THEY SAY NOTHING STAYS THE SAME (2019), di Joe Odagiri
Nell’alfabeto cinese, uno degli ideogrammi per indicare la tristezza è pressoché identico a quello che indica la volpe. Un animale silenzioso, introverso, solitario nella sua caccia e nei suoi giorni sempre uguali, scanditi solo dalla natura e dai cambi di stagione. Un animale dal forte spirito d’adattamento e dalla leggendaria furbizia, possente e brutale contro le specie più piccole, eppure impotente e vulnerabile negli attacchi che subisce dalle belve troppo grosse, i lupi, i coyote, i grandi felini. Proprio come è debole l’uomo nei confronti dello spietato avanzare del tempo, nella sua memoria e nelle sue amnesie, di fronte ai fantasmi del (proprio) destino e del (proprio) passato. E soprattutto proprio come è debole l’uomo di fronte all’avanzare del Capitale, che spezza ogni possibile sospensione del tempo brandendo la spada (di Damocle) del moderno, certificato di inutilità per chi, magari preso a pietrate dai bambini come a sottolineare una distanza sempre più siderale fra le generazioni, fa parte del vecchio mondo incontaminato e vorrebbe che continuasse esattamente com’è. Toichi, a differenza delle volpi, è da un’intera vita che è sceso dal suo paese natale sulle montagne per diventare stanziale e abitudinario, con i suoi giorni e anni vissuti nel giro di pochi metri, da una sponda all’altra del fiume, continuamente avanti e indietro fra le rive dei due piccoli villaggi in quello stesso scenario nebuloso, affascinante e ipnotico, con la sua minuscola imbarcazione a un solo remo fondamentale servizio per l’intera comunità. Proprio come le volpi, però, la sua è un’esistenza profondamente solitaria e per molti versi triste, sempre in mezzo alla gente ma costantemente chiuso, schivo, taciturno, come una sorta di Caronte per vivi gentile, disponibile e affidabile nel suo lavoro, ma al contempo discreto e ritroso, timido. Quasi imbarazzato nelle sue risposte monocorda alle domande in genere egocentriche e superficiali dei suoi più o meno – spesso meno, ma per lo meno ognuno con la sua ben precisa personalità – educati passeggeri. Un uomo che preferisce ascoltare, osservare, studiare, capire chi gli sta intorno, senza dare né pretendere particolare confidenza, ma solo il reciproco rispetto e il reciproco interesse. Solo con il giovane vicino di casa Genzo intrattiene un rapporto che un po’ di più si avvicina all’amicizia, ma con i clienti, che servono a lui come unica possibile fonte di guadagno di chi non sa fare altro che governare una barca esattamente quanto lui serve a loro come unico modo per giungere sull’altra sponda del fiume, il suo rapporto è quasi esclusivamente professionale, e poi ognuno sulla sua strada fino alla successiva necessità di trasbordare.
È il suo mestiere, quello di barcaiolo, e Toichi lo svolge egregiamente su quello specchio d’acqua che conosce a menadito, tanto che quando sarà necessario portare dall’altra parte un toro che si rifiuta di salire sull’imbarcazione saprà perfettamente indicare il percorso dove il fondale è più basso scortando l’animale e i suoi accompagnatori nel guado a piedi. Trasporta il dottore e i viveri, i gentili e i cafoni, i bagagli e i rari turisti. E vive di riti e di abitudini, ogni mattina a lavare la chiatta, il lungo stecco con cui staccarsi dalle rive appoggiato sempre nello stesso punto, e poi quel remo posteriore centrale come una pinna con cui governare la rudimentale imbarcazione compensando e attraversando instancabile ogni corrente. Mettendoci quello che ci vuole nella traversata, senza la fretta tipica di quelle città che paiono lontane ben oltre l’orizzonte, in un angolo di Giappone e del mondo cristallizzato in un tempo indefinibile e che sembra immune al divenire. Ma, sin dal titolo del sorprendente e magnetico secondo lungometraggio come regista di Joe Odagiri, già attore per Kiyoshi Kurosawa, Sion Sono, Kim Ki-duk, Seijun Suzuki e Hirokazu Kore-eda (più, anche se non lo ha mai diretto, Takeshi Kitano con cui Odagiri ha collaborato come co-interprete) in qualche modo tutti citati, omaggiati o per lo meno introiettati e dolcemente ripercorsi nel suo approccio al cinema, They say nothing stays the same, “Dicono che nulla resterà com’è”. Perché nell’apparente immutabilità dei tempi e delle giornate qualcosa sta rapidamente, radicalmente e per lo meno per Toichi drammaticamente cambiando. Prima è l’acqua non più pulita e cristallina come un tempo, poi sono le lucciole che diminuiscono di numero fino a quasi sparire, e poi soprattutto sono quei rumori sinistri e ferrosi che iniziano a riecheggiare per la valle, quelli dei lavori per la costruzione del ponte che unirà le due rive, relegando inevitabilmente Toichi e il suo lavoro a ricordi del tempo che fu. Passando, magari, per il ritrovamento notturno nelle acque del fiume di una ragazza che credeva morta e che invece ancora respirava, salvata dal barcaiolo e portata nella sua catapecchia. Una ragazza rimasta senza memoria, e quindi in un certo modo senza passato, dopo il trauma cranico che l’ha fatta scivolare nel fiume, forse sfuggita ad aggressioni e omicidi, forse con un qualche segreto rimosso, o forse inseguita da quel fantasma che avrebbe dovuto accompagnarne l’anima alla successiva reincarnazione e che invece ha dovuto fare i conti con un traghettatore in grado, con la sua umana pietà, di cambiare il destino. Senza nulla poter fare, però, per il proprio, a breve e per sempre cambiato da quel ponte che gli toglierà lavoro, clientela, (scarsi) guadagni e principale, se non proprio unico, scopo di vita.
È un film profondamente politico e filosofico, lo stratificato They say nothing stays the same. Un non-viaggio allegorico anticapitalista ed esistenziale con più di un occhio al classicismo mizoguchiano deI racconti della luna pallida d’agosto, presentato da Odagiri nelle Giornate degli Autori come di fatto, al di là del Kore-eda francese, unico film giapponese (sic!) della 76ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e titolo di gran lunga fra i più corroboranti del Festival. Un film che cerca l’archetipo della simbiosi idilliaca fra l’uomo e la natura per farlo confrontare con il campionario pressoché infinito delle anime differenti che chiedono un passaggio sulla sua imbarcazione, con rapporti umani che nascono, si cementano e crescono sempre più forti, con le credenze, con la spiritualità e con i misticismi più radicati nella cultura popolare, e non certo in ultimo con il proprio onirico e con il proprio esistenziale. Nel racconto di un uomo che si ritrova solo contro la Storia, contro il tempo, contro la modernizzazione, ultimo baluardo di una tradizione immutabile ma evidentemente non più eterna, e anzi spazzata via dall’incedere dell’oggi nella gioia dei musicisti ambulanti traghettati che, mentre un bambino esprime lo stato d’animo silenzioso del barcaiolo piangendo sul pontile, gli dicono in faccia come «non vedono l’ora» che il ponte sia ultimato. E non è certo un caso che nel prefinale, quando una sottile coltre di neve ricoprirà di bianco i paesaggi e il ponte sarà definitivamente costruito, inaugurato e funzionante, gli uomini e le donne che lo attraversano in tutta fretta per correre in città a lavorare appaiano come spersonalizzati, vuoti, cupi, alla stregua di (altri) fantasmi (di carne) fagocitati, proprio come Toichi, dal Capitale. Intorno alla profonda tristezza, con o senza volpe a fargli da doppio, del barcaiolo che ha perso tutto per sempre, messo da parte dal moderno, dal ferro che taglia come una lingua la natura. Del resto, «Come la corrente può mandare fuori controllo una barca basta un po’ di brezza per cambiare il mondo», e anche l’acqua del fiume pare sempre identica, ma non è mai la stessa, già passata e persa per sempre nel momento stesso in cui scorre. La metafora sta tutta qui: è l’inesorabilità del tempo anche quando sembra bloccato, è l’impossibilità di chiudersi in una bolla che sia impermeabile ai cambiamenti, perché il capitalismo e la modernità arrivano ovunque e senza pietà alcuna, a tagliare fuori la cultura popolare per portare avanti il tempo e il denaro, a eliminare i lavori più antichi e le occasioni sociali, a elidere ogni personalità e ogni tradizione anche radicata ed eterna.
Rimarrà la memoria, certo, ma la memoria può anche essere dolorosa, può essere simulacro – magari in fiamme, come quella vecchia immagine da sempre conservata e poi teneramente disvelata all’ospite – di un’infinita mancanza. Così come rimarrà l’onirico, da presagio e presa di coscienza dell’inevitabile a realismo magico che interrompe la contemplazione e insanguina ogni possibilità di idillio e reale pacificazione. Un onirico che abbassa per un momento la bruciante saturazione e gli strabordanti e magnifici contrasti di They say nothing stays the same fino a un bianco e nero in cui a brillare di colore sono solo il fuoco e il sangue, oppure che si intinge nella poetica più smaccatamente panasiatica per trasformare la ragazza anonima e smemorata in Fu, segno di quel vento che non può che essere perfettamente complementare del barcaiolo, come una sorta di sirena che si tuffa dalla chiatta per nuotare finalmente libera fra i flutti. In un cinema, punto di sintesi delle lezioni impartite a Joe Odagiri dai suoi grandi maestri personali in una regia misurata ed elegantissima nei suoi paesaggi con figure, sospeso fra classico e moderno, in cui la stessa purezza di Takeshi Kitano nello scorrere delle stagioni sul pelo dell’acqua già di Mizoguchi, Imamura e di Kim Ki-duk si immerge fra i fantasmi di Kiyoshi Kurosawa con la tenerezza insostenibile del miglior Kore-eda. Mentre il giorno e la notte carezzano il fiume, l’acqua e il fuoco lo bagnano e lo colorano, e la vita e la morte viaggiano insieme nella sua placidità. Fino a quella richiesta d’aiuto per esaudire l’ultimo desiderio di un uomo, che dopo aver passato la vita a cacciare in punto di morte ha chiesto al figlio di essere lasciato alla mercé di quegli stessi animali di cui si è nutrito. Come un ringraziamento, come una restituzione, come un poeticissimo patto di mutuo soccorso: la catena della vita, la catena alimentare, l’apice della simbiosi fra uomo e foresta. E mentre la pioggia notturna si scatena come lacrime a increspare la superficie del fiume, le lucciole (consapevolmente takahatiane) tornano finalmente a mostrarsi a quel corpo senza vita appena lasciato in gran segreto fra le fratte, mentre l’anima già è volata via chissà dove. Un corpo morto trasbordato per l’ultima volta su quella barca che ha passato la sua intera esistenza a trasportare vite, in cambio di qualche moneta, certo, ma soprattutto in cerca di una non scontata e ben più preziosa umana gratitudine. Quella che, a costo di interferire col destino e pagarne le conseguenze, ha impedito la reincarnazione del fantasma. Quella che permetterà, anche di fronte al sangue che ancora sprizza dalla gola di chi aveva tentato di stuprarla, di capire Fu nella sua legittima difesa e di non biasimarla né in alcun modo giudicarla, ma anzi di scusarsi per non averla saputa proteggere. Fino a coprirla nelle fiamme di quella catapecchia ancora in un luogo in cui non era più rimasto nulla a Toichi. Nemmeno Genzo, che da quando esiste il ponte ha smesso di passarlo a trovare. Non resta che prendere per l’ennesima volta la barca e andare via. Non verso l’altra sponda, ma verso un nuovo luogo, verso una nuova vita. Insieme.
Marco Romagna