TRIANGLE OF SADNESS (2022), di Ruben Östlund

È un film spietato e ferocissimo quello che, dopo la Palma d’Oro del 2017 con The Square, il regista svedese Ruben Östlund porta di nuovo in concorso a Cannes, lasciando il pubblico dell’edizione 2022 nuovamente esterrefatto, disgustato dal genere umano e indubbiamente divertito dalla furia iconoclasta della sua – letterale – distruzione. Basterebbe già l’incipit, con il dietro le quinte una sala casting e la parata di modelli statuari stuzzicati da un intervistatore ben più intelligente di loro, per capire la piega che prenderà questa “cattivissima” dark comedy. Quello che ancora non si sa è quanto in questo Triangle of Sadness si estenderà l’occhio della camera di Östlund, che ora non guarda più (solo) al mondo dell’arte contemporanea come in The Square, ma nemmeno solo a quello della moda come per un istante si potrebbe temere. Piange invece grottescamente di risate sull’umanità intera, che fa schifo da quando dalla notte dei tempi sa che da soli si è morti e bisogna organizzarsi insieme per sopravvivere, ma non ha ancora trovato un modo giusto per farlo. È infatti la famosa “società” il vero obiettivo nel mirino dell’autore, quel sistema di fatto di denaro e di cinismo, di classi sociali e di perversi rapporti di forza, di gerarchie e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Una forma iniqua di collettività che nell’arco della narrazione verrà letteralmente fatta deflagrare per essere invertita e di fatto ristabilita identica a prima, mostrata per quello che è: inevitabile e intrinsecamente malsana.
A ricordarlo la coppia di protagonisti, emblema di questo ridicolo inizio secolo di social media lei, bello e innocuo lui. Li vediamo insieme per la prima volta al ristorante, di fronte a una tartina microscopica e intonsa e un conto da pagare rimasto sul tavolo troppo a lungo perché uno dei due non faccia la mossa di prenderlo. Ed è lui. Da qui un litigio e una filippica sulla parità di sessi e sull’equità che fa rimbombare di risate la sala cinematografica (ma non quella da pranzo: i camerieri non ridono nei ristoranti di lusso, verrebbe rivelato che sono persone) e che viene trascinato in taxi e fino a dentro l’albergo, dove Carl e Yaya finalmente sembrano scendere dalla vetrina di modello e influencer per mostrarsi più umani nelle loro deboli piccolezze e nelle loro piccole debolezze. Östlund fa così, talvolta e per un istante solo si avventura nel sentimento da commedia romantica per destabilizzare il pubblico e dargli uno schiaffo poco dopo. La seconda sezione di questo film tripartito è ambientata infatti in una crociera di lusso che è il regno delle apparenze e dello showcase, ritmata dagli scatti dell’iPhone che sono i selfie con un piatto di pasta che non verrà mai mangiato o direttamente le pose da Paolina Borghese come Venere vincitrice, oliata, stesa su una sdraio e scolpita dai filtri di Instagram, i Canova del nuovo millennio. E in questa nave che poi altro non è che una versione meno apocalittica (ma non meno tragica) del treno bonghiano di Snowpiercer, in cui le uniche parole concesse alla crew sono «Yes ma’am» e «Yes sir» anche di fronte alle richieste più assurde, viene offerto lo spaccato di una società in miniatura. Come in quella del macaco del Giappone, cristallizzata in classi rigide in cui solo quella dominante d’inverno ha il privilegio di riscaldarsi alla fonte termale, anche qui gli altri dal basso guardano verso l’alto (o viceversa, tanto poi scoppia tutto) i loro simili immersi nell’acqua. Perché non siamo diversi dalle scimmie, e nella piscina ci possono andare solo lo shit seller russo, il disgustoso industriale inglese che costruisce bombe a mano, il genio dei software impacciato con le donne e gli altri “privilegiati”, fino a quando il “privilegio” non è imposto anche ai lavoratori, assolutamente disinteressati ma che ora devono scivolare in mare per assecondare la scelta di grande magnanimità dei loro ospiti, per divertirli. 

Guidati alla cieca da un comandante ubriacone che dopo aver parlato attraverso una porta per intere scene solo nella seconda metà del film si rivela con sorpresa Woody Harrelson, la famosa cena del giovedì diventa un’anticipazione della terza e ultima sezione dell’opera ma soprattutto un tornare alla realtà quasi naturale dei fatti. Basta un mare mosso per far venire giù la facciata di tutto: i bicchieri perfettamente posizionati a una equa distanza dal piatto vacillano, la simmetria del tavolo di scompone, il make-up si sbava per il sudore e la compostezza dei ricconi infiocchettati viene gradualmente a meno, da quando cercano di calmare la nausea con della gelatina di caviale e infine al culmine, il momento sicuramente più alto del film. Un exploit dal “sapore” tarantiniano, solo che al posto del sangue ci sono un irrefrenabile vomito arancione e la diarrea. Che sì, è un qualcosa che facevano i Monty Python già cinquant’anni fa, ma che sono cinquant’anni che nessuno fa più, per lo meno non per far cadere così straordinariamente ogni maschera tirando fuori la natura più disgustosa di chi la porta. Un’onda di ‘verita’ esagerata, feroce, irriverente ed esilarante come la regia di Östlund, con la scena si estende dalla sala da pranzo fino ai bagni, dove quella vecchia in reggiseno continua a scivolare nei suoi liquidi che escono ovunque, anche dal gabinetto scoppiato a cui si aggrappa, così come gli altri ospiti letteralmente immersi nella loro merda e accompagnati dalla voce all’altoparlante di chi di merda è esperto perché la vende, e ora ubriaco fa una gara di citazioni con il capitano, da Marx a Twain fino a Ronald Reagan. A partire dall’iniziale «How do you tell a Communist?» si scontrano a colpi di shottini e battute la visione del “comunista americano” e del “capitalista russo”, che per lo meno sembra l’unico del branco a distinguersi per capacità di pensiero di fronte ai consociali, sul “trono di cartapesta” della loro casta «incapace di pensiero, nemmeno sfiorata dal dubbio» così come il grande Ugo Casiraghi aveva descritto la borghesia nel capolavoro di Buñuel. E ora finalmente di questi “guests” vediamo il vero “fascino”, tutto fuorché discreto, così come si dispiega sotto gli occhi professionali e ancora educati della crew, che ovviamente sta benissimo perché se la sa cavare di fronte alle intemperie, in mare come in terra. Insomma, di fronte alla realtà
Con la stessa bomba a mano prodotta da un passeggero della luxury cruise è un attacco pirata a far saltare in aria tutto, la nave ma non solo. Che sia appena sfiorata come la valanga arrestata di Forza Maggiore (2014) o che sia apocalittica come l’esplosione dello Snowpiercer, è la catastrofe a determinare un nuovo ordine, in questo caso il matriarcato di Abigail. Colei che sulla nave lavava i gabinetti, ma da quando caccia un polpo diventa prima leader della sua oligarchia di donne – solo loro possono dormire al riparo della scialuppa – e poi di fatto regina dello sgangherato regno fatto del gruppo dei superstiti, che per poco prova ancora a far valere la legge del Rolex ma ben presto deve adeguarsi alla nuova moneta. Il pesce, ma soprattutto, i pretzel.  Merce di scambio per cui Carl è presto pronto a prostituirsi: così di nuovo “paga” la cena della fidanzata, perennemente insoddisfatta e ora finalmente avida di carboidrati, fino a comprendere di come le leggi sociali del giudizio e del gossip continuino a valere anche sull’isola, quando i followers non esistono più ma i like degli altri sì. Fino alla aperta deriva dispotica, come sempre, anche nel finale aperto. Quando Yaya in una passeggiata trova l’ascensore della salvezza e capisce che erano sperduti in un resort di lusso, persi in un bicchiere d’acqua o forse di champagne, il carnevale con la sua inversione dei ruoli può finire e si può tornare alla vita di prima, alla gerarchia (in)naturale così come è scaturito da dinamiche durate troppo a lungo perché vengano spazzate via da una semplice onda. O forse no, perché Abigail bandisce una pietra in mano (come la roccia metaforica e assassina di Parasite – ancora Bong Joon-ho, 2019 – a cui Triangle of Sadness assomiglia per innumerevoli  e ovvi aspetti) e non sappiamo se la scaglierà e tornerà, ora tiranna e assassina, a continuare a vessare gli altri. Con la corsa affannata di Carl tra gli alberi, che per alcuni potrebbe indicare come la prima ipotesi di finale sia corretta e dunque Abigail abbia scagliato davvero l’ultima pietra, si conclude quest’opera.
A tratti didascalico e sicuramente inequivocabile come d’altronde ogni pamphlet politico deve essere, il film si direbbe marxista se in realtà non distruggesse qualsiasi forma, qualsiasi ipotesi o ipotetica soluzione sociale. Non è solo una riflessione grottesca sulla deriva del potere da ogni lato lo si voglia vedere e chiunque lo prenda in mano, ma è una considerazione sulla intrinseca impossibilità di giustizia e di bene comune e sull’inevitabile prevalere della legge del più forte, in qualsiasi forma si possa manifestare, quando la forza sono i soldi, la fortuna, la scaltrezza, la capacità fisica, o ancora la necessità di sopravvivere. Grottescamente surreale ma brutalmente vero, Triangle of Sadness demolisce così nelle fondamenta l’utopia del «From each according to his ability, to each according to his needs», perché non si può andare contro la natura classista dell’uomo sociale: l’iniquità si ripresenterà sempre, «sulla nave donna delle pulizie, sull’isola comandante». Non resta altro che distruggere per non ricostruire, perché tentare di farlo vorrebbe dire soltanto, ancora una volta, reiterare le stesse ineluttabili dinamiche in una sempre nuova declinazione.

Bianca Montanaro