Fuori concorso a Cannes, proiettato a Roma, al Trieste Science+Fiction 2016 e tra poco in sala con Tucker Film. Train to Busan parla di un viaggio ma corrisponde a un viaggio, in un modo o nell’altro, ed è tra i titoli sudcoreani più cult e chiacchierati dell’anno, più dell’ultimo immenso film di Kim Jee-woon The Age of Shadows, più del ritorno a buoni livelli di Kim Ki-duk con The Net e più dei nuovi film di Park Chan-wook, Na Hong-jin e Lee Il-huyng, che non abbiamo ancora avuto modo di vedere. Yeon Sang-ho ha firmato uno zombie-movie che ha attratto verso di sé attenzione a livello internazionale, tanto da avergli già fatto girare un prequel, Seoul Station, con cui il regista è tornato al ‘suo’ cinema d’animazione. Per ora però, in attesa che il progetto diventi effettivamente un dittico di attori/disegni animati sul quale poterci concentrare, l’attenzione deve andare sul solo Train to Busan, esordio al cinema live-action fatto di ritmo serrato, caratterizzazione ben curata dei personaggi e pioggia di commenti come “finalmente sono tornati i bei film di zombie di una volta”. Ma ne siamo davvero sicuri?
Ricordiamo, pur brevemente, due cose che bisogna conoscere un minimo a livello cinematografico prima di guardare Train to Busan: il cinema sudcoreano in generale e il genere zombie. Per quanto riguarda il cinema sudcoreano si tratta, nel panorama del cinema asiatico, di quello più legato alla tradizione del cinema di genere, in particolare per quanto riguarda il cinema più violento: gli autori più noti, escludendo il “maledetto” Kim Ki-duk, sono i succitati Kim Jee-woon e Park Chan-wook, ma anche Bong Joon-ho, e tutti e tre sono autori di thriller o di drammoni violenti all’insegna di uno stile movimentato ed enfatico. Il primo ci ha dato una serie di film tra il thriller e il noir con personaggi caldissimi, suspence crescente e un rapporto peculiarmente chirurgico e piatto con i corpi e con il sangue, tramutando la peggior tortura in una quasi rilassata esperienza nel mezzo del delirio di tensione; il secondo ci ha dato la trilogia della vendetta, che ha reso il cinema sudcoreano popolare a livello mondiale e che rimane simbolo intenso e tragico di un certo modo estetizzante e iconico di mostrare la violenza e il dramma umano; e il terzo è passato con fluidità invidiabile dal giallo antididascalico (il meraviglioso Memories of murder, 2003) al blockbuster-cinecomic d’autore (il discutibile ma affascinante Snowpiercer, 2013). In un certo senso, questa tendenza al creare intensità dal semplice (e “limitante”) cinema di genere è proprio integrata nel cinema coreano. E a questo punto è necessario anche scavare nell’autore, Yeon Sang-ho, noto principalmente per essere autore di film d’animazione, tra i quali il più noto è The King of Pigs (2011), dramma psicologico di rabbia repressa, sangue, ragazzini scapestrati e politica del disagio: un film con un soggetto interessante e impegnato, rovinato tragicamente dal patetico stile di disegno e animazione che rendevano ridicole anche le scene con il maggior pathos. È sempre interessante vedere comunque come si può trovare un autore di film d’animazione di fronte al live-action, e Yeon Sang-ho così si fa portavoce del cinema horror con fluidità e coraggio. O meglio, per arrivarci finalmente, del cinema zombie, un cinema nato forse con Victor Halperin e Bela Lugosi, ma reso grande e riconosciuto alto a livello mondiale grazie a George A. Romero, il vero maestro del genere, tra montaggi deliranti e oscuri messaggi anti-capitalisti. Il genere con gli anni si è tramutato, il non-morto/infetto ha smesso di essere simbolo lento e cerebroleso dello sconforto nella lotta tra classi ed è diventato semplicemente uno spaventoso spirito da temere, sempre più veloce, sempre più minaccioso, sempre più difficile da rendere davvero originale (vedi The girl with all the gifts).
Nonostante la regia di Yeon Sang-ho sia davvero efficace, tra la “calma prima della tempesta” fatta di silenzi e inquadrature fisse, e le scene d’azione che si fanno mano a mano più epiche e tese (con la necessaria eliminazione dei protagonisti zombificati uno ad uno a causa delle idiozie proprie e altrui), l’idea di base rimane: cosa può dirci un film di zombie oggi? Gli infetti sono sempre di più spiriti che rappresentano una frenetica paura per l’ignoto e sempre meno una critica politica, e l’utilizzare come antagonista principale un commercialista borghese egoista e completamente idiota non è probabilmente necessario a dare a tutto il film il sottofondo carpenteriano del “il mostro siamo noi”. E quindi anche qui a Roma abbiamo visto il degenerarsi del genere, in sostanza lo stesso che ha portato la serie The walking Dead a essere una sorta di soap opera. Anche involontariamente, perché Train to Busan è efficace, davvero, funziona nei suoi momenti di pathos e fa affezionare ai personaggi di una storia tutto sommato banale. Ma questa storia tutto sommato banale rimane solo e soltanto una storia, non ha niente di rivoluzionario e anzi è diretta con uno stile non troppo dissimile da quello degli altri grandi autori coreani. Si rimane delusi non perché il film sia brutto (non lo è), ma perché, al di là di un treno e degli zombie che corrono, non c’è proprio niente da dire.
Nicola Settis