TROMPERIE – INGANNO (2021), di Arnaud Desplechin
La verità e la finzione, la persona e il personaggio, la memoria e l’immaginazione, l’adulterio e la centralità della parola nella narrazione. Ma soprattutto il consapevole ‘furto’ autoriale dall’intimità altrui e dall’arte precedente, necessaria benzina per il motore della letteratura e forse ancor più del cinema che nel suo ‘rubarla’ alle pagine scritte per trasporla in immagini deve obbligatoriamente elaborarla in altre parole, in altre forme e in altri linguaggi, diversi eppure intrisi del medesimo spirito del testo originale. Una vera e propria traduzione (in)fedele che deve necessariamente essere anche letterale, proprio come il francese cinematografico di Tromperie non ha alcun problema nel fingersi e mettersi in scena come lingua madre di quelle camere da letto d’amore o d’ospedale che invece, proprio come nel Deception letterario di partenza, rimangono esattamente le stesse di quei luoghi londinesi, newyorchesi e disperse lungo i bordi più drammatici della capitale della Repubblica Ceca. Ambienti e personaggi immaginati nel 1990 da Philip Roth per renderli, nella sua finzione, il meta-punto di osservazione da cui cercare la più pura verità nello spirito di chi fra quelle mura sempre più prende confidenza e fiducia, vince i pudori e progressivamente si riesce a dischiudere e a donare in tutte le proprie fragilità emotive. Stanze in cui conversare e lasciar fare il suo corso alla passione, in un fiume verbale ininterrotto di sensualità e confessioni, di ricordi e descrizioni, di tradimenti e umori, che cominciano sempre rigorosamente in medias res e cambiano evolvendosi lungo lo scorrere delle stagioni. Parole di intimità e di desiderio, con cui interrogarsi sui sentimenti, sul sesso, sulla violenza, sui traumi passati, sulla filosofia, sui matrimoni già finiti che ancora si trascinano, su cosa piace e su cosa non piace delle persone, sulle preferenze personali fra prepuzio e circoncisione, sulla questione palestinese vista in maniera opposta dallo scrittore ebreo e dalla triste, seducente e sposata borghese londinese interpretata da Léa Seydoux. Dialoghi che Arnaud Desplechin mette intelligentemente in scena in insistite ellissi anche all’interno della stessa inquadratura, a riportare proprio come il blocco degli appunti di Philip solo ciò che serve, l’essenziale e quindi l’essenza delle persone, dei personaggi e di chi, come una sorta di tramite fra i due mondi, li scrive innestandoli nella propria fantasia. Basta solo averne abbastanza perché sia possibile trasporre e fare di quell’intimità un soggetto, e inserendolo in una storia ricreare sul bianco delle pagine il nuovo reale di un romanzo. Un introiettare e trasporre il corpo e l’anima delle donne amate che, a ben vedere, nient’altro è che il livello precedente dello stesso introiettare e trasporre un corpo e un’anima amati, questa volta letterari, che compie Desplechin, fino a trarre da un libro apparentemente impossibile da trasporre in cinema uno dei rari capolavori sbarcati sulla Croisette in questo luglio dell’anomala edizione 2021 del Festival di Cannes, anche se non si capisce perché relegato in Premiére e non inserito in un concorso nel quale sarebbe stato serissimo candidato alla Palma d’Oro. Un film letterario, visionario, seducente e teoricissimo che vive della medesima intimità degli stessi personaggi, lui, lei, l’altra e l’altra ancora che riemergono dal passato, e poi la moglie. Anime che si incontrano, si chiamano, si parlano e si evolvono lungo lo scorrere di dodici eccezionali capitoli, o forse sarebbe meglio dire undici più il necessario epilogo, che dall’Autunno si evolveranno nei loro dialoghi dopo aver fatto l’amore attraverso l’Inverno fino al ritorno della Primavera, e poi nel nuovo incontro con il libro già scritto e sugli scaffali. Passando per Praga e le sue memorie di guerra e spionaggio, per Rosalie nel suo letto d’ospedale a New York, per Il regista ceco con la pistola accecato dalla gelosia, per La sposa di Philip sperduta fra i ripetuti tradimenti e la speranza che siano semplicemente un’invenzione, e ancora per gli Sport invernali, per l’illusione delLa grazia del governatore e per Il processo allucinato alle proprie infedeltà.
«Nel mio studio non ci sono donne, solo i personaggi dei miei libri», dirà alla moglie per giustificarsi il seriale fedifrago – sempre ammesso che realmente di tradimenti si tratti, e non di pure fantasie da immaginare, amare e trasformare in racconto – Philip Roth del Deception di Philip Roth. Un alter ego omonimo, come spesso accaduto all’interno della letteratura di quello che è stato probabilmente il più grande e importante narratore statunitense (non solo) del dopoguerra, che come lui è scrittore e feticista della parola, non necessariamente autobiografico nello scorrere degli eventi ma apertamente autoanalitico e teorico nei rapporti umani come senso più intimo di uno scrivere che non può prescindere da un personale compromettersi. Si autodefinisce «audiofiliaco», e nei suoi dialoghi con le diverse donne cerca sempre di parlare il meno possibile, perché quello che gli interessa è ascoltarle, carpire il senso più profondo della loro vita e della loro intimità, entrare nella loro sfera emotiva e nel loro dolore – spirituale ma anche chemioterapico – proprio come un attore entra in un ruolo e lo vive per tutto il tempo necessario non solo di fronte alla cinepresa. Per poi, stavolta come il regista che lo immagina e lo caratterizza, mettersi alla macchina da scrivere e sparigliarne le carte, magari mescolando più persone nella pura invenzione del personaggio che abiterà in tutta la sua verità la pura fantasia del romanziere, o forse scegliendone solo una per volta, ma non riuscendo mai più a dimenticarla. Fino al vero e proprio processo con cui Philip verrà (auto)giudicato per la sua misoginia e per il suo sfruttare le donne, rubando loro, come una macchina fotografica secondo le culture dell’India o dei Quechua delle Ande, la purezza più candida dell’anima. Eppure non è il suo l’Inganno, tanto per aggiungere al concetto di traduzione così splendidamente affrontato da Arnaud Desplechin anche il titolo italiano del romanzo di Roth, già annunciato anche per la futura distribuzione del film. Il Philip Roth personaggio di questo meta-romanzo ora diventato straordinario meta-film sulla colpevolezza adulterina dello studio preparatorio, anzi, non fa mai nulla per nascondere alle donne che incontra e con le quali conversa come il loro amore sia destinato a rimanere rigorosamente passeggero, come ci siano tante altre donne nella sua vita anche contemporanea, o come la sua aperta intenzione sia quella di vampirizzarle per rielaborarle in eroine di carta e di parole, riscrivendo la loro vita dall’apice della loro sincerità e trasformando la loro personalità, le tracce della loro esistenza, la loro dignità e il senso stesso della loro emotività in quelle della protagonista del prossimo libro. Semmai il vero Inganno si consuma in tutto quello che rimane fuori da quelle sensuali stanze, nella realtà di un mondo freddo e meccanico fatto di regole e di omissioni, dove non è possibile mettersi allo stesso modo a nudo, scavare dentro se stessi e trovare il modo per esporlo. Molto meglio rimanere fra quelle quattro mura di tradimenti e fugace ma purissimo amore, dove le memorie si materializzano e già si meticciano con la fantasia dell’autore nei luoghi che cambiano seguendo il flusso dei racconti delle tre diverse lei nelle tre diverse città. E mentre nelle proiezioni dell’archivio sui muri della scatola scenica deflagra l’immaginazione vivida di lui, l’adulterio diventa dolcemente un palcoscenico innevato, uno stagliarsi delle figure degli amanti nella pura luce, un bacio appassionato appena si chiude la porta prima di quell’orgasmo extraconiugale che restituisce in un istante ai due amanti ciò che per anni la deprimente vita matrimoniale aveva loro tolto. Un incontro di corpi che è un incontro di anime, di narrazioni, di ricordi, di fantasia, di fedeltà e di tradimenti che nella loro libertà e fiducia sono forse gli unici rapporti di coppia realmente sinceri, in attesa che una donna possa diventare ancora personaggio, il personaggio possa diventare ancora libro, e il libro possa reincarnarsi ancora una volta in grandissimo cinema. Che poi, in fin dei conti, nient’altro è che il più bell’Inganno, Deception o Tromperie che ci possa essere. Basta abbandonarcisi senza resistenza, seduti e sedotti davanti allo schermo, e lasciarsi dolcemente abbagliare dai suoi magnifici raggiri di immagini e parole.
Marco Romagna