2 Maggio 2019 -

THREE HUSBANDS (2018)
di Fruit Chan

«Non possiamo permetterci una casa ma possiamo permetterci le tette»
Un cliente in attesa di Mui al marito Four-Eyes

Ci sono voluti più di quindici anni perché Fruit Chan chiudesse con Three husbands la sua “trilogia della prostituzione”. Più di quindici anni di un obbligato cammino politico, economico e sociale a senso unico, simbolicamente percorso sui cinquantacinque chilometri di quel ponte Hong Kong/Zhuhai/Macao, sospeso fra il libero mercato e Pechino, che gradualmente si fa sempre più angusto e soffocante fra le continue visite della polizia e il progressivo avanzare del degrado e dello squallore urbano fra le vie e i sobborghi dell’ex colonia britannica. Più di quindici anni di transizioni, di sempre maggiori imposizioni, di più e meno dolorosi cambiamenti mentre calano a braccetto l’autonomia e l’economia, nei quali il Paese d’adozione del regista, nato in Cina ma ripiegato a Hong Kong con la famiglia quando era solo un bambino, è andato avanti sul sentiero di quel processo cinquantennale “per favorire l’integrazione” che poco prima della metà di questo secolo lo annetterà definitivamente alla Repubblica Popolare Cinese senza più alcuno status di amministrazione speciale. Un processo lungo e impopolare durante il quale cambiare progressivamente lingua, mentalità e abitudini morali, iniziato nel 1997 e già nel 2000 per la prima volta metaforizzato da Fruit Chan fra le insaziabili puttane e il raggelante humor nero di Durian Durian, per poi proseguire l’anno successivo con le baraccopoli e il rassegnato opportunismo della seduzione di Hollywood Hong Kong. Sempre dalle parti della Greater Bay Area tra Guangdong, Hong Kong e Macao, sostanziale megalopoli imposta dal 2017 con leggi e infrastrutture da Pechino per “favorire gli scambi” e per stringere a sé (o forse strangolare) le due regioni autonome. Una zona dove la decisione di un’hongkonghese di vendere il proprio corpo (o, detto molto più prosaicamente e con la stessa sfacciataggine delle metafore Fruit Chan, il proprio culo), ricorda di molto le politiche del Paese nell’accettare senza la minima riserva questo abbraccio dalla “matrigna” governata da Xi Jinping. Ed è da qui che la prostituzione, costosa ma accettata a Hong Kong, economica ma illegale nella Cina continentale, diventa la chiave per scandagliare l’oppressione, mentre è ormai diventato il corpo, quel corpo animalesco e sporco di povertà e di desiderio, di sordida ossessione e di malata ingordigia, di commercio e di distruzione, di umori e di incesti, ma in un certo modo anche di liberazione e temporaneo piacere, la metafora perfetta di un Paese forzatamente destinato a mutare identità.
Riparte da questo diciassette anni dopo Three husbands, da ciò che il demenziale o giù di lì Public toilet (2002), per lungo tempo erroneamente considerato terza parte della trilogia e invece progetto differente, minore, di gran lunga meno potente e portante, non era in alcun modo. Riparte dal meretricio e dal suo sfruttamento, riparte dai corpi e dal loro selvaggio accoppiarsi, riparte dalla satira più pungente e dagli sviluppi più amaramente grotteschi, riparte dal linguaggio sboccato e dall’irrefrenabile libidine, e riparte da una vis politica profondamente anticinese, militante, sfacciata ma al contempo pienamente consapevole del suo giocare con l’assurdo. Ma soprattutto Fruit Chan, in totale contrapposizione al mainstream (difficile che il film, anche qualora dovesse trovare una qualche distribuzione, possa sfuggire alla mannaia del divieto ai minori di 18 anni), riparte dalla slabbratura, dal volutamente disturbante, dall’orgogliosamente eretico, innestato in una nudità e in un copioso sesso che sono necessità, fissazione, invasamento, ritualità, mestiere, stanchezza, o forse (unica residua) fonte di guadagno, protettori di una moglie talmente libidinosa che è impossibile, anche in tre mariti, riuscire a soddisfarne le voglie. Una moglie la cui vagina è da tutti definita «un’opera d’arte», come un qualcosa da sognare, desiderare, vedere, sentire, avere, ma anche temere, detestare, soffrire, per sempre costretta a conviverci. Una vagina quasi mitologica, che è al contempo dominio e sottomissione, croce e delizia, piacere e dolore. Un qualcosa che porta soldi e squallore, oppure povertà e inadeguatezza. Un qualcosa con cui sedurre, controllare, volere e non volere, ma anche un qualcosa per la quale costantemente subire, per tutta la vita, fra violenze e perversioni, fra sfruttamenti e illusioni, fra ossessioni e orgasmi, come una dipendenza, come una droga e come la sua astinenza, o forse più semplicemente come un lavoro con il quale mantenere tre mariti pescatori e operai che non riescono più a pescare né a lavorare. Una novella L’Origine del mondo come un qualcosa con cui avvicinare e poi allontanare, come un qualcosa da soddisfare fra mariti, pesci, vibratori, telefoni cellulari e clienti, come un qualcosa che, in fondo, si vorrebbe distruggere, proprio come quella papaja presa e smembrata dalle mani della protagonista: distruggere il proprio sesso per distruggere il suo male, distruggere il proprio sesso per distruggerne la (im)potenza, distruggere il proprio sesso per distruggere l’economia intorno al proprio sesso. O forse per rafforzarla in barba ai cittadini. Proprio come sta facendo Hong Kong, del resto.

Ma andiamo per ordine. Prima di tutto c’è lei, la lussuriosa ninfomane Mui alla quale dà straordinariamente anima e corpo la formosa e glamour Chloe Maayan, impossibile da non notare al Far East Festival di Udine con le sue vertiginose scollature rese di classe dai veli delle maschere veneziane. Una donna probabilmente ritardata o per lo meno chiusa nel suo mutismo e nei suoi gemiti, clinicamente insaziabile negli appetiti sessuali come un bisogno di sesso per non stare male durante i suoi sostanziali calori, e ovviamente pronta a ricominciare a prostituirsi già durante l’allattamento del pargoletto neonato, altrettanto ovviamente da tenersi buono con le cuffie (anche quando passano messaggi suicidi) per non essere disturbati durante i continui e ripetuti amplessi. Donna quando è vestita e animale (di certo un pesce, ma anche una tigre) quando è nuda, forse non parla perché soffre dei traumi passati e incarna quelli futuri, o forse perché più semplicemente parlare non serve, è il corpo che parla da solo, è la carne, è l’appetito, è sbottonarsi la camicetta, è il latte che sprizza dal seno, è l’ennesima scena di sesso con un piede penzoloni a tribordo oppure in acrobazia sottomarina, o ancora su una barca più ricca, a completa disposizione del proprietario. E poi ci sono ovviamente loro, i tre mariti, Three husbands, del titolo, dall’attempato Big Brother che per primo l’ha sfruttata e l’ha venduta – padre sia di Mui sia del suo bambino – al Second Brother che nuovamente la sfrutta e poi ancora una volta la cede, fino a quel Four-Eyes che con la sua ingenuità e con i suoi pesanti occhiali voleva sposarla per salvarla e invece dopo poco si ritroverà a rivenderne il corpo agli amici, come un terzo pappone, di fatto obbligato dalle circostanze, di nuovo sulla barca insieme al ritorno degli altri due mariti. Ma gli affari, con il passare del tempo e con il governo cinese, come da accordi diplomatici, sempre più presente e repressivo, non vanno più come prima, né per il cantiere di operai non più in fila per Mui ma piuttosto pronti alla ormai pari illegalità più economica dei bordelli della Cina continentale, né tanto meno per i protagonisti, costretti a un marinaresco vagare per la baia che la mitologia ha sempre assegnato al mostro Lu Ting nella sempre più vana ricerca di clienti.
Spingendo ora sul pedale di un’agrodolce e orientalissima comicità surreale e ora su quello puramente autoriale dell’amarezza e dello sguardo, l’anarchico Fruit Chan parte dal mare, per poi passare alla terra e infine al nulla, in tre capitoli di illusioni e di disillusioni, di sentimenti che in realtà sono solo desideri e di (non sufficienti) guadagni, di materassi e di malattie, di sogni e di sconfitte. Di coiti sulle barche e nelle case popolari, sui materassini da mare e nei govoni dei camion, in privato e in pubblico, di fronte al neonato e di fronte alla nonna regina dei karaoke, e poi ancora di altri coiti interrotti dalla polizia prima ancora di potersi spogliare, con cauzioni da far pagare agli amici e immotivate gelosie quando una restituzione sarebbe stata probabilmente la salvezza dall'(in)evitabile sfratto. Nei dialoghi e nelle situazioni il regista hongkonghese sfodera un campionario pressoché inesauribile di straordinarie freddure, che va dalla creatività degli insulti con cui i protagonisti continuamente si appellano ai luoghi più improbabili in cui si ritrovano (più o meno costretti) a fare sesso, fino a quello che è probabilmente l’apice comico con gli usi alternativi (già sperimentati, ma questo lo ricordano in pochi, da Valeria Marini nello scult Bambola) delle anguille. Anguille che già furono anche di Shohei Imamura, ed è proprio a lui e a Koji Wakamatsu, più ancora che a Nagisa Oshima, che nella forma, nel linguaggio e nelle simbologie vuole sin troppo evidentemente guardare Fruit Chan. Il che costituisce, paradossalmente, sia uno dei principali pregi linguistici di un film che grazie ai simboli e ai messaggi che evocano riesce a essere perfettamente oliato anche nelle sue slabbrature e deviazioni, sia il primo limite di un lavoro che si rivela a tratti troppo smaccatamente derivativo, quasi fosse una (comunque interessante, ma giocoforza depotenziata rispetto all’originale) variazione sul tema dell’“erotismo politico militante” e delle perversioni portate sullo schermo dai giganti nipponici. Per perdonare i suoi “già visti”, però, basterebbero le due magnifiche sequenze filmate attraverso (e dentro) l’acquario dei pesci rossi, oppure il cielo che scorre sopra l’amplesso semovente, o ancora, e forse ancor di più, la buonissima intuizione cinematografica di progressiva desaturazione delle vite dei protagonisti, che finirà lungo lo scorrere di Three husbands per privarli del denaro, del lavoro, della terraferma, della casa, del resto della famiglia e poi, nel degradarsi costante e quasi impercettibile della terza parte, persino del colore. Fino al ritorno – con un effetto un po’ a metà fra La corazzata Potemkin e Schindler’s list – del (solo) rosso, quel rosso che ha sostituito il tradizionale blu nella bandiera di Hong Kong, quel rosso della bandiera cinese. Il rosso del sangue, il rosso della passione, il rosso della rabbia. Mentre, al di sopra del navigare della piccola imbarcazione, si erge ancora una volta come un mostro ferroso il ponte Hong Kong/Zhuhai/Macao, simbolo degli anni che il Paese sta vivendo. Quel ponte ormai già percorso quasi per metà della sua lunghezza, consapevoli che la parte più dura sarà probabilmente quella che deve ancora venire.

Marco Romagna

“Three Husbands” (2018)
101 min | Drama, Fantasy | Hong Kong
Regista Fruit Chan
Sceneggiatori N/A
Attori principali Meihuizi Zeng, Charm Man Chan
IMDb Rating 6.3

Articoli correlati

LA MIA VITA CON JOHN F. DONOVAN (2018), di Xavier Dolan di Marco Romagna
VOGLIO MANGIARE IL TUO PANCREAS (2018), di Shinichiro Ushijima di Marco Romagna
THE PIONEER (2018), di Umi Ishihara di Marco Romagna
A PORTUGUESA (2018), di Rita Azevedo Gomes di Erik Negro
ORE 15:17 - ATTACCO AL TRENO (2018), di Clint Eastwood di Vincenzo Chieppa
SOFIA (2018), di Meryem Benm'Barek di Marco Romagna