Mona Fastvold è norvegese ma abita a New York, è in una relazione con Brady Corbet (attore in Mysterious Skin e nella versione ’08 di Funny Games, e soprattutto regista di Childhood of a leader e Vox Lux), e The World to Come è il suo secondo film da regista – il primo, The Sleepwalker, era stato co-scritto con Corbet, i cui due film da regista sono stati co-sceneggiati dalla Fastvold. La coppia è insomma un duo creativo, le cui collaborazioni, almeno nel caso del lavoro di Corbet, sono eccentriche, al limite tra sperimentalismo e pura narrazione in stile cinematografico classico americano. Le storie dei film di Corbet sono storie di pop e di potere, declinati in una dimensione difficile da raggiungere, abbracciare; c’è un filo di nichilismo, ma è compensato da una grandeur d’intenti che spezza lo schermo, complica la visione. Vox Lux trasformava in epopea kitsch il viaggio nelle ferite dell’America recente tra la paranoia del terrorismo e il trauma collettivo nazionale delle sparatorie scolastiche, in un canto decadente della contemporaneità. Un mondo che è, una versione alternativa e terribile, del “mondo che verrà” della Fastvold. Il mondo che verrà è il nostro, un mondo in cui esiste un’accettazione dell’orientamento sessuale, della diversità, con rapporti umani letti in modo drasticamente differente rispetto al passato, con apertura verso l’altro e senza la chiusura e l’ingabbiamento dei dogmatismi. Però, visto che il nostro mondo “verrà” (ed è ancora incompleto da questo punto di vista e per molti altri motivi, il cui elenco sarebbe dispersivo), il mondo che racconta la Fastvold dev’essere un mondo in cui non è ancora giunta la nostra realtà, un mondo retrogrado in cui si sogna l’apertura pur parziale del presente. Siamo nell’800, al centro di un conflitto tra due coppie. La figlia di Abigail (Katherine Waterston, la Shasta Fay di Vizio di forma) e Dyer, che abitano in una catapecchia nel bosco e campano da contadini, muore di malattia durante l’inverno; la madre, disperata, trova conforto nell’amicizia con Tally (Vanessa Kirby, stellare in Pieces of a woman, sempre in concorso a Venezia quest’anno), moglie di Finney, i loro vicini di casa. La loro amicizia si trasforma lentamente in una relazione omosessuale, in cui le due sono accomunate dalla frustrazione per il vivere in una vita sbagliata, in cui sono vittime di un patriarcato moscio e indebolito, mariti che leggono la Bibbia e che dalle loro mogli richiedono solamente le commissioni casalinghe, ma con una violenza verbale che sarebbe inaccettabile al giorno d’oggi, come anche post-Suffragette. Dyer, interpretato da Casey Affleck, è un impotente, un uomo a cui questa violenza e questo potere di imposizione appartengono solo in parte, ma invece è succube di un amore, quello di sua moglie per Tallie, che è più grande di lui, e lo accetta a capo chino; invece Finney è abusivo e violento, non perdona la moglie e anzi invade i suoi spazi, la ricatta, la ingabbia. Entrambi i personaggi maschili sono dunque radicalmente irreali, per quanto l’impostazione cerchi di convincerci del contrario. Abigail e Tallie si amano davvero, sono l’unico fuoco passionale di un mondo grigio e autunnale, ultra-materiale, che sta invecchiando mentre loro, in qualche modo, sono il futuro dell’amore, l’emblema del mondo che verrà.
L’idea alla base di The World to Come è molto intelligente. Se c’è un argomento con cui il passato può raccontare i limiti e i problemi del presente, è l’omosessualità – come dimostrano anche due film recenti dall’ampia risonanza (anche se di diversa qualità), Chiamami col tuo nome e Ritratto di una giovane in fiamme. L’omosessualità non dovrebbe essere, probabilmente, “una tematica”, bensì una semplice conseguenza del racconto delle cose, ma nell’ottica del cinema che affronta il tempo e l’evoluzione della società umana, l’omosessualità è un discorso, un espediente narrativo che permette di filtrare e comprendere i rapporti tra passato e presente, oltre che la natura dell’amore, e come tale è trattato in questo film. Ogni relazione omosessuale nel cinema in costume è un neo-Romeo e Giulietta, un racconto di impossibilità all’interno di un contesto civile che va contro l’individualità del desiderio e del romanticismo. A unire Tallie e Abigail è il sogno di questa possibilità, il desiderio del ‘world to come’. Il mondo inquadrato è fascinoso nella dimensione in cui la prateria, ‘locus amoenus’ i cui colori cambiano col tempo, è il riflesso del sentimento, dei rapporti, un passaggio dall’autunno alla primavera che fa da didascalia al viaggio dal lutto al suo superamento con l’innamoramento. Allo stesso tempo però non possiamo che evidenziare che l’idea forte è strettamente simbolica, l’interesse che si può trovare nel progetto della Fastvold è nella pianificazione letteraria, derivante dal racconto eponimo nella raccolta Story Collections (2017) di Jim Shepard (da non confondere con Sam, come hanno fatto molti qui al Lido). Il vero racconto è nella struttura in quanto posizionamento dei personaggi in un contesto, e creazione di un contesto in cui questi personaggi possano funzionare, interagire, esporre un senso che spieghi questo mondo, questa costruzione, il conflitto della storia. Non vogliamo porci nella posizione di fare critiche accademiche come «non c’è conflitto», anche perché è falso, il conflitto è veritiero e presente, anche se irrealistico – è forse brutto e un po’ triste e inattuale da dire, ma i momenti di rappresentazione critica della misoginia patriarcale sono poco efficaci, colmi di una non-violenza inautentica e farlocca, anche perché la violenza nell’intreccio esiste ma è sempre relegata al fuori campo in modo mal gestito e soap-operistico, quasi in un’autocensura in cui i pochi momenti di confronto sono imbalsamati e affidati solo alle parole. Le parole sono forse il vero problema del film, perché l’unione d’intenti (che diventa unione affettiva) tra le due protagoniste è legata al loro approccio intellettuale all’esistenza, la loro profonda conoscenza della retorica, soffocata dalla loro posizione sociale. I dialoghi tra Abigail e Tallie sono forbiti e leccati, colmi di una poetica romantica fallace e auto-riferita. Nel momento in cui l’innamoramento avviene, la dialettica del film si concentra sul cercare di convincere lo spettatore della grandezza di questo amore senza fornire gli strumenti che possano rendere l’amore credibile nella messinscena, nella scrittura, nella recitazione. È un amore casto, teso nell’inevitabile imbarazzo della fisicità ma con una pressoché totale assenza dei corpi. I pochi momenti sessuali sono parziali; non richiediamo assolutamente alla Fastvold la pseudo-pornografia di un Nymphomaniac o di una Vita di Adele, ma la piattezza del fotorealismo erotico della storia sembra volersi riallacciare a un’etica della messinscena del film in costume abbastanza vecchia: la regista prova a rievocare, con l’uso della pellicola, gli stilemi di un cinema scomparso, forse datato (e difficilissimo da riportare in auge), ma la vaghezza cromatica della fotografia non restituisce nessuna sorta di pathos. Quel pathos che la sceneggiatura presuppone ma non racconta mai in modo plausibile e identificabile.
Se vogliamo insistere a fare il paragone col cinema del compagno della regista, potremmo dire che Vox Lux presenta una visione del mondo oscura e pessimista, ma restituisce ai personaggi, con varie trovate sia di scrittura sia di montaggio o regia, una seconda dimensione che rende possibile, se non l’empatia, perlomeno un valore simbolico significativo. L’inconsistenza della messinscena è radicata in un decentramento contenutistico sull’umanità del discorso. La voce narrante del personaggio della Waterston, che sussurra a tempi alterni frasi d’amore e descrizioni contestuali monotone, è una boriosa cornice, che cerca di conferire una profondità materialistica e deprimente a qualcosa che, invece, per avere un senso, dovrebbe più focalizzarsi sul sentimento, sulla credibilità dei rapporti e dei caratteri. Manca proprio quello che i puristi chiamerebbero “cinema”; se ci chiediamo perché continuiamo a cercare l’emozione nel film nonostante la perpetua reiterazione degli stessi stilemi e degli stessi contenuti, non possiamo trovare pienamente la risposta in The World to Come, perché il sogno che il film propone non è rievocato se non dal titolo. La frase finale, che chiede ai personaggi e agli spettatori di sopportare il melodramma dell’esistenza sfruttando la nostra immaginazione, è un appello che sembra ironico visto la pressoché totale assenza di immaginazione e creatività nel film. È solo la pura e diretta rappresentazione borghese di un dramma che si basa, giust’appunto, sulla necessità stessa della rappresentazione. C’è chi dice che il film della Fastvold è uno dei colpi al cuore di questa strana edizione della mostra internazionale del cinema di Venezia, ma nel film, se cerchiamo idee artistiche e complessità nel rapporto tra l’impalcatura contenutistica irreale e la realtà, non troviamo niente, o meglio, troviamo un’intenzione, e non il suo completamento. Troviamo l’assenza di vivacità di un amore che risulta spento non tanto a causa del contesto storico in cui l’amore è raccontato quanto a causa della modalità di scrittura con cui l’amore è descritto. Troviamo una grande tristezza di fondo, un’incapacità di sognare oltre la realtà, pur con la coscienza che sognare sia un bisogno umano.
Nicola Settis