THUNDER FROM THE SEA (2018), di Yotam Ben-David
C’è il bagliore degli schermi dei cellulari a illuminare i visi al tramonto e c’è il rosso urticante della carbonella che lentamente brucia il tabacco nel narghilè, ci sono sullo sfondo i led colorati di un’insegna poggiata a terra e ci sono al centro dell’azione quelli innestati nelle suole di vistose scarpe da ginnastica. E poi ci sono le silhouette incorniciate dal fumo nei colori cangianti, ci sono i lampeggianti blu delle auto della polizia di frontiera, ci sono le torce che illuminano il prato e c’è al centro il fuoco del falò, prima acceso e infine spento sotto un cielo mai del tutto notturno. Non per nulla, stando alle motivazioni con cui la Giuria presieduta da João Botelho ha entusiasticamente assegnato il premio principale, è l’assoluta originalità nell’utilizzo “luce diegetica” l’aspetto registico di Thunder from the sea che, più di tutti, ha condotto Yotam Ben-David alla vittoria nel concorso lungometraggi del Laceno d’Oro 2019. Un utilizzo della luce al contempo narrativo, simbolico ed evocativo, ben più intelligente e stratificato delle singole, e già di per sé brillanti, intuizioni fotografiche che proprio nella povertà di mezzi trovano la chiave di uno straordinario fascino cinematografico a bassissimo costo. Il giovane cineasta israeliano, con le sue consapevoli impostazioni di messa in scena, si spinge ben oltre, lavorando sul concetto stesso di illuminazione intradiegetica fino a elevare la luce a vera e propria co-protagonista in cui si cela tutto il senso del film, in cui prende corpo la metafora che astrae e universalizza il personale, il cortile di casa, il fratello del regista, gli amici, Israele, le età di passaggio, e un film nato piccolo piccolo, quasi per gioco, si scopre invece grande. Capace in una manciata di minuti, poco più di tre quarti d’ora, di fotografare da una parte un Paese in espansione insieme al paesino che muore nella sua arretratezza, e dall’altra tutte le contraddizioni e i dubbi dei vent’anni che diventano trenta.
È una luce sospesa e crepuscolare, quella creata da Ben-David, in cui non è più giorno ma non è ancora notte, in cui il cielo non è mai realmente luminoso e non è mai realmente nero, proprio come i protagonisti riuniti intorno al fuoco si ritrovano sospesi fra l’adolescenza e l’età adulta, fra la memoria e la (mancanza di) fiducia, fra l’eroismo e la paura, fra un colore e l’altro della sequenza casuale dei led. Una sera come tante, qualche amico, un prato, un narghilè, i discorsi più e meno profondi: Dekel, Doron, Udi e Ron, ognuno con il suo vero nome, ognuno con la sua vera personalità, ognuno con la sua etnia, ognuno con la sua identità sessuale, chiamati a finzionalizzare l’instabile quotidiano del paesino di frontiera, a renderlo narrazione e riflessione, antropologia, autoanalisi, politica, tempo, debolezze, umanità. Guardando dall’interno alla società e alle incertezze, alle emozioni e alla violenza, alle speranze frustrate e all’inadeguatezza individuale mentre il mondo procede minaccioso e inarrestabile. Sono reali amici di una vita, realmente omosessuali e realmente eterosessuali, realmente fidanzati e realmente lasciati, realmente soldati e realmente poliziotti. Realmente giovani-non-più-giovani, già adulti eppure ancora impegnati a crescere fra ricordi ed errori, giorno dopo giorno, trauma dopo trauma, serata dopo serata, discorso dopo discorso, incomprensione dopo incomprensione, pace dopo pace. Immersi nelle immagini bloccate sul confine fra il buio e la luce, e quindi fra il passato e il futuro, di un tramonto che non si sa decidere fra il giorno e la notte. Un cielo cangiante eppure immobile, tangibile eppure astratto, proprio come quelle case in eterna costruzione sullo sfondo, iniziate e mai finite, a metà strada fra il futuro e l’abbandono, fra il sogno e il fallimento, sui sentieri di quell’incubo che sa essere la realtà.
Girato da Yotam Ben-David sui prati nel retro della casa dei genitori in appena due (non) notti, una di dialoghi improvvisati e una “scritta” sulla scia delle prime riprese per elaborare un discorso coerente che sapesse affrontare tutti gli aspetti sociopolitici toccati dal sorprendentemente lucido discorrere degli amici, Thunder from the sea evoca sin dal titolo i tuoni dal mare di una tempesta (emotiva, politica, interiore, interpersonale e subito fuori dal campo anche bellica) che forse non arriverà mai, ma che pare sempre sul punto di esplodere, come un vulcano, come una pentola a pressione costantemente sollecitata e mai lasciata sfogare. In un Paese di divisioni etniche o per lo meno sessuali in cui volenti o nolenti non si può fare a meno di identificarsi, di omosessualità ancora accettate a fatica e di telefonate di gelosia (non) repressa, di aschenaziti guardati con sospetto per la sola loro origine occidentale e di intere famiglie donate all’esercito o alla polizia di frontiera, solo durante i titoli di coda e solo in audio potrà finalmente liberarsi quella pioggia che poi forse nient’altro è che una lacrima troppo a lungo trattenuta, una storia d’amore finita violentemente e che solo per intervento degli amici (per ora) non prosegue peggio, oppure quell’immagine impossibile da cancellare di un bambino che ti sta lanciando addosso una molotov mentre tenti di fermarlo sparando in un muro, conscio che dalle tue scelte dipendono la tua vita, la sua vita e quelle dei tuoi commilitoni, ma anche e soprattutto la tua umanità, la tua etica, la tua più intima coscienza. Quella che, se vuoi continuare a sentirti fra gli unici ancora vivi in un paesino/Paese inguaribilmente violento e ormai morto, devi tenerti stretta come il bene più prezioso. Insieme agli amici, quelli di sempre, quelli con cui sei cresciuto, quelli a cui sarai per sempre legato. Quelli con cui ritrovarsi intorno al fuoco, a fumare il narghilè e chiacchierare. Quelli che in una serata di depressione e dolore sanno, a costo di mostrarti le manette, evitarti di fare qualche cazzata.
Marco Romagna