambientata, che qua finalmente hanno un ruolo notevole nell’ordine delle cose. Ma se la serie originale era un prodotto il cui scopo iniziale era fondere gli stilemi della soap opera con la capacità drammatica dello stile di Lynch (poi, sì, ovvio, c’è molto altro), questa serie vuole fondere allo stile di un Lynch nuovo e rinnovato, quello della trilogia del subconscio, la serialità moderna, dilatandone i ritmi fino all’inverosimile e al ridicolo, e facendo piombare pure la cittadina di Twin Peaks in una nuova spazialità o in una nuova concezione temporale: le scene umoristiche, anche le più insignificanti, sono lunghissime, piene di silenzi e di momenti di dubbio. Per chi può accusare questa scelta di manierismo o di eccessiva prolissità, bisogna ricordarsi che il progetto di questa stagione è pur sempre, di base, l’idea di un film di 18 ore, che deve quindi rispettare i propri ritmi. Scene di questo tipo sono presenti anche in Mulholland Drive e INLAND EMPIRE, e riescono ad avere nel loro contesto un determinato significato, ma durano di meno perché il film di per sé dura di meno; Lynch, più che temporeggiare, sembra voler assaporare lentamente il gusto di rientrare in questo mondo. Quando per la prima volta ci ritroviamo di fronte a una sequenza più lunga e pregna ambientata a Twin Peaks nel quarto episodio, si passa per uno spettro di emozioni vastissimo, in cui la risata per Lucy che non capisce come funzionano i cellulari può subito essere sostituita dal magone per la comprensione del fatto che lei, in realtà, non capendo il digitale e non riuscendo nella propria ingenuità ad essere “al passo coi tempi”, potrebbe rappresentare la parte di pubblico della serie che non riesce a vedere in questa terza stagione il retrogusto melanconico e nostalgico nei confronti della serie vecchia. La sorpresa per la scoperta del nuovo lavoro di Bobby può essere anch’essa presto sostituita dalla totale commozione quando, nel nuovo riconoscimento tra Bobby e la foto di Laura Palmer, partono le note dello storico Laura Palmer’s Theme di Badalamenti, che non veniva utilizzato da Lynch dai tempi di Fuoco cammina con me, e che qui inquieta, trasporta nel passato, distrugge. E poi c’è Robert Forster, nuovo sceriffo di Twin Peaks (che doveva interpretare il Truman originale della serie vecchia) e quindi presumibilmente uno dei nuovi protagonisti della serie, e c’è Michael Cera che interpreta Wally, figlio di Andy e Lucy, grottesco e patetico imitatore di Marlon Brando che si atteggia come un santone, subito reso ridicolo da Lynch inquadrandolo con macchina fissa, dando tempo allo spettatore per percepire ogni stupidità nella sua recitazione e nelle sue frasi piene di incoerenza e superficialità – destrutturando dunque pure l’attore stesso, di certo non un fascinoso eroe noir. In ciò si può affermare che Lynch intende usare anche la narrazione più tradizionale per distruggere il Dio della TV Twin Peaks, che nacque per caso, si complicò quasi per caso ed è poi ormai diventato completamente il figlio del regista, finalmente libero di farci quello che intende, di approfondirne la mitologia con i propri mezzi, la propria ironia, la propria capacità di distruggere e di autodistruggersi, in una notte senza luna, tra un pianto e una risata.
Proseguendo in sordina il mistero dell’omicidio di Ruth Davenport, si delineano dunque alla fine quattro sottotrame principali: la rinascita di Cooper e il suo riscoprire se stesso in questo nuovo mondo reale a cui non è abituato, le indagini di Hawk a Twin Peaks, la (per ora) drammatica storia di Bill Hastings e infine la storia del doppelgänger di Cooper, che si intrinseca con Gordon Cole, Albert Rosenfield e Tamara Preston, agenti FBI. Dopo un breve e divertente cameo di David Duchovny nel ruolo iconico che poi lo portò alla fama e a The X-Files, si entra davvero in una nuova storia per seguire questi tre personaggi: Gordon è interpretato da Lynch, è quasi sordo, il suo nome è ispirato a un personaggio secondario di Viale del tramonto (1950) di Wilder e nel suo studio sono appese parallelamente una foto di Kafka e una gigantografia di un’esplosione atomica (l’autore della Metamorfosi che si specchia nella tragedia americana – ci si potrebbe scrivere righe e righe di riflessioni); Albert, cinico ma con un enorme cuore, è interpretato da Miguel Ferrer, che è morto poco dopo la fine delle riprese ma che qui ha un ruolo chiave; Tammy, invece, è interpretata dalla cantante Chrysta Bell, che ha collaborato con Lynch per la colonna sonora di INLAND EMPIRE e per due album dream pop, e il suo personaggio è protagonista del romanzo/dossier The Secret History of Twin Peaks, scritto da Mark Frost come introduzione per i fan più affiatati alla serie. Quella che potrebbe apparire come una sottotrama secondaria e un po’ ironica giunge, con l’epilogo del quarto episodio, nel reame del sublime: il campo-controcampo sussurrato tra Gordon e Albert in cui entrambi si rendono conto che la situazione di Cooper e di Philip Jeffries merita l’epiteto “Rosa Blu” (che, da Fuoco cammina con me, pareva essere il nome in codice dato ai casi più peculiari e paranormali dell’FBI; e nel prologo del terzo episodio appare una rosa blu, e il fantasma cosmico di Briggs la nominava) ha un inaspettato approccio lirico e drammatico, che ha come apice una frase pronunciata da Lynch stesso: «It doesn’t get any bluer». E in effetti, l’inquadratura è tutta, sempre, immersa in un blu accecante: l’assurdo ha conquistato il mondo, è un Lynch stuprato dall’assurdo, un Lynch colmo di (ri?)nascite e di morti, se vogliamo seguire le parole di Breton. E se la storia del montaggio, dal Dovzhenko di Zvenigora (1928) al Resnais di La guerra è finita (1966), ci ha insegnato qualcosa, è che si può ricostruire un mondo a partire da una serie di immagini: anche un mondo distrutto o in ricostruzione, anche un mondo che cerca la rivoluzione e non la trova. E questo nuovo Twin Peaks è tutto ciò, scandendosi con una nuova canzone al Roadhouse (sempre di generi diversi) a ogni fine episodio, dunque muovendosi di brano in brano come di recente Malick e più nel passato Altman con Nashville (1975), è un tentativo di rivoluzione e mostrificazione dei demoni liberi di un mondo sperduto. Affascinante, colmo di fantasmi, e perso in un vuoto (digitale) che noi dobbiamo, come sempre, riempire.
Nicola Settis