TUTTI VOGLIONO QUALCOSA (2016), di Richard Linklater
A tenere insieme più opere nella filmografia di Richard Linklater c’è un evidente filo rosso che esplode in Tutti vogliono qualcosa con tutta la sua potenza: il desiderio di chiudere i suoi personaggi in un eterno presente, che è solo la superficie di un’insopprimibile volontà di infinita giovinezza. Linklater ci ha ormai abituati alle sperimentazioni più spericolate in ambito di durata, tempo narrativo e tempo reale. Due sono i suoi landmark più conosciuti: la trilogia di Before… con Ethan Hawke e Julie Delpy (1995, 2004, 2013), e l’enorme lavoro, spalmato su ben 12 anni di riprese, dell’apprezzatissimo Boyhood (2014). A ben vedere si tratta di due esperimenti sovrapponibili, con la sola differenza della trilogia in un caso e dell’opera unica nell’altro. Ma in entrambi i casi viene messo in atto il tentativo di narrare il cambiamento fisico e morale degli stessi attori e personaggi nell’arco di un lungo lasso di tempo. Si sta profilando per l’ossessione più marcata di Linklater: sfidare il tempo e le cornici espressive inevitabilmente segmentali di qualsiasi forma di narrazione. Un film deve avere per forza un inizio e una fine, sia pure dilazionata in una qualche struttura di serialità. La vita pure ha un inizio e una fine, ma oggettivamente dura di più, e soprattutto non si sa quando finisce. Di film in film Linklater conduce una lotta a favore della rappresentazione totale, componendo opere che cercano la spontaneità nel massimo dell’artificio (basti pensare ai celeberrimi dialoghi Hawke-Delpy, anche in parte improvvisati ma logorroici e compiaciuti come in genere non accade nella vita reale).
Tutti vogliono qualcosa, al di là del palese e dichiarato apparentamento, sin dal trailer, con Dazed and Confused (1993, titolo italiano La vita è un sogno), con il quale condivide impeti giovanilistici e grovigli esistenziali della provincia americana dagli anni Settanta agli Ottanta, è in qualche modo assimilabile alla trilogia Before. Se infatti i tre film, presi insieme, costituiscono un lungo esperimento narrativo condotto nell’arco di ben 18 anni, per contro ogni singolo film Before… si profila come la dilatazione di un’attesa, concentrata nella narrazione di poche ore o giorni di vita condivisi dai due protagonisti. I primi due episodi, Prima dell’alba e Before Sunset, sono probabilmente più indicati per un gemellaggio con Tutti vogliono qualcosa, poiché entrambi raccontano una pausa, una situazione di stallo esistenziale prima di un evento importante e soprattutto codificante. E’ la vita in festa, il racconto del tempo perso, dedicato al futile e al non-importante, come per lo più chiacchierare e cazzeggiare, in un lasso di tempo narrativo decisamente ristretto, dalle 24 ore a due o tre giornate. In Tutti vogliono qualcosa succede esattamente la stessa cosa. Destinato alla squadra di baseball di un college, Jake Bradford arriva da matricola al campus e fa la conoscenza di tutti i suoi compagni di squadra, raccolti a vivere insieme in una grande casa. Tra uno scherzo e l’altro, un’uscita in discoteca, qualche canna, tanti vinili, belle ragazze e fiumi di birra, Jake trascorre gli ultimi 3 giorni che restano prima dell’inizio delle lezioni in un clima di festa perpetua. Benché il film abbia una durata di 116 minuti, la sua sinossi si esaurisce qui. Non per povertà narrativa, intendiamoci, ma perché Linklater sceglie come al solito una forma di racconto antidrammaturgico, fatto di chiacchiere e stavolta qualche eccesso in più in chiave goliardica. Assistiamo al ripetersi (non per questo stancante) dei medesimi luoghi narrativi nell’arco di 72 ore della vita dei ragazzi protagonisti: la musica, la festa in casa, la discoteca, un country-bar, ancora la discoteca, ancora una festa… Come sempre gli accade, Linklater riesce magicamente a rendere piacevoli quasi due ore di racconto in cui molti direbbero che “non succede nulla”. Trasgredendo a uno degli assoluti narrativi più inossidabili, specialmente del cinema classico americano, Tutti vogliono qualcosa rifiuta qualsiasi conflitto drammaturgico. O meglio, c’è eccome un enorme conflitto a monte, ovvero la battaglia contro il tempo che fugge, contro la tragica impossibilità di imbrigliarlo, dargli una forma, raccontarlo. L’incapacità di fermare la vita in un qualsiasi attimo, per contemplarla e restituirne il fluire: è la battaglia della rappresentazione. Ma nella costruzione del racconto in sé non si può parlare né di vettorialità né di episodicità: non seguiamo un’unica azione con i suoi alti e bassi diegetici né assistiamo a tranche de vie assemblate una accanto all’altra. Semplicemente Linklater registra l’assenza, cercando il senso nelle lunghe pause apparentemente ininfluenti dell’esistenza umana e in cui invece, passo dopo passo, si costruisce la personalità e il senso di tutta una vita. E’ la ricerca dei vuoti, del tempo non produttivo, che si butta via felicemente continuando a giocare come bambini.
Stavolta Linklater mostra anche scelte diverse rispetto alle sue opere più note. Accantona per il momento il piano-sequenza affidandosi a un découpage più convenzionale, e pur non rinunciando alla compiaciuta logorrea dei suoi personaggi viene messa da parte la pratica dell’overlapping dialogue, ricorrendo a consuete lunghe sequenze di dialogo scandite però da un puntuale turno di parola. Tuttavia rimane ben evidente l’intenzione di catturare il fluire del tempo e della vita nel suo placido dispiegarsi. Basti pensare alla lunga sequenza del primo allenamento, in cui hanno luogo alcuni eventi importanti (forse l’unico momento vagamente “forte” dell’intero film: l’espulsione di Willoughby) ma depotenziati e procrastinati nei loro effetti (del destino di Willoughby avremo spiegazioni quasi un quarto d’ora dopo). A ciò si accompagna una maggiore caratterizzazione dei personaggi, incarnati da uno stuolo di giovani attori che non disdegnano il sopra-le-righe e una compilation anche un po’ stucchevole di gestualità e smorfiette (pensiamo soprattutto al Finn interpretato da Glen Powell). Per converso, Linklater mostra una rara maestria nel gestire una ventina di personaggi rendendoli perfettamente riconoscibili per gli spettatori senza dover ricorrere a strumenti didascalici. Siamo indotti a prendere familiarità con tutti loro senza la minima forzatura grazie a una rara e preziosa fluidità di racconto.
Convince meno l’intenzione di creare un’atmosfera simpatica ad ogni costo, dove gioca un ruolo determinante l’eccessiva caratterizzazione di cui sopra. Si ride molto meno di quanto gli attori vorrebbero (e forse però si ride proprio quanto Linklater voleva, visto che tra l’esagitazione dei suoi personaggi e lo sguardo dell’autore si percepisce sempre una sensibile distanza). Ciò è comunque in parte attribuibile al desiderio di narrare un momento di festa perpetua squisitamente maschile, una linea d’ombra da attraversare in tre giorni, quando finito il liceo scopri che non sei più il fico della scuola e all’università ti rendi conto che il mondo è grande, la competitività è ampia e rischi di trasformarti in un signor Nessuno. Linklater coglie benissimo quel momento di declinante onnipotenza giovanile e riesce a non rendere pesante e didascalica la cornice storica dell’ambientazione agli albori degli anni Ottanta. Del nuovo decennio Linklater accenna forse alla competitività come ragione di vita e all’avvento del piacere disimpegnato, al quale i suoi giovani protagonisti si concedono per tutta la durata del film. Ma si rischia davvero la lettura arbitraria, visto che il contingente non è mai stato al centro degli interessi dell’autore. Linklater trascura il tempo specifico e adora il tempo assoluto. Boyhood registrava per quasi tre ore le trasformazioni di persone e cose sull’arco di 12 anni, senza la minima scossa di evidenze drammaturgiche. Tutti vogliono qualcosa fa lo stesso restringendo il range temporale a 3 giorni. Ma è ancora l’assenza, il futile, il non-evidente a riempire il racconto. Come la coppia Hawke-Delpy, isolati dal mondo in Prima dell’alba rinviando la vita adulta, così Jake e i suoi amici giocano finché possono, e Linklater rifiuta con loro di uscire da quella dimensione. Tanto che, quando finalmente la “vita vera” arriva, si dorme.
Massimiliano Schiavoni