Una “piccola nota personale”. Che poi, usando la stessa locuzione in altro senso, è forse proprio ciò che manca a un film vuoto, arido, meccanico, insospettabilmente privo di un reale sguardo e quindi senz’anima come questo. Una nota che non posso che scrivere in prima persona, in quella forma forse apparentemente meno professionale nell’ambito dell’agone critico, ma che più sinceramente apre al cuore di chi si siede sofferente alla tastiera per esprimere ciò che mai e poi mai avrebbe voluto esprimere, o anche solo immaginato di poter pensare prima ancora di doverlo trasformare in parole. Il fatto è che ho un grande dolore nel cuore. E che provo un profondissimo imbarazzo. Perché non avrei mai voluto, morettiano di ferro sin da bambino, ritrovarmi nella Cannes ormai ‘sua’ sin da prima della Palma d’Oro per La stanza del figlio e in quella Francia che da sempre lo adora di fronte a un film di Nanni Moretti che praticamente nessuno sta riuscendo in alcun modo a difendere, sul limitar del disastroso per scrittura, recitazione, regia, pressoché totale assenza di poetica e di sincerità dei sentimenti. Il primo adattamento in tutta la carriera da un racconto altrui del regista romano, che nel passaggio di immaginario e di medium coincide con il suo primo reale passo falso in quasi mezzo secolo di film più e meno grandi, più e meno rivoluzionari, più e meno illuminanti e profetici, ma sempre rigorosamente “suoi”.
Certo, nel procedere parallele senza mai (riuscire a) intrecciarsi delle tre storie messe in scena da Nanni Moretti c’è ancora la paura che sia successo qualcosa di inconfessabile alla figlioletta che per un padre diventa distruttiva ossessione e procede contraddittoriamente a braccetto con il suo cedere alle pulsioni della carne, c’è ancora la solitudine di una madre impreparata e terrorizzata dall’idea di ereditare la follia di famiglia che diventa un timoroso e passivo ma consapevole abbandonarsi allo scorrere degli eventi, e c’è ancora un senso di superiorità (dis)umana per le violazioni dei codici di comportamento che diventa per la coppia di giudici che scarica il figlio problematico senso di colpa e irrisolvibile nostalgia. Eppure, non solo per la decisone di spostare a Roma le vicende che Eshkol Nevo aveva ambientato a Tel Aviv, la metafora che divideva i Tre piani letterari nella lettura freudiana dell’inconscio tripartito fra es, io e super-io è nella loro versione cinematografica talmente vacua e depotenziata da sembrare quasi elisa, come se il da sempre autoanalitico Moretti non fosse più interessato a quella psicologia che lo ha accompagnato per tutta la carriera. Alla pari della portata emotiva e sentimentale, azzerata o quasi dopo le lacrime e il cuore sconfinato di quella Mia madre che anche dopo la morte pensava «al domani», in un’asciuttezza “demorettizzata” nella quale non possono bastare la voce di un bambino o di un marito perduti che riemergono dalla segreteria telefonica, né le parziali, meccaniche e inautentiche riconciliazioni finali, per ritrovare una reale idea di regia.
Semplicemente, nel suo racconto corale Tre piani sceglie di battere, fiacco e scolastico nei suoi campi/controcampi senza guizzi e nei suoi simbolismi a grana grossa (basterebbe il corvo che appare ad Alba Rohwacher quando non capisce più se quello che vede sia realtà o allucinazione), la strada della pura narrazione degli eventi di un racconto che non appartiene al suo autore – a disagio, un po’ come tutto il cast, anche nella parte attoriale che si ritaglia –, e in cui la trama da sola non può bastare per lasciar emergere la stessa profondità metaforica instillata dalle pagine dello scrittore israeliano negli antri più profondi delle anime dei personaggi che le abitano. In tal senso, anche l’idea di alternare le tre storie in montaggio incrociato al posto della netta divisione in tre racconti del libro, seguendo una mera scansione temporale in cui la tripartizione rimane solo nell’evolversi degli eventi raccontati fra il 2010, il 2015 e il 2020, non appare particolarmente felice, sicuramente sullo schermo più unitaria di una scansione in episodi, ma a discapito del necessario approfondimento delle istanze dell’anima e della psiche. Fino all’aperto scult sfiorato dalla sequenza dell’incidente mortale iniziale con la Fiesta che si incastra nel salotto, o in quella della seduzione del personaggio di Riccardo Scamarcio da parte della minorenne Charlotte, o (peggio) ancora in quella dei leghisti che, nel traslare a Roma i conflitti fra israeliani e palestinesi presenti nel libro, attaccheranno la sede dell’associazione benefica che cerca di dare un minimo di dignità agli immigrati. Sequenze tanto goffe e grossolane che a vederle sembra impossibile siano state davvero girate da Moretti, quasi inspiegabili nella loro costruzione, nei loro punti di vista e nel loro montaggio. Tanto che persino l’unico momento puramente morettiano, con il nutrito gruppo che balla il tango in strada mentre l’auto con il padre del primo piano rimasto (forse) solo con i figli si allontana, finisce quasi per stonare in un film che fa di tutto per allontanarsi dal suo cinema, come una pennellata di maniera ben più che di linguaggio, del tutto svuotata della sua consueta potenza.
Un incidente di percorso che in più occasioni sfiora il ridicolo involontario, e che – è il momento di tornare alla prima persona – se fosse di altri autori nei confronti dei quali non nutro personalmente lo stesso affetto cinefilo e la medesima sempiterna stima non avrei particolari problemi a definire sospeso da qualche parte fra la soap opera del pomeriggio su Rete4 e i più deteriori drammi corali borghesi realizzati dalle sorelle Comencini. Nel caso di Nanni Moretti però è diverso, perché vedergli realizzare e presentare nel concorso di Cannes un inopinabilmente brutto film, e ancor di più sentirlo sbeffeggiato in lungo e in largo da buonissima parte della critica internazionale, è semplicemente una coltellata al cuore. Un qualcosa che mai avrei voluto vedere, un qualcosa che mai avrei voluto pensare, un qualcosa a cui men che meno avrei mai voluto partecipare scrivendo questo articolo. Ma non avrebbe avuto senso fare finta di nulla e semplicemente non recensirlo. Sarebbe stata anzi una mancanza di considerazione forse ancora peggiore nei confronti di un autore che va sempre visto, seguito, coperto, se possibile amato e in questo caso giudicato con la severità che merita un gigante svogliato, proprio come il suo togato personaggio giudica (troppo) severamente i comportamenti del figlio. È una questione di stima parlarne e farlo con franchezza, perché Nanni Moretti merita un rispetto infinito. Anche dopo un film che, semplicemente, non è riuscito, sbagliato probabilmente sin dall’idea di portare sullo schermo un libro così profondamente diverso ed evidentemente non realmente compatibile con suo il cinema. Non una sua colpa, sia ben chiaro, e anche se lo fosse si tratta solo di un film, che nulla può inficiare né del passato né del futuro. Ma senza dubbio un grande e inaspettato dispiacere. In attesa del suo prossimo lavoro, che – ne sono certo – non potrà che essere già quello del totale riscatto.
Marco Romagna