TROPPA GRAZIA (2018), di Gianni Zanasi
Cosa succederebbe se un convinto ateo, all’improvviso, iniziasse a vedere la Madonna? Non solo a vederla, ma proprio a esserne perseguitato, a parlarci, a litigarci, persino a venirci fisicamente alle mani. E a perdere, perché ovviamente nulla si può contro chi è onnipotente. E mentre lei, la Madonna, invisibile e inaudibile per chiunque altro, continua ad avanzare le sue sacre richieste di costruire chiese, la parte razionale del materialista lo trascina da uno psichiatra con la paura di impazzire, con la ragione che nega la Fede, con gli psicofarmaci per tentare di bloccare le allucinazioni. Ma le medicine e la razionalità non servono, al divino non si può scappare: la Madonna, che sia patologia o misticismo, che sia schizofrenia o apparizione, che sia impazzimento o miracolo, è sempre lì, con il suo velo, con le sue chiese da costruire, e con le sue mani ad afferrare e tirare i capelli a chi non accetta il suo ruolo di messaggero divino, a chi non crede, a chi ha paura dell’inesplicabile. L’intuizione su cui si basa Troppa grazia, nuova e almeno a tratti irresistibilmente spassosa commedia di Gianni Zanasi realizzata a tre anni dal (debole) La felicità è un sistema complesso e presentata, con tanto di premio ottenuto come miglior film secondo gli esercenti, alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2018, è brillante e stratificata, e apre a riflessioni nemmeno banali sulla Fede (o non Fede) nella contemporaneità che permettono al film una libertà folle e assoluta, scritta in punta di penna e surreale quanto basta, che non ha paura di giocare lambendo il blasfemo senza mai davvero piombarci. Sia ben chiaro, il film di Zanasi mostra anche elementi di disegualità, cala vistosamente di brio e idee negli ultimi 20 minuti che sarebbero a esclusione dell’inquadratura finale forse del tutto eliminabili senza perdere nulla o quasi, non approfondisce quanto potrebbe tutti i personaggi a volte relegati a un mero ruolo monolitico e funzionale alla nuova formazione della protagonista, e fra acqua e fuoco ha al suo interno, in una produzione dal budget non particolarmente alto ma nemmeno con le cifre del puro indipendente, almeno un paio di momenti resi in una computer grafica non certo irresistibile. Però, ben al di là dei suoi piccoli e grandi limiti, nell’ormai asfittico panorama di quella che è diventata la commedia italiana una sincera e sbarazzina “mattata” come Troppa grazia è una necessaria boccata d’ossigeno, è una ventata d’aria fresca che dimostra che si può ancora osare, ed è la prova che sul cinema popolare si può ancora ragionare portando idee brillanti e inedite, fregandosene allegramente di quelle che sono le “regole” del gioco, l’incastrarsi di proprio tutti i tasselli, i tabù da (non) toccare per non rischiare di pestare piedi. Zanasi rifiuta cordialmente tutto questo, rifiuta tutta l’ipocrisia del cinema-industria, e filma l’invisibile, l’inspiegabile, l’irrazionale, il mistico, il folle. Filma la Fede in un Paese di tradizione religiosa andata sfilacciandosi, filma lo scetticismo, filma il credere e il non credere, non solo ai precetti, ma anche alle proprie percezioni, alle proprie visioni, ai propri dialoghi, ai propri piccoli e grandi miracoli del quotidiano. Facendo ridere, tanto, in un surreale che stimola riflessioni multiformi e necessariamente contraddittorie, pronte ad annullare nella figura della Madonna ogni tipo di possibile certezza. E aprendo uno squarcio di speranza e libertà, se vogliamo di Fede, nel cinema italiano tutto e in quello che può (ancora) fare.
Zanasi, con pungente e acuta ironia, mette in discussione la religione e ne esalta la parte più ridicola e fuori dal tempo, ma non solo. Parla apertamente di patologie mentali e psicofarmaci, parla apertamente di una famiglia spaccata dalla noia e riunita (ma non troppo) dal miracolo e dallo scetticismo ateo nei suoi confronti, parla apertamente di rapporti fra le generazioni fra un padre ex-musicista tossicodipendente e “social” e una figlia schermitrice alla quale non si vuole far sapere delle proprie visioni a costo di mentire apertamente – e quindi “peccare” – fra arzigogoli e imbarazzi. Parla apertamente del mondo del lavoro fra corruzioni, compromessi, ricatti economico-morali e italiota (in sostanza berlusconiano, anche se non viene detto espressamente) “arrangiarsi” contro cui giunge direttamente il divino fra scetticismo, richieste e punizioni che verranno a loro volta nuovamente ribaltate dalle spiegazioni razionali (l’allagamento del paese dovuto a un problema alla rete fognaria, e non all’«acqua» evocata dalla Vergine Maria), parla apertamente di una società che ride del miracolo (emblematica la sequenza in cui l’intera squadra di scherma si genufletterà dileggiante di fronte alla figlia della protagonista, umiliandola per il solo gusto di farlo), e nel frattempo inserisce più d’un riferimento al razzismo che serpeggia per la società ormai anche fra le classi più basse, quelle degli operai, quelle dei proletari, quelle di chi soffre per arrivare a fine mese, e che più di tutti dovrebbe capire le ragioni degli immigrati, dei colleghi africani, dei baristi cinesi. Zanasi lavora sull’ambiguità fra razionale e irrazionale, fra patologico e mistico, fra allucinato e divino, trovando la chiave dei suoi paradossi in una serie di intuizioni trascinanti – geniale la sequenza della rissa fra la protagonista e la Madonna, alla quale attraverso la vetrata assiste attonito chi può vedere solo una sola donna che apparentemente si trascina per il collo e per i capelli fino a mettersi da sola al muro, oppure la “collaborazione” di una Vergine parcheggiatrice che fa segno a Lucia per il posteggio perfetto – e in una vena satirica che nei dialoghi si fa brillante, intelligente e raziocinante nell’opporre non solo la razionalità, ma anche la burocrazia, ai solleciti divini. Ma soprattutto Gianni Zanasi, in Troppa grazia, vuole parlare apertamente e lucidamente di dignità, quella della donna che per prima non crede alla realtà/allucinazione che sta vivendo e per la quale è conscia di rendersi ridicola, ma che attraverso questa realtà/allucinazione troverà finalmente il modo per credere in se stessa. Perché ognuno di noi è la propria chiesa, e la sua costruzione è una costruzione personale, lavorativa, familiare, puramente umana. La vera Fede è nei confronti di se stessi, della propria personalità, della propria etica, della propria capacità di essere madre, moglie, figlia e donna. In una parola persona. Come i pastorelli nelle grotte delle miracolose apparizioni, forse.
Non è certo un caso che la protagonista Lucia Ravi (una sorprendentemente fisica Alba Rohrwacher) di professione sia geometra, una matematica, una calcolatrice, una persona estremamente raziocinante. Tanto che, quando sarà chiamata a fare rilievi in un campo sul quale, da mappe sbagliate e diverse in ogni piano catastale, dovrà sorgere un complesso edilizio corrotto, quando vedrà per la prima volta la Madonna la scambierà per una profuga. Ma la Madonna non l’ha scelta per caso. Essere testimone di un’apparizione era scritto nel destino di Lucia sin dalla prima infanzia, sin da quando da bambina, quando aveva ancora Fede, quando ancora “credeva”, vide sfrecciare sopra la sua testa una stella cometa. Perché «i bambini credono a tutto». Credono a Babbo Natale «vecchio alcoolizzato che va in giro con renne rubate», credono «a Gesù, alla Madonna, all’asinello, a tutto il gruppo», e soprattutto credono a ciò che vedono, senza pensare a schizofrenia, impazzimenti e allucinazioni, senza pensare con i filtri imposti dalla società, dalla ragione e dalla contemporaneità. Del resto, quando Lucia – dopo averli taciuti alla figlia arrampicandosi sugli specchi di un millantato guasto elettrico – racconterà dei suoi deliri mistici al padre che la “sputtanerà” agli occhi della società con un post su Facebook, ci sarà enorme gioia da parte del genitore, perché «queste cose accadono solo agli artisti, ai poeti, a chi non si accontenta». Ma Lucia, nella sua disperata ricerca di lavoro, è stata assunta per le mappature solo perché «disgraziata», solo perché serve qualcuno che non possa permettersi di puntare (o pestare) i piedi e non si frapponga con i dati reali al business, unico show che deve sempre in qualche modo andare avanti. L’apparizione della Madonna diventa unità di crisi, diventa “un problema”, ma non sarà certo una donna sola contro le ruspe – un po’ come l’anonimo cinese contro i carri armati a Tienanmen – a poter fermare l’economia. Nemmeno su indicazione mistica, nemmeno come voce della Madonna. Quello di Lucia è un nuovo battesimo, anche letterale, spinta nella fontana del paese, e a nulla serve la sua parte razionale, a nulla serve il suo sapere di avere a che fare con un qualcosa che non esiste, a nulla serve provare a “curarsi”. Si può solo accettare l’inspiegabile, come Arturo (Elio Germano) e Lucia sapranno accettare le rispettive corna sul cui conseguente litigio e abbandono erano stati introdotti, ritrovando così i sorrisi di una nuova serenità familiare o per lo meno la consapevolezza di un amore che non si è estinto. Fino al sacrificio, se necessario, fino a delinquere assecondando la Madonna e a farsi prendere prima che possa farlo l’altra, lasciata così libera di tornare alle grotte, alla sorgente della vita, alla sua natura di buon(a) pastore, di prescelta, di testimone del divino. E della propria ritrovata consapevolezza, della propria chiesa finalmente costruita. Del resto, quello che più conta, per Troppa grazia è riuscire a «mostrare che c’è qualcosa di bello». E Gianni Zanasi lo fa, eccome, riuscendo a intrattenere, a divertire, a far ragionare, a stimolare in profondità lo spettatore nella sua razionalità e nella sua religiosità ammessa o negata ma inevitabile. Vivendo fino in fondo la propria folleggiante, quasi suicida, libertà artistica. E non è forse questo ciò che si chiede a un cinema che si sappia rinnovare e che sappia ancora stupire?
Marco Romagna