TORNERANNO I PRATI (2014), di Ermanno Olmi
Cade la neve, a metri. Copre i prati, carica i rami degli alberi spogli, gira intorno ad aguzze punte di filo spinato. I fiocchi si posano candidi, mentre il vento gelido si insinua come una lama fra le assi di legno del rifugio. La stufa scoppietta, ma fa quello che può: gli uomini hanno la febbre, sudano freddo, delirano. Il nemico militare è sempre laggiù, invisibile da qualche parte, ma il vero nemico adesso è il gelo. La neve, glaciale armistizio temporaneo, una morbida coltre bianca capace di fermare anche la Grande Guerra. Non si combatte, ma si spala un sentiero per far arrivare gli approvvigionamenti. Siamo sull’Altopiano di Asiago, poco meno di un secolo fa. In trincea.
Torneranno i prati, l’ultimo lungometraggio di Ermanno Olmi in questi giorni nelle sale, rievoca le memorie belliche del padre del regista, dando vita ad un – forse catartico – abbraccio generazionale intriso della più umana pietas. Non sono ‘solo’ soldati, quelli che Olmi mette in scena. E’ al contrario un film fatto di uomini, ognuno con le proprie debolezze e sofferenze. Il legame profondo con la terra natìa, gli accenti e i dialetti orgogliosamente ostentati, il canto che rende tutti uguali, tutti più allegri, senza barriere di nazionalità né di grado militare. Il tempo non esiste più, ci sono le foto dei figli nel cappello, e tanti anni via di casa senza neanche sapere perché.
Ermanno Olmi vuole rendere giustizia alla memoria e al cuore di questi uomini, una memoria sbiadita nelle coltri della storia, alla quale nessuno ha forse mai creduto fino in fondo. Una memoria storica di fatica quotidiana, di fango, neve e legna ancora da ardere. Una memoria storica di natura ed apparente stasi, un Deserto dei Tartari imbiancato in attesa dell’azione che sembra non arrivare mai. Un mondo desaturato, quasi ai limiti del bianco e nero, perché la guerra non ha colore. Un mondo fotografato e postprodotto volutamente piatto, bidimensionale, morto. Solo il sangue, rosso segno di morte, brilla sullo schermo, mentre un albero che riluce dorato tradisce l’atavico sogno di riscoprire un rapporto normale con la terra, con gli alberi, con la natura. Il cielo, quasi fatato nei suoi bagliori lunari, rende ancora più spietato il contrasto fra il sublime sontuoso del paesaggio e le anguste trincee della Prima Guerra Mondiale. L’immensità dell’Altopiano imbiancato degrada verso lo spazio claustrofobico di una fossa dove uomini – mariti padri e figli – aspettano di morire.
Arriva un ordine. Viene nominato un avamposto impossibile da raggiungere, invisibile per quanto a pochi metri dalla trincea, sotto il tiro nemico. Un ordine suicida, capace di distruggere il precario equilibrio. I gradi e le decorazioni possono obbligare gli uomini a riferire e far eseguire ordini folli, mandando altri uomini a morte, ma non possono coprire i loro drammi di coscienza, né la loro umanità lacerata in una sola notte.
Torneranno i prati, nel quasi pieno rispetto delle unità aristoteliche di (non) tempo, (non) luogo e (non) azione, porta lo spettatore in un viaggio fra uomini-spettri, dove gli eventi sono imprevedibili ed i tempi ugualmente dilatati e serrati. Da un lato, La Sottile Linea Rossa dell’attesa, della follia bellica, della natura indifferente; dall’altro la fulminea accelerazione del bombardamento nemico, e la conta delle vittime dopo un ordine evidentemente sbagliato.
Le digressioni emotive sui protagonisti, dalla coda per la posta alla straziante rinuncia ai gradi strappando quasi in lacrime le decorazioni dall’uniforme, raggiungono apici di umanità che consapevolmente travalicano il realismo e giungono a scavare nell’animo dello spettatore. I silenzi si caricano di significati, mentre uno sguardo in macchina svela dolcemente l’atto stesso del fare Cinema, dichiarazione programmatica per restituire memoria, identità e dignità a corpi senza volto. Olmi lavora per sottrazione, trovando nell’essenziale la sua inattaccabile cifra poetica. Pochi e dilatati dialoghi, l’importanza del silenzio e del fuoricampo, la potenza visiva di ogni abbacinante inquadratura. E’ un cinema radicale, quello di Olmi, levigato unicum nel panorama nostrano, vibrante nel trasudare grazia, capace di rinnovare costantemente dettami squisitamente classici. Il canto è gioia, e la gioia è sparita dai cuori: ora sull’Altopiano regna un innaturale silenzio.
La neve ha smesso di scendere, mentre gli uomini ne scalfiscono la superficie con le pale. Buche profonde, dove seppellire commilitoni, compagni, forse amici. A loro guardia, vengono issate croci di rami intrecciati, senza nome, senza memoria. Alcuni corpi, quando la neve si scioglierà, verranno recuperati dalle famiglie, ma la maggior parte di loro rimarrà sepolta su questo Altopiano, e con loro il ricordo. L’inverno finirà, e dallo spesso strato di neve tornerà a far capolino il verde. Torneranno i prati, e sembrerà che non sia successo nulla.
Quello di Ermanno Olmi è un atto di giustizia storica, per le vittime e per i sopravvissuti. Torneranno i prati è una delle più lucide e amare riflessioni antibelliche degli ultimi vent’anni.
Marco Romagna