TUTTI LO SANNO (2018), di Asghar Farhadi
Primo dato. Uno dei tratti distintivi del cinema di Asghar Farhadi è il meccanismo a orologeria delle sue sceneggiature. Alla norma, tratteggiata con sguardo cauto e pedinante nell’avvio dei suoi racconti, subentra sempre una crepa, l’irruzione dell’irrazionale che innanzitutto rompe il rapporto fiduciario sul quale si fondano le relazioni umane narrate. Se nei suoi film precedenti e maggiormente acclamati l’acume narrativo risiedeva nell’identificare la crepa in piccoli eventi sfuggiti al controllo dei personaggi (la trascuratezza verso una sconosciuta, About Elly, 2009; una spinta durante una lite, Una separazione, 2011; una porta lasciata aperta distrattamente, Il cliente, 2016), nel nuovo film Todos lo saben si rileva innanzitutto un enorme cambio di passo. Stavolta a rompere il fluire della realtà interviene un evento fortemente drammatico, intensamente connotato anche in senso cinematografico; un sequestro di persona, che scuote con la violenza di un black-out la serenità di una festa di matrimonio in famiglia. E qui purtroppo sorgono anche i primi problemi: perché la scelta di questa irruzione appare proprio infelice, e spezza l’interesse per il film praticamente a mezz’ora dall’inizio, che si era pure ben avviato con un consueto, intrigante puzzle di personaggi. Nell’incipit il talento di Farhadi per la messinscena è comunque totalmente confermato, tale è la sua disinvoltura nello spaziare in mezzo a figure che si moltiplicano, definendo brevemente relazioni e rapporti di forza. Stavolta però i dubbi, e incredibilmente vista la scaltrezza di scrittura di Farhadi, vengono proprio da soggetto e sceneggiatura. Presentato in concorso come apertura di Cannes71, Todos lo saben inanellerà infatti una serie di verità “telefonate”, di conclusioni prevedibili, di tematiche che si rincorrono senza in realtà arrivare da nessuna parte, rimanendo intrappolato proprio in quella che avrebbe dovuto essere la sua forza.
Dopo aver confrontato culture lontane nel “francese” Il passato (2013), stavolta Farhadi si concede una trasferta ispanica che non sembra però molto nelle sue corde: o meglio, che forse paradossalmente mette in luce la maniera di un solido impianto espressivo una volta entrato in contatto con una sfera culturale “altra”. Come si conviene in un’opera di Farhadi, una volta innescato il meccanismo del dubbio si apre un’ampia pagina di diffidenze incrociate tra i vari componenti della famiglia. Si riaprono antiche ferite, vecchie ruggini ritornano a galla, il pericolo mostra l’egoismo di molti, e quando si sfiorano argomenti di terra, proprietà e vendette sembra per un attimo che l’autore voglia infilare la strada della grande saga. Il problema invece sta proprio qui, ossia nel continuo cambiar discorso che non dà luogo a un’opera spiazzante e interrogativa, bensì a un guazzabuglio in cui più volte sembra che a Farhadi sfugga la storia di mano, all’affannosa ricerca delle chiavi narrative più diverse in una preoccupante scarsità di ispirazione. Rivendicazioni, recriminazioni, passati che riemergono, classi sociali, lavori persi in Argentina, madri che salgono ridicolmente le scale chiamando una figlia che sanno non esserci, ex-detective ai limiti dell’insopportabile alternati alle infinite discussioni sul chiamare o meno la polizia, e pure una delle agnizioni più classiche e prevedibili, che per un momento potrebbe tradursi in paradosso pirandelliano. Ma di nuovo Farhadi cerca altre strade, seguendo una linea narrativa zigzagante tanto ipertrofica quanto in sostanza inerte. Si rimane con la sensazione che Todos lo saben contenga troppo di tutto, e al contempo anche troppo poco.
Nel rutilante affastellarsi di chiavi narrative diverse, quando è il turno del melodramma si resta di stucco nel ritrovare Farhadi puro e semplice rilettore di un convenzionale tòpos narrativo, mentre l’indagine cerca forzatamente di ingarbugliarsi tirandola in lungo per un’esorbitante durata complessiva di 132 minuti. Grande costruttore di trame e relazioni tra i personaggi, fine cesellatore di dialoghi (sia pure sempre un po’ compiaciuti), stavolta Asghar Farhadi – e ce ne dispiace davvero – si concede un’uscita a vuoto segnata dalla maniera e dalla stanchezza. Cerca simbologie che restano lettera morta (in apertura, gli ingranaggi della torre campanaria, la colomba prigioniera…), e mette in piedi un thriller per il quale si perde interesse in tempi davvero rapidi. Viene anche da pensare che il contesto di coproduzione non sia il più adatto, almeno per il momento, alla creatività di Farhadi. Se Il passato (2013), che già era coproduzione europea, si presentava comunque ben più radicato in specifiche motivazioni autoriali, questo Todos lo saben presenta invece molto più intensamente i tratti dell’operazione produttiva fuori dalle corde intime di un autore. Il cartellone che mostrava la coppia glamour, nella vita e sullo schermo, formata da Penélope Cruz e Javier Bardem, poteva suggerire già strane direzioni nel percorso di Farhadi. Pur concedendo all’autore la capacità di guardare con distacco analitico al colore locale ispanico della prima mezz’ora, Todos lo saben sembra anche un’occasione offerta a due star per scatenarsi nell’overacting. O meglio, la Cruz nell’overacting (pur avendone tutte le ragioni del mondo, il suo personaggio piange per due ore piene), e Bardem nell’inconsistenza alla quale sembra concedersi frequentemente nelle sue ultime prove da protagonista. Restano certo alcuni tratti inconfondibili della marca farhadiana, a cominciare dalla tipica struttura di detection che più s’ingegna a sbrogliare la verità, e più la imbroglia. Basti pensare a quel drone che effettua riprese durante la festa di matrimonio, e al video che si ripropone come oggetto di infinita, inesauribile rilettura di realtà per cercare tracce di un inspiegabile mistero. Ma il mistero di Farhadi stavolta si svela in un attimo, cerca vie facili, si perde in una confusa riflessione, dove per il buon peso trova posto anche qualche stonata apertura verso l’interrogazione della Fede (vedi il personaggio di Ricardo Darìn, il più sacrificato tra i protagonisti), o una moglie di Bardem tratteggiata come perfida e insensibile senza alcun tipo di approfondimento al di là della sua passione per il denaro. Di tutto un po’, senza grossa coesione né ispirazione. Dispiace, e molto. Ma si tratta sicuramente di una battuta a vuoto. Succede. Per cui aspettiamo sempre fiduciosi le opere future di uno dei più importanti autori del cinema contemporaneo.
Massimiliano Schiavoni