Sion Sono è tra quei registi che per noi di CineLapsus è praticamente sempre una garanzia, se non di qualità perlomeno di interesse. Nel campo dell’intrattenimento cinematografico festivaliero in particolare, alla luce di capolavori come Love Exposure (2008) e Why don’t you play in hell? (2013), di cui abbiamo avuto il modo di godere in un momento precedente alla celebrazione mediatica universale, il fomento e il clamore nei confronti dei suoi lavori cinematografici porta sempre a grande curiosità, e ciò è anche legato alla versatilità dell’autore, sempre in bilico tra l’autore dal palato raffinato da una parte e il mestierante genialoide e pulp dall’altra. Love Exposure, nonostante i deliri da fumettone cosmologico (che in realtà ne aumentano il fascino iconico), è una pietra miliare del cinema post-2000 anche per la gentilezza mistica e la delicatezza caratteriale dei suoi ritmi fuori dal tempo e fuori dal mondo, per esempio; ma poi non possiamo dimenticare assolutamente l’intensità di Himizu (2011) o la tenerezza post-apocalittica di The Whispering Star (2015) o ancora la disturbante violenza che caratterizza il tremendo e incredibile Cold Fish (2011) e il delirio isterico e pessimista di Antiporno (2016). Dall’altra parte dello spettro, però, c’è sempre stata una fetta del suo cinema più legata alla caratterizzazione del cinema per generi, tendenzialmente demistificati, e in questo ambito i casi più estremi sono il film gangster in Why don’t you play in hell? e il thriller di sopravvivenza dalle tinte videoludiche Tag (2015), ma ci pare ingiusto dimenticare il J-horror di Exte (2007), il musical in Tokyo Tribe (2014) e il melodramma natalizio à la Frank Capra nel demenziale e dolcissimo kaiju-movie Love & Peace (2015). Insomma, si tratta di un regista estremo, anarchico, liberissimo, spesso manierista, ma interessantissimo come evoluzione, a volte ultra-pop e a volte completamente fuori dagli schemi, dell’etica e dell’estetica del cinema della Nuberu Bagu, dai personaggi à la Seijun Suzuki ai ritmi folli di Shuji Terayama, dalle riflessioni politiche e metafilmiche di Nagisa Oshima alle convulsioni porno-teologiche di Koji Wakamatsu. Nonostante tutti i possibili riferimenti più approfonditi che si possono fare all’interno dell’idea del cinema di Sono, tuttavia, rimane una la principale caratteristica costante nella sua filmografia: la ‘grandeur’ del senso all’interno dell’intreccio, gremito di sorprese e colpi di scena tematici e narrativi, in costanti crescendo in cui spesso il delirio è destinato a lasciar spazio a una vena emotiva e mélo che lentamente diventa principale caratteristica del DNA delle sue opere. Insomma, i giochi moderni e postmoderni di Sono, per quanto complessi e diversificati, spesso trovano il loro senso e la loro coerenza nella ri-scoperta della disperazione e di tutto ciò che rende il regista importante e attuale tutt’ora, ovvero, parafrasando le sue parole, la sua ricerca di un ruolo nel cinema giapponese come suo “Anti-Cristo” da opporre a Ozu.
Tokyo Vampire Hotel prima di essere un film di due ore e mezza è una serie TV di Amazon Prime da 10 puntate di durata variabile (dalla mezz’ora ai 50 minuti abbondanti), che è stata rimontata in una durata più breve apposta per uscite cine-festivaliere, più o meno come era successo per The Virgin Psychics nel 2015. I tagli, sfortunatamente, rendono questa visione abbastanza incompleta, al limite dell’invalutabile, il che ci porta a un giudizio anonimo costituito dal semaforo rosso-verde che cerchiamo il più spesso di evitare per non rischiare il nonsenso. Perché verde vuol dire successo e rosso vuol dire disastro, e la versione cinematografica di Tokyo Vampire Hotel, sospeso in una fase mediana a causa di un montaggio frettoloso che non dà abbastanza spazio al tipo di percorso caratteriale sbarellato ma coeso che caratterizza il cinema di Sono, è perfettamente a metà tra questi due valori: è un successo perché riesce a riempirsi di una carica espressiva notevole, con riferimenti cinematografici e idee originali esilaranti e disturbanti in continuo contrasto, ed è un disastro perché gira attorno a se stesso con isteria, senza mai davvero comunicare l’emotività melodrammatica che dovrebbe far parte del suo DNA. Con un montaggio sonoro roboante che esaspera l’utilizzo della musica classica, in particolare la corale di Bach che faceva da tema portante in Solaris (1972) di Tarkovskij, ancora più che nelle sue opere precedenti (la ripetizione ossessiva ma sempre intensissima del Bolero di Ravel e dal secondo movimento della settima sinfonia di Beethoven in Love Exposure è a livelli di intensità lontani e quasi irraggiungibili), Tokyo Vampire Hotel è un drammone horror ultra-pop che alterna un’angoscia caotica con colori a pastello in pieno stile Dario Argento, in particolare ricordando il satanismo eccessivo di Suspiria invece che i corridoi barocchi di Greenaway come in Antiporno, a un senso dell’umorismo che basa tutta la sua forza su un surrealismo vampiresco da cartone animato nipponico. Forse non è un caso se il titolo ricorda il nome della band emo-pop più rappresentativa per le ragazzine che leggevano Kerrang! a inizio anni 2010, e forse non è un caso se l’ambientazione è spostata al 2021 con un piglio fantascientifico delirante che si contrappone insistentemente (e umoristicamente) al sottofondo gotico/apocalittico che si rifà a Ed Wood e soprattutto a Roger Corman o al J-horror infernale di Nobuo Nakagawa. Se c’è una cosa che Sion Sono capisce del cinema, è che non si può sempre rifilare allo spettatore le stesse cose, anche all’interno dello stesso film, e in ciò Tokyo Vampire Hotel è irresistibile e imprevedibile quasi quanto Tag: dopo un primo atto fatto di inseguimenti isterici e prologhi desaturati, il film si sposta verso una linearità parziale colmo di testosterone e feticismo cruento e autolesionista, ma non senza momenti drammatici, tra intense canzoni romantiche in rumeno e momenti carnali che ricordano Tsukamoto ma con un piglio caricaturale ed estremizzato che diventa parziale parodia delle tendenze del cinema giapponese odierno, che in genere non fa altro che trasmutare l’intenso dolore psicologico dell’identità nipponica in sudaticce orge di sangue. In Tokyo Vampire Hotel, senza un’idea coerente di ritmo e con rocambolesca imprecisione nel succedersi degli eventi, succede tutto ciò, con una storia che sprigiona in maniera convulsa le ossessioni dei giapponesi nei confronti delle favole d’orrore dei vampiri europei, già onnipresenti nel campo dell’animazione, e in egual quantità l’autoreferenzialità svergognata di Sono, che si nota in particolare in una melodrammatica (e magnifica) sequenza di bacio con testa mozzata verso il finale che è montata con la stessa idea su cui si fonda l’apice “soap” di Why don’t you play in hell?.
La ricerca della libertà sembra essere destinata al giogo della banalità, mentre il sangue che sgorga trova a suo modo la propria giustificazione in un exploit psico-sessuale che sembra voler creare un’osmosi tra l’allegoria delle mestruazioni di Tag e il più banale e popolare discorso sulla crescita sentimentale della saga di Twilight. C’è, insomma, sempre di più un senso di assenza di confronto e di coerenza, come se si entrasse nel sogno morboso (e puramente postmoderno) di un cantastorie ubriaco, saggio e geniale ma ormai tristemente quasi anziano, lontano dall’immaturità punk del passato. Con certe vette innegabili di grande fascino poetico e visuale, Tokyo Vampire Hotel sembra essere un’apologia della disperazione e dell’eccesso, un’avventura (destinata a finire male) sullo sconforto di possedere un corpo nell’epoca del digitale, un attacco epilettico in un genere abituato a una relativa calma, ma rimane la sensazione di un qualcosa di girato con il pilota automatico, godibile ma senza particolari guizzi, e forse senza reale ispirazione. Caricandosi di misantropia a vuoto nei folli titoli di coda, il film finisce per lasciare in una sensazione plateale di vuoto che certo è imparagonabile a quello che Sion Sono di solito per noi può rappresentare: uno che trova la poesia nella catastrofe e la catastrofe nella poesia, un pittore che imbratta di sangue vestiti e pareti per circoscrivere il proprio divertimento e il proprio sconforto in un ideale talebano che si confà tanto al cinema quanto alla Storia del suo paese, alle tradizioni del periodo Edo come al più recente disastro di Fukushima i cui fantasmi ancora riecheggiano di tanto in tanto. Poco importa se il vampiro Yamada sembra una versione con gli occhi a mandorla del nostro Ghali o se la sempre brava Megumi Kagurazaka è poco credibile come Elizabeth Bathory, e poco importa se il cast è prevalentemente femminile non soltanto per evidenziale la crisi dei rapporti sessuali come in Tag ma anche e soprattutto come sfoggio di corpi sensuali in un sistema che dà poco respiro a immagini pure e non contaminate dall’opprimente cultura lisergica del mondo esterno. Perché, piaccia o meno, Tokyo Vampire Hotel rappresenta un passo che per Sion Sono ormai ci pare d’obbligo: l’opera banale che tende al sublime. E ci prova, disperatamente, e a tratti ci riesce, in particolare nell’evoluzione del personaggio di K e in un momento in cui lo Scarface di De Palma è citato in maniera talmente diretta ed esplicita da rasentare il clamore. Però, come è giusto ricordare anche in questa clausola finale, è difficile parlarne per quanto riguarda la versione che abbiamo visto in apertura di quest’edizione del TFF, e sicuramente sarebbe più completa, ampia e probabilmente interessante la visione della serie come totale, anche perché potrebbe innescare un ragionamento pure su cosa può essere ora come ora la serialità in Giappone e come può essere trattata da un autore eccentrico come Sono. Però, a parte il fatto che la versione seriale potrebbe benissimo anche risultare una prolissa perdita di tempo, anche se considerassimo la versione lungometraggio che abbiamo visto una specie di ‘teaser’, ci può essere difficile davvero desiderare la visione della serie. Però, sia chiaro anche questo, è impossibile smettere di volere bene a Sion Sono, smettere di attendere nuovi progetti, di trovare la meraviglia anche nel più insignificante dei dettagli, di ricordarsi della grandezza che il suo cinema può sprigionare. Ma non c’è più la gestione del tempo filmico di una volta, e a un certo punto, al di là del gioco/divertissement ipercinefilo postmoderno che cita Il bacio della pantera insieme a Shining, Kill Bill insieme a Salon Kitty, Velluto Blu insieme ad Antichrist, rimangono solo le chiacchiere.
Nicola Settis