Scandaglia l’acqua alla ricerca di un punto di contatto fra la vita e la morte Ts’onot, secondo film della regista giapponese Kaori Oda presentato fra le più prelibate delizie in concorso alla 56esima edizione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Un film profondamente fisico, palpabile, fatto tanto dei materiali solidi o liquidi che si intrecciano sullo schermo quanto dei formati differenti, sia analogici sia digitali, con cui catturarli. Si parte da un’esplorazione subacquea dei Cenotes, le grotte sacre dei Maya situate in Messico, nelle quali si compivano sacrifici umani legati alla religione e in cui leggenda vuole abiti il dio della pioggia Chaac, per poi arrivare progressivamente in superficie a documentare le tradizioni millenarie e i paesaggi umani ancora pulsanti di vita. Questa costante perlustrazione delle cavità situate nel nord della penisola dello Yucatan diventa ricerca di uno sguardo diverso sulle cose, contrapposizione e punto d’incontro fra il mondo dei viventi e quello di chi invece dall’acqua non è mai più tornato, con le immagini degli anfratti messicani ritratti come ingressi a un Ade oscuro e senza tempo. Uno sguardo che registra la costante oscillazione tra poli opposti: l’acqua e la terra, l’esistenza e la morte, la credenza e la memoria, la luce e il buio, il concreto e l’astratto. Rapporti di antitesi che diventano immagini grazie all’interessante scelta dei mezzi cinematografici: il montaggio molto intelligente di Kaori Oda alterna immagini subacquee girate con l’iPhone alla grana sporca della pellicola in 8mm (a sua volta suddivisa in tutte le sue possibili modalità fra 8 singolo, doppio8 e super8), facendo coesistere digitale e analogico e sostenendo la possibilità di contenere due visioni del mondo diverse, opposte ma armoniche, in un unico film (e in un film unico). Se sott’acqua la realtà viene distorta dagli elementi naturali, sulla terra non ci sono filtri e l’osservazione, seppur mediata, ha dell’ontologico. Se sotto si muore, sopra si vive, si suona, si balla.
A ispirare questa dualità di linguaggio è appunto la natura del Cenote stesso, luogo di salvezza e di condanna, passaggio intermedio tra vita terrena e aldilà, al contempo unica millenaria fonte di acqua – e quindi di vita – e risucchiante buco nero foriero di morte. Una morte che, sacra o profana che sia, raggiunge la superficie e si annida nei tumuli dei cimiteri, negli scheletri che richiamano il Messico macabro di Eisenstein e Buñuel, giusto per citare degli sguardi (anch’essi stranieri, anch’essi altri) che in passato si son posati su queste lande contribuendo a crearne l’iconografia. Eppure, sebbene non rinunci a una certa sperimentazione, Ts’onot mantiene una chiara vocazione documentaristica, abilmente pervertita dal linguaggio. Un gioco al contrasto che si rivela ancora una volta nell’importante lavoro fatto Oda Kaori sul colore e soprattutto sul suono, quest’ultimo degno del migliore Heiner Goebbels (quello appunto de El Sonido, per intenderci), mentre la narrazione rimane coscientemente sussurrata, stanca, lontana.
Mentre nel sottosuolo la visione è filtrata dall’oscurità, ed è il rumore del respiratore che scandisce il ritmo delle voci fuori campo quasi come fosse un metronomo, in superficie le immagini sono luminose e spesso accompagnate dalla musica tradizionale, vitale e liberatoria, che dai Maya è sopravvissuta fino agli attuali indigeni dello Yucatan. Una sorta di campo scuro cui corrisponde un controcampo chiaro di morte e vita, ma con i bordi intelligentemente sfumati dai raggi che filtrano attraverso l’acqua e dalle ombre che si disegnano sui luoghi e sui volti. Del resto, anche nell’acqua dei Cenote c’è la vita delle alghe, dei pesci e degli uomini che da millenni la bevono, così come nelle parole che giungono fino in fondo dalla superficie “vitale” non può mancare la morte.
Nell’insistito gioco di contrasti e dualismi sono due anche le lingue del film, lo spagnolo e il maya, che dialogano sia tra loro sia con le immagini, per poi tendere a sconfinare, a straripare, a creare straniamento, e nella brillante programmazione di questo concorso pesarese 2020 finiscono per parlare apertamente anche con gli altri lavori, fra gli Aggregate States of matters di Rosa Barba e il mostro colonialista immaginato da Felipe Bragança nel suo Um animal amarelo. Sono infatti i nativi che narrano le varie leggende sui Cenotes, rievocando il sangue versato per mano degli spagnoli di Hernán Cortés che proprio in Yucatan approdarono nel 1518. Da questi racconti, declamati in maniera quasi meccanica, emergono diversi temi: quello della colonizzazione appunto, che comporta la distruzione della cultura degli antichi, e quello ecologico da cui emerge l’ennesima l’ambivalenza del film: una natura violenta e violentata, la natura sull’uomo e l’uomo sulla natura. Sguardi diversi, voci diverse, ossimori: verrebbe da dire dolor y gloria. Sí, perché c’e un afflato epico nel mito Popol Vuh custodito a queste latitudini, un’eco di mondi lontani e destini tragici.
La regista fa utilizzo delle riprese subacquee con una certa ridondanza per dilatare lo spazio e il tempo, alterandone la visione e il movimento. Se un corpo immerso in acqua si muove in maniera rallentata, il cinema di Kaori Oda ne ha lo stesso vigore e la stessa calma. Nonostante l’accumulo di spunti, di invenzioni e di avanzamenti rapsodici, questo film dimostra come anche un corpo pesante, dotato di forma e grazia, riesca a galleggiare. E ancora. Oda Kaori pone domande e pretende risposte. Come se ne esce vivi dal Cenote? (Toh, una grotta! Mai metafora più bella per una sala cinematografica). Ci vuole con una costante e paziente ricerca (di un linguaggio nuovo, delle origini, del divino), che pur dialogando col passato appartenga al cinema del presente e soprattutto al cinema del futuro. Un cinema che si fa sempre più lirico, sospeso, fluttuante, e mai prima d’ora immerso nelle sacre acque.
Roberto Oggiano