19 Maggio 2016 -

TOUR DE FRANCE (2016)
di Rachid Djaïdani

Ben prima che un road movie con la granitica presenza di Gérard Depardieu, oramai un’installazione vivente più che un attore, o un film sul rap come voglia di libertà, Tour de France, è, come suggerito dal titolo, un viaggio nella Francia di oggi. Una Francia sconvolta dagli attentati di Parigi, prima a Charlie Hebdo e poi al Bataclan, una Francia sofferente, colpita, impaurita. Diventata, come spesso la paura impone, intollerante, sospettosa, destrorsa. E a mostrare questa Francia non potevano, forse, che essere gli occhi e la macchina da presa di Rachid Djaïdani, cineasta francese di padre algerino e incarnazione delle due anime, in questo periodo difficili da far convivere, di francese e musulmano. A quattro anni da Rengaine, che già affrontava matrimoni misti e difficoltà di accettazione e interazione fra culture conviventi, Djaïdani torna alla finzione e alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes anche con l’opera seconda, la quarta tenendo in considerazione anche i documentari. E torna a parlare della vita delle minoranze, dell’integrazione sempre più difficoltosa, della distinzione fra cittadini di serie A e cittadini di serie B.
Non sarebbe quindi certo da condannare, l’intenzione primaria di questo lungometraggio, anzi in buona parte dei casi basterebbe per difenderlo. Come pure è senza dubbio degna di encomio la svolta narrativa che apre al finale, con Depardieu ormai dalla parte giusta che diventa una sorta di vendicatore per rimettere a posto le cose. Non possiamo però non notare con rammarico, nel caso di Tour de France, le troppe cadute nella retorica – paradossali in un film proprio contro la retorica –, l’alternarsi di stereotipi, la banale superficialità delle osservazioni. È evidentemente un film dedicato a un pubblico di massa, preferibilmente borghese di quelli che “Non sono razzista, ma…”, è un film che prova a spiegare il concetto di uguaglianza fra cittadini francesi attraverso passaggi narrativi e logici talmente a prova di bomba da risultare, a un occhio solo leggermente più smaliziato, sterili, piatti, quasi puerili, in sostanza drammaticamente vuoti. Tanto da chiederci per quale motivo sia stato selezionato a Cannes anziché andare direttamente in sala, al target a cui è destinato. A partire dal rap, utilizzato come simbolo ‘black’ di libertà, di irriverenza e di pace pur nelle sue forme a volte dure, Tour de France inanella nelle sue forme sospese fra commedia e road movie troppi stereotipi e cliché per funzionare, dalla contrapposizione fra rapper buono e rapper cattivo alla natura borghese e quindi sospettosa del personaggio di Depardieu che solo lentamente capirà di non aver capito nulla, dai modi esageratamente violenti della polizia solo a causa del colore della pelle di Far’Hook ai simbolismi sterili della pittura blu come sangue che cola sulla strada e dalle mani del pittore.

Far’Hook è un rapper parigino franco-algerino in ascesa a dispetto di un pericoloso nemico armato. Si ritroverà ad accompagnare in un viaggio per i porti di Francia il padre di un conoscente, appunto Depardieu, ossessionato dalla pittura del Settecento e in particolare dalla serie di 10 vedute commissionate a Claude Vernet da Luigi XV. Nelle continue contrapposizioni per mostrare la Francia in evoluzione, quella che era la capacità di Vernet nel dipingere il movimento diventa per Serge, appunto Depardieu, la tenera promessa fatta alla moglie poco prima che morisse di ridipingere la stessa serie, i vecchi paesaggi diventano i nuovi paesaggi, i vecchi quadri diventano i nuovi quadri, la vecchia musica diventa la nuova musica. Fra una sequenza che mostra la necessità di cambiare punto di vista semplicemente salendo di un piano e scambi di vedute fra i due protagonisti sulla possibile natura rivoluzionaria o meno del rap – con tanto di rivisitazione di Depardieu della Marsigliese per dimostrarne l’inefficacia –, l’iniziale diffidenza di Serge nei confronti di Far’Hook (“Di dove sei?”, ”Sono francese”, “Se lo dici tu”) diventa lentamente quello che la normalità impone, ovvero un’amicizia – a tratti quasi padre e figlio – fra persone diverse e perfettamente compatibili.
Nel viaggio, appunto un Tour de France in furgone, auto, treno, traghetti e autostop, filmato quasi costantemente con il telefono dal protagonista, si affrontano episodi di razzismo, si parla di pittura e di musica, si parla di tempi che cambiano, si rompe il furgone e si trovano passaggi, compreso quello della splendida Maude che sarà per Far’Hook anche l’inevitabile amore. Fino all’ultimo porto, quello di Marsiglia, la città più cosmopolita d’oltralpe, dove il rapper ha in programma un importante concerto. Serge dipinge il passato, Far’Hook rappa il futuro, qua e là e quasi sempre per merito di Depardieu si ride anche di gusto, e i punti di interesse del film non sarebbero nemmeno pochissimi. Poi però arriva un litigio fra i due che è il più classico degli “spiegoni” di concetti che erano più che chiari in partenza, arriva il faccia a faccia fra padre e figlio, arriva la nascita di un nipotino che nient’altro è che un modo per inserire la lacrimuccia del vecchio “gigante buono” e un vagito, tristemente telefonato, verso il futuro. E il film evapora, rivela tutti i suoi limiti e paradossi, si sgonfia sotto il peso di troppe banalità. Dimostrandosi, al di là della funzione “didattica”, nulla di più che un filmetto. Peccato, perché fra le ottime intenzioni politiche, un attore che quasi da solo “fa il film” e alcuni passaggi indubbiamente divertenti e suggestivi, se avesse saputo limitare l’ingenua foga nella scrittura e nella messa in scena sarebbe potuto venire fuori qualcosa di ottimo. Così non è, ma arriverà senz’altro il successo di pubblico, quantomeno in patria. E in fondo, pur non essendo riusciti ad amare il film quanto avremmo voluto, questo ci fa anche piacere.

Marco Romagna

“Tour de France” (2016)
N/A | France
Regista Rachid Djaidani
Sceneggiatori Rachid Djaidani
Attori principali Gérard Depardieu, Sadek
IMDb Rating N/A

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