10 Maggio 2018 -

VIAGGIO A TOKYO (1953)
di Yasujirō Ozu

La prima immagine che si compone nella grana in bianco e nero è il porto di Onomichi, piccolo e ancora “antico” borgo vicino a Nagasaki, con la tradizionalissima statua che lo sormonta a ricordare il Giappone che fu, e poi ci sono i bambini in cammino da soli verso la scuola, primo obbligato allontanamento dai genitori e dal nucleo familiare. Quasi all’improvviso, metafora dell’avanzare della modernità che squarcia il paesaggio a velocità folle, ecco il treno, elemento tipico di ogni film di Yasujirō Ozu, che corre sui binari fumante e borioso verso la sua destinazione. Forse è quello stesso treno sul quale stanno per salire Shukichi e Tomi Hirayama, coppia di coniugi ormai vicina alla settantina, per andare a trovare i figli nella lontana Tokyo, la grande città ormai caotica, frenetica, industrializzata con le sue ciminiere, con i suoi pali della luce e con il suo centro fatto di palazzi moderni nati dove un tempo sorgevano le tradizionali case indipendenti, basse e con le porte scorrevoli di carta di riso. A Yasujirō Ozu basta una manciata di inquadrature per introdurre i temi portanti di Tokyo Monogatari, letteralmente “Racconto/Storia di Tokyo” ma da subito tradotto in Italia con l’ancor più poetico Viaggio a Tokyo, suo capolavoro più conclamato e titolo fra i più imprescindibili della storia del cinema, tornato in uno sfavillante restauro fra i Classics del 71mo Festival di Cannes. È la contemporaneità del Giappone del 1953 quella in cui, quasi in punta di piedi, Ozu mette in scena con eleganza e rigore straordinari la più intima e poetica fra le cronache familiari, dolce e straziante nella sua quotidianità di sorrisi e delusioni mentre i figli recidono definitivamente il cordone ombelicale che li lega(va) ai genitori, riflessiva e profonda nella sua lettura sociale di un Paese radicalmente cambiato e che non sarà mai più quello di prima. È un Giappone al suo principale punto di svolta storico e culturale, quello dei primi anni Cinquanta, è un Giappone sospeso fra antico e moderno, fra oriente e occidente, fra il kimono e il telefono, nel quale lo scarto generazionale si pone(va) come una sorta di incompatibilità fra genitori e figli, come una differenza ormai troppo profonda e radicata, come un punto di non ritorno sul quale Ozu si interroga apertamente, senza volontà di giudicare ma con la necessità di provare a capire le ragioni e le mentalità degli uni e degli altri.

Erano passati otto anni dalla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale e dagli olocausti nucleari di Hiroshima e Nagasaki, ma anche e soprattutto erano passati otto anni dalla definitiva rottura dei raggi del Sol Levante, con la caduta dell’Imperatore fino a quel momento divinità terrena e ora, all’improvviso, semplice ricordo di una tradizione samurai che si andava sfaldando nell’istituzione della Repubblica e nell’avanzare rapido e inesorabile dell’occidentalizzazione. Viaggio a Tokyo, perfetto melodramma di legami e dinamiche familiari ammantato di una tenerezza e di uno strazio irresistibili, si snoda con sempre sorprendenti naturalezza, umanesimo e minimalismo in questo ben preciso periodo di culture meticciate e contrastanti, dove la modernità si fa strada nella tradizione, dove le scarpe si lasciano ancora all’ingresso ma l’atrio di casa è la bottega di una parrucchiera, dove ancora ci si siede quieti sul tatami agitando sudati i più classici ventagli ma subito fuori, nel caldo asfissiante, impazza la frenesia dei clacson. Da una parte c’è la vecchia generazione, ancora squisitamente gentile e cerimoniosa nei suoi ringraziamenti, nelle sue premure, nelle sue scuse e nei suoi inchini, ma al contempo malinconica, incapace di capire la direzione che il Giappone sta prendendo e non certo senza peccati nel passato(/presente) da alcolista di Shukichi, dall’altra ci sono i suoi figli e nipoti giapponesi del presente e del futuro, ai quali per realizzarsi non serve più eccellere perché sono cambiate le prospettive sociali e la realizzazione sta nella normalità, e per i quali, pur nell’abbassamento delle ambizioni di fronte alla troppa competitività di una società ormai nuova e diversa, gli anziani genitori in visita sono quasi un fastidio, una perdita di tempo, un intralcio alla propria routine e al proprio lavoro. Tanto da lamentarsi quando verrà offerto loro cibo troppo buono e costoso perché «Per loro le gallette di riso sono più che sufficienti», tanto da spedirli alle terme pur di non doverli ospitare nelle rispettive case, tanto da, dopo il ritorno di Shuchiki e Tomi a Onomichi e il seguente telegramma che avvisa i figli della madre in fin di vita, spartirsi l’eredità e ripartire per Tokyo subito dopo il funerale, lasciando senza alcuna remora il padre vedovo e per sempre solo.

Ispirato alla trama di Cupo tramonto (1937) di Leo McCarey e scritto da Ozu insieme al fedele sodale Kōgo Noda, Tokyo Monogatari è uno squarcio al contempo commovente e dilaniante nella (personale) epopea della vita, nel quale la trama è pura quotidianità e gli eventi più importanti – dai viaggi in treno all’ammalarsi di Tomi – rimangono fuori campo, riportati solo dai dialoghi o ancora più spesso fatti intuire solo dalle reazioni di chi ascolta la notizia al telefono. Sono i dettagli apparentemente più insignificanti a delineare il prezioso campionario umano messo in scena, a regalare spessore psicologico ed emotivo a ogni membro della famiglia Hirayama, a permettere a Ozu di scavare in profondità nelle coscienze e nell’intimità dei suoi protagonisti con la sua straordinaria asciuttezza registica, nella quale la macchina da presa, quasi rigorosamente fissa e molto spesso ad altezza tatami, compone l’immagine di una spazialità che si estende su più livelli, profonda nel campo e incorniciata dalle ombre e dagli stipiti delle porte, con le figure umane che, come nello scontro fra passato e futuro, quasi emergono dai contrasti di luce e di forma, dai punti di fuga e dalle linee. Fra frontalità e simmetria, simbologie e tradizioni, dialoghi fra chi guarda nella stessa direzione e un’attenzione maniacale al montaggio e ai suoi raccordi (se un personaggio esce di campo a sinistra, nella sequenza successiva rientrerà sempre da sinistra), in Viaggio a Tokyo c’è un solo movimento di macchina, situato grossomodo, e non certo a caso, a metà film. È una panoramica che parte dal centro del parco Ueno per poi spostarsi verso destra fino a trovare gli anziani coniugi seduti su una panchina, intenti a guardare Tokyo dall’alto rendendosi conto di quanto sia grande e di come sarebbe difficile ritrovarsi se ci si perdesse in città. Il lento spostarsi e costante ricomporsi dell’inquadratura è quella stessa transizione che il Giappone sta(va) affrontando dalla tranquillità alla caoticità della grande città occidentalizzata, ma anche dalla nostalgia e dai rimpianti di chi non riconosce più i propri figli e ha perso ogni tipo di certezza politica, sociale e affettiva agli effettivi vantaggi ai quali la modernizzazione porta, da un’istruzione molto più accessibile alla consequenziale crescita culturale ed economica, dalla telefonia che collega ogni voce e ogni luogo all’erosione delle distanze per le quali Tokyo ormai, con il treno che sfreccia, rimane una meta lontana ma non più irraggiungibile.

Il viaggio di Shukichi e Tomi dalla serenità di Onomichi alla cagnara di una Tokyo sovrappopolata e in rinnovamento trova la propria via narrativa e concettuale nel loro rapporto con i figli, le nuore e i nipoti, e finirà inevitabilmente nel loro rendersi conto che, fra i parenti più stretti, l’unica persona realmente gentile, affezionata e generosa è Noriko, la vedova del secondogenito caduto in guerra. È l’unica priva di legami di sangue, eppure è l’unica che dimostrerà vero e proprio amore nei confronti della coppia offrendo loro, totalmente disinteressata, tempo, ospitalità e denaro mentre Koichi e Shige, i figli, non hanno tempo – né particolare smania – di occuparsi di loro. I coniugi Hirayama inviteranno più volte la nuora a rifarsi una vita, a risposarsi, a smettere di sentirsi in obbligo nei loro confronti, ma lei, altruista e rispettosa, tenera e servizievole, continuerà ad agitare il ventaglio per donare loro un minimo di refrigerio e li coccolerà con cibo e sakè, arrivando a quella partecipazione a cui non arrivano i non troppo sensibili figli e portando avanti quell’affetto sincero e totale che sembra mancare nelle nuove generazioni. Quello stesso affetto della nonna che gioca con il nipote più piccolo mentre il nonno li osserva altrettanto amorevole dalla finestra. Il bambino veste in bianco, la nonna in nero, lui vive la sua infanzia, lei pensa già a una morte che sente ormai vicina, lui sorride e lei si commuove, fra gioia e malinconia, fra futuro e passato, fra i panni stesi e il tetto spiovente che, quasi come una macchia nera, incornicia il prato assolato. Shukichi e Tomi sognavano probabilmente un futuro diverso per la loro progenie. Sognavano il loro successo nella mentalità nipponica più tradizionale, sognavano che il figlio medico diventasse un luminare e non un «dottorino di quartiere», sognavano che il loro secondogenito tornasse dalla guerra nella quale oltre a un figlio hanno perso anche la patria, sognavano di ricevere indietro maggiore amore da coloro ai quali ne hanno elargito senza alcun freno. Non è stato così, e del resto «i figli tradiscono sempre le aspettative», ma pur nella loro amarezza generazionale anche profonda Shukichi e Tomi sono consapevoli di essere stati fortunati nell’avere una famiglia così numerosa e variegata, magari un po’ egoista, magari un po’ contraddittoria e sperduta nel cambio repentino e radicale della società, ma in fondo onesta, lavoratrice, piena di senso del dovere e profondamente umana, nonostante tutto.

Ci sono i vecchi amici compagni di bevute (e geishe) di Shukichi, ormai anziani quanto lui e pieni di ben peggiori rimorsi per la troppa indulgenza con la quale hanno cresciuto figli «falliti e senza nerbo», c’è la progressiva insofferenza della parrucchiera Shige di fronte alla presenza dei genitori e all’insana passione per il sakè del padre, c’è la quotidianità di visite a domicilio e di figli (e genitori) trascurati da parte del dottor Koichi, e c’è la consapevolezza di Keizo, il figlio più giovane che vive a Osaka e sarà l’unico che non farà in tempo a vedere la madre ancora viva, che «non si possono più servire i genitori quando sono nella tomba». Shukichi e Tomi passano dalla casa/studio medico di Koichi alla casa/bottega di Shige, trovando però davvero “casa” solo nel minuscolo appartamento di Noriko, focolare domestico di pochi metri quadri ma di infinito cuore. In Tokyo vedono il moderno che avanza, i primi sprazzi di occidente ben al di là della cravatta a sostituire il kimono, una nuova mentalità e una nuova gioventù, così diversa da quelli che sono e da quelli che erano. Yasujirō Ozu, “l’autore più giapponese di tutti”, mette in scena con profondità, umanità e poetica ineguagliabili l’incontro/scontro fra passato e futuro e l’inevitabile distacco dei figli dai genitori innestandoli in un viaggio, in una famiglia, in tre generazioni, in dialoghi fatti di tanta cerimoniosa formalità “antica” quanto di “moderna” schiettezza, e soprattutto di malinconici silenzi che invece sono senza tempo. Viaggio a Tokyo è gioia e amarezza, è aspettativa e delusione, è tenerezza e rimpianto, è un sorriso, è un brivido, è una lacrima. È vita, è morte, è solitudine, ma soprattutto è poesia. È quel piccolo e trascurato capogiro di Tomi, e poi è il suo malore – rigorosamente fuori campo – sul treno che la sta riportando a casa. È il telegramma che giunge a Koichi e Shige, sono gli occhi lucidi di Noriko quando le verrà detto per telefono che la suocera sta molto male, è il viaggio a Onomichi per accorrere al suo capezzale, dove Shukichi accudisce e rincuora fino all’ultimo la moglie moribonda. Ozu non mostra la sua morte, ma torna al molo dell’incipit con la sua statua che campeggia, torna alle barche, torna alle vie della piccola cittadina che ora sono deserte, senza bambini, vuote come i binari sui quali non sta passando alcun treno. Come se, di fronte all’agonia, al dolore, alla morte, il mondo si fosse fermato. Quando la macchina da presa torna a casa Hirayama c’è già un lenzuolo a coprire il volto di Tomi, e rimane solo il tempo per il funerale, per l’ultimo saluto, per la “fuga” dei figli mentre sarà ancora Noriko a restare almeno qualche giorno con Shuchiki. Seduto sul tatami, scalzo, vecchio, per sempre solo. Conscio che da questo momento per lui i giorni saranno sempre più lunghi. E ancora più insensati.

Marco Romagna

“Tokyo Story” (1953)
136 min | Drama | Japan
Regista Yasujirô Ozu
Sceneggiatori Kôgo Noda (scenario), Yasujirô Ozu (scenario)
Attori principali Chishû Ryû, Chieko Higashiyama, Setsuko Hara, Haruko Sugimura
IMDb Rating 8.2

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