TUMBBAD (2018), di Rahi Anil Barve e Adeh Prasad

Il film d’apertura della Settimana a Critica alla 75esima edizione della mostra internazionale del cinema di Venezia è Tumbbad, un film indiano che propone un’interessante crasi tra generi. La storia, ambientata nel Maharastra, segue la struttura tipica di una fiaba morale, seguendo una struttura in tre capitoli. Vinayak è il figlio illegittimo del Sarkar, il signore locale, di Tumbbad, un paesino vuoto in mezzo al nulla. Vive nel tempietto insieme alla madre vedova, che vive come dipendente/amante del Sarkar: ogni giorno lei, insieme a Vinayak e a un altro figlio, deve dare del cibo alla nonna del Sarkar, che dorme tutto il giorno, e se si sveglia devono dirle una frase che la farà addormentare immediatamente, qualcosa sulla scia di «e ora dormi, o Hakkar verrà a prenderti». Hakkar è una divinità fittizia, presentata nel prologo del film come un figlio della Dea (ovvero la Mahadevi, essere supremo dello shaktismo, personificazione dell’energia immanente del Dio), caduto nell’oblìo. Nessuno dovrebbe più fare tempi dedicati a Hakkar a causa della sua avarizia, ma qualcuno ne ha edificato uno a Tumbbad, quello in cui abita Vinayak, in cui gira voce esserci un ingente tesoro – come conseguenza il paese è afflitto tutto l’anno da terribili piogge torrenziali. Quando muore Sarkar, il fratello di Vinayak cade da un muretto e mentre la madre lo porta all’ospedale, rendendosi conto poco dopo che è morto, il protagonista prova a chiedere alla nonna la posizione del tesoro, ma viene inseguito da lei, palesemente resa malata da una maledizione, finché non riesce a farla addormentare. Scappa con la madre da Tumbbad verso una nuova vita, ma lei gli dice che non deve più tornare a Tumbbad. Lo rivediamo tuttavia 15 anni dopo e 14 anni dopo ancora, che torna in quei luoghi, trova il tesoro e ne prende il contenuto un poco alla volta, anche portando un amico e la propria stessa famiglia nella sua spirale infernale. Il film è distintamente scisso in tre capitoli, il primo sull’infanzia di Vinayak (1918), il secondo sulla sua età adulta e sulle prime conseguenze del suo ritorno a Tumbbad (1933) e il terzo sul percorso educativo che Vinayak impone all’erede maschio per far entrare anche lui nel mondo di Hakkar (1947). Il primo è una vera e propria favola, il secondo è un film d’avventura con lampi di horror e il terzo è una conclusione autoriale in cui la magia diventa mito e il mito diventa melodramma.

I registi sono emergenti, e la sceneggiatura è firmata a 8 mani insieme anche, tra gli altri, a Anand Gandhi, regista di Ship of Theseus (2012). E lui non c’entra niente col Mahatma Gandhi, però il film tratta in profondità la sua esistenza e la sua importanza per l’India: gli anni non sono scelti a caso, considerando che il 1947 coincide con l’anno in cui l’India è diventata indipendente e le azioni impulsive di Vinayak e del figlio sono per paura di perdere il tempietto di cui sono in possesso a causa delle nuove politiche di Stato. Dei colleghi di Vinayak addirittura già gli anticipano che è pianificato un attentato a Gandhi (che è morto a inizio ’48). Inoltre, il film inizia con una sua citazione, traducibile più o meno: «il mondo contiene tutto di cui l’uomo ha bisogno, ma non tutto quello che l’uomo necessita per avidità». Del resto, l’avidità è il tema centrale del film, che non propone una tesi ma che, come ogni favola che si rispetti, gira attorno al proprio tema sperando di poter infondere nello spettatore una maggiore comprensione del tema. Non siamo propriamente nell’ambito di Rapacità di von Stroheim, ovviamente, ma nella simbiosi tra generi il film riesce a trovare una sua identità ben specifica pur cambiando spesso registro (perlomeno a livello visuale o fotografico), e così trova un’identità specifica anche a che cos’è quest’avidità nell’universo del film: un male tramandato geneticamente, che si possiede dell’uomo come una maledizione. Nel pregnante spiritualismo che permea l’etica e l’iconografia del film, tuttavia, è importante anche che qui l’avidità deriva dalla divinità, e quindi che questa malattia sanguigna è un peccato che è arrivato da Hakkar a Vinayak e pure al figlio di Vinayak. La storia dell’uomo si incrocia e diventa la storia del Dio, il presente (o, perlomeno, il passato recente) può ritrovare la potenzialità di leggenda esistenziale. Non trascende mai rispetto al racconto, ma costruisce attorno a esso un universo coerente.

Similarmente legato tanto a Shakespeare quanto alle dottrine vediche, Tumbbad non è ovviamente un film esente da difetti, ed è una cosa di cui ci si rende massimamente conto nelle scene più puramente d’orrore. Gli antagonisti, demoni cruenti che hanno la funzione di prosopopea corporea di Hakkar e che vivono nel “ventre della dea”, uno spazio sotterraneo ricoperto di viscere e interamente rosso, sono creature create a metà artigianalmente e a metà in CGI; gli effetti speciali, che, in puro stile bollywoodiano, imitano in maniera solo parzialmente efficace quelli di Hollywood, in alcuni punti lasciano a desiderare, non tanto perché son“brutti” quanto perché sono “facili”, usati nella maniera più immediata e semplice, senza coraggio, riportando al livello terreno del cinema di genere paranormale un qualcosa che, pur presentando un’osmosi tra registri cinematografici, poteva rimanere in un’area grigia di assenza di definizione che per la maggior parte del film è efficacissima. E lo è perché Barve e Prasad hanno una capacità innata nel costruire un mondo coerente all’interno di un singolo film, impostando ognuno dei singoli capitoli in uno specifico approccio fotografico e scenografico che non solo è suggestivo ma soprattutto crea grande empatia e ritmo nella storia, spesso mostrando il mondo reale con un realismo vagamente estetizzante che è registicamente molto vivo. Ciò è anche grazie alla maniera pura con cui è inquadrata la quotidianità indiana, tra riti di preghiera e rituali funebri, senza mai spiegarli ma sempre mostrandoli nella maniera più esplicita e suggestiva possibile. È inoltre un ritorno dei film a tema “Pauraanika”, ovvero le leggende dell’Induismo, sottogenere celebre nel cinema indiano di un tempo. Quindi, qualsiasi siano i difetti, ci pare inutile accanirsi con un’opera come Tumbbad, anzi: a noi parrebbe massimamente giusto dire che i veri bei film del giorno d’oggi non sono le riflessioni autoriali che non convincono fino in fondo, ma le belle storie, i racconti che mediante la rappresentazione cinematografica riescono a trovare un respiro, una vita, una raison d’être.

Nicola Settis