TOWN OF GLORY (2019), di Dmitrij Bogoljubov
La cittadina russa di El’nja sorge nei pressi del confine con la Bielorussia, a circa 400 km a sud-ovest di Mosca, proprio sulla direttrice che dall’Europa centrale porta verso la capitale. La sua collocazione geografica è il motivo per cui, durante la Seconda guerra mondiale, El’nja fu teatro, nel 1941, di aspre battaglie tra l’esercito tedesco e quello sovietico: una cittadina di circa 7.000 abitanti vide cadere, nel giro di poco più di una settimana, quarantamila soldati dell’Armata Rossa che avevano provato a contrastare l’avanzata della Wehrmacht verso Mosca. El’nja fu anche teatro, agli inizi di settembre dello stesso 1941, di uno dei più efficaci contrattacchi sovietici, che portò l’armata rossa a liberare la città dagli invasori nazisti. Fu un episodio determinante per il ridimensionamento della blitzkrieg, con le armate di Hitler che non riuscirono a ripetere quanto fatto sul fronte occidentale. Costò tuttavia gravi perdite a un esercito che era soltanto all’inizio dell’immane sacrificio che gli verrà imposto dalla Grande guerra patriottica.
Il retaggio di quegli avvenimenti resiste ancora oggi nella connotazione estremamente nazionalistica, per non dire sciovinistica, della popolazione di quel villaggio, scelto dal regista moscovita Dmitrij Bogoljubov – formatosi al VGIK, la prestigiosa scuola di cinema federale – per rappresentare al mondo un significativo spaccato della Russia di oggi. Insomma, per capire il fenomeno Putin e il suo apparentemente inscalfibile consenso bisogna passare da El’nja, lì dove nessun tour operator fermerebbe mai i suoi clienti, forse nemmeno per una sosta. Eppure, è proprio in quella città che si respira il più autentico spirito della Russia di oggi, quella Russia unita (come del resto si chiama il partito del Presidente in carica) contro il nemico comune, rappresentato dall’Occidente e in particolare dal blocco Nato.
Sembra di riassaporare il clima della Guerra Fredda guardando questo Уездный город Е, ovvero il Town of Glory in concorso nella sezione documentari del trentaduesimo Trieste Film Festival. Tra l’esibizione di un militarismo muscolare (il film inizia con le immagini delle sfilate dei carri armati a Mosca per la celebrazione della Giornata della vittoria) e quella di una fede quasi cieca nei confronti del leader che, a loro detta, avrebbe saputo far risorgere la Russia, riportandola a un ruolo di primaria importanza all’interno degli equilibri mondiali. Chi recentemente è rimasto colpito dall’affaire Naval’nyj, ci metterebbe davvero ben poco, guardando questo documentario, a inquadrare quella vicenda nell’odierno contesto della politica interna russa, considerato il fatto che l’opposizione – ciò che nei sistemi democratici costituisce generalmente un pungolo del potere, l’espressione di una minoranza che si propone per una più o meno regolare alternanza – viene additata come uno dei nemici del Paese, insieme, appunto, all’occidente, alla Nato e alle organizzazioni terroristiche; tutti posti, senza mezzi termini, sullo stesso piano.
Nella sua qualità di roccaforte del patriottismo russo (e nutrendo la speranza mai abbandonata di ritornare a una sorta di riviviscenza dell’Unione Sovietica) El’nja è dunque un simbolo, con le sue parate e le sue giornate dedicate al ricordo e alla gratitudine verso i caduti. E partorisce fenomeni anacronistici come quello rappresentato dalla sedicenne Maša, che si esibisce nei teatri del paese e della regione intonando canti della Grande guerra patriottica. Maša è una sorta di Greta Thunberg del patriottismo post-sovietico (con tutti i distinguo del caso, ovviamente), una ragazzina che veste con orgoglio la divisa militare dell’armata rossa – con tanto di coccarde e mostrine di ogni genere – e che si commuove, piangendo lacrime apparentemente genuine, pensando ai caduti per la patria, nonostante, come confessato da lei stessa, nessun suo antenato sia morto combattendo nella Seconda Guerra Mondiale.
Il contraltare della giovane Maša è invece rappresentato dal non più giovane Sergej, che a quasi ottant’anni da quelle battaglie si reca nelle foreste attorno a El’nja per scavare e cercare i resti umani di coloro, appartenenti a un paio di generazioni precedenti alla sua, che persero la vita in quelle atroci battaglie. Sono i resti di coloro che caddero per una patria che – secondo lo stesso Sergej – non avrebbero voluto così come è oggi, in mano a un autocrate come Putin, nei confronti del quale l’uomo non risparmia giudizi caustici e persino qualche insulto.
Bogoljubov confeziona un documentario piuttosto semplice, quanto alla forma, ma estremamente significativo per la sua capacità di intercettare e far comprendere lo spirito della Russia di oggi, quello che un osservatore esterno può faticare ad afferrare basandosi semplicemente sulle notizie che giungono dalla stampa o dai media. Per farlo, adotta un metodo apparentemente banale, ma estremamente efficace, affidandosi talvolta alla sua voce narrante (significativo, peraltro, il fatto che sia in lingua inglese – almeno nella versione distribuita ai festival fuori dalla madrepatria) e costruendo un climax intellettuale intenso e talvolta addirittura raffinato. Ciò che risalta, in particolare, è la capacità di portare avanti, soprattutto grazie allo strumento del montaggio, un discorso vagamente ironico su taluni aspetti grotteschi legati alla devozione per Putin e alla propaganda del pensiero unico, sia che avvenga nelle scuole, sia che si manifesti in famiglia. Emblematiche, in tal senso, le imbeccate che la madre di Maša dà alla figlia quando deve rispondere alle domande del regista, parti che si sarebbero tranquillamente potute tagliare in sede di montaggio, ma che invece vengono mantenute proprio in chiave sottilmente ironica. Un modo sagace per arginare le maglie della censura, e per parlare fra le righe lasciando intuire quello che, per ovvi motivi, non si può espressamente dire.
È per questo che Town of Glory appare così estremamente a fuoco, capace di portare avanti anche (e forse soprattutto) un discorso in qualche modo critico, o per lo meno pluralista, a dispetto di quelle che sono le stringenti regole della propaganda e di quelle che, conseguentemente, potrebbero essere le prime impressioni dello spettatore che si approccia all’opera e alle convinzioni del campionario umano trovato a El’nja. È curioso come a un certo punto il regista venga accusato da Sergej – in un momento di ebbrezza in cui arriva anche a spendere parole piuttosto forti nei confronti di Putin – di essere un emissario di agenzie straniere di intelligence. Sembra l’ennesimo role play di un regista che sa come muovere le sue pedine, dimostrando una sagacia fuori dal comune, pur celata dietro un atteggiamento apparentemente dimesso.
Vincenzo Chieppa