Se il cinema contemporaneo (post rottura, conversione, rivoluzione, codifica) dovesse avere un padre o almeno un autore di riferimento linguistico assoluto, questo sarebbe senza alcun dubbio Lav Diaz. Sono passati poco più di dieci anni dal maremoto provocato dal tifone Reming e dal vulcano Mayon, e poco meno di nove gli anni che ci separano dall’apparizione sugli schermi di Death in the land of Encantos, un’immersione lunga nove ore in un qualcosa di originalissimo e stordente, talmente bello da togliere il fiato. Apparizione è l’unico sostantivo possibile per definire cosa fu la visione di un’opera così miracolosa (nell’atto non figurato del miracolo come qualcosa di non spiegabile), di un’urgenza così urticante e di un lirismo così infinito. Anche per questo, a molti fra noi occidentali, l’opera di “quel” Diaz si mostrò come assolutamente rivelatrice e ancor di più “mai vista”. Fu la stessa accezione del vedere, la considerazione dell’accettazione della Storia come forma di vita (e morte) d/nel presente, come lavoro inclusivo sul tempo e sulla propria comprensione, nell’impossibilità di una sua frattura. Inquadrature fisse in bianco e nero apparentemente infinite, la necessità di ridare una Storia alle ‘sue’ Filippine storicamente martoriate dai colonialismi, una metafora dalla leggibilità semplicissima e lacrimata, un amore purissimo e straziante nei confronti dell’uomo, una narrazione dilatata e contemplativa pronta a convergere in una lirica capace di caricarsi lentamente per poi deflagrare in un’esplosione di emozioni intime e ancestrali, sublimi e devastanti. Ma il tempo della storia non sempre è quello del racconto, e dieci anni dopo il cinema di Diaz si presenta come oggetto forse ancor più misterioso, dalla metamorfosi continua ed inarrestabile, tra nuovi sprazzi di leggibilità narrativa e antichi frammenti di lirismo filmico purissimo. Il cinema di Lav Diaz si sta evolvendo, in un progressivo cambio di linguaggio verso un cinema più narrativo, più dialogato, più “breve” – The woman who left dura “appena” 3 ore e 40 minuti, in sostanza un trailer rispetto alle 6, 8, 10 ore a cui ci aveva abituato sulle più lunghe distanze il regista filippino –, evoluzione che lo rende forse meno originale, forse un po’ meno lirico, ma sicuramente non meno lucido, umano, emotivo.
The woman who left, prima e meritatissima incursione nel concorso veneziano per Lav Diaz che arriva (colpevolmente) solo dopo lo “sdoganamento” avvenuto con il Pardo d’Oro 2014 a From What is Before e l’Alfred Bauer a Berlino 2016 per A Lullaby to the Sorrowful Mistery, spiazza in questo senso lo spettatore di Diaz sin dall’incipit, che sostituisce al classico long take iniziale una serie di stacchi di montaggio estremamente veloci rispetto alle abitudini del regista filippino. La storia messa in scena, nella narrazione gestita finalmente alla perfezione dopo i momenti di piccola sbavatura del precedente A Lullaby to the Sorrowful Mistery, potrebbe apparire un revenge movie, ma nel cinema di Lav Diaz, come ci insegna Norte, non esiste la vendetta, solo un senso profondissimo e ancestrale di giustizia. È il 1997, le Filippine dei rapimenti, e mai il cinema di Lav Diaz, prima atemporale e poi pronto a scavare nel passato, si era così tanto avvicinato all’oggi. La protagonista Horacia esce dal carcere dopo averci passato trent’anni da innocente. Nella ricerca di chi l’aveva incastrata, lo spietato Rodrigo Trinidad felice di averle rovinato la vita per il solo fatto di essere stato un amante abbandonato, Horacia dovrà mentire, dissimulare la sua identità, chiedere alla figlia di non dire a nessuno della sua liberazione. Dopo aver venduto tutto ciò che aveva lasciando il profitto a chi si era occupato delle sue terre e della sua casa nel corso degli anni, incontrerà la transessuale epilettica Hollanda della quale finirà per prendersi cura, una barbona pronta a ricordarle la natura arrogante e malvagia della società e un venditore di balut al quale pagherà le cure alla figlia in cambio di una pistola. E, pur non perdendo mai di vista quello che è ormai il suo scopo di vita – uccidere Rodrigo, che non pare certo casuale si chiami come l’attuale presidente Duterte – riscopre attraverso di loro l’umanità, la collettività, l’amore puro, fino alla gratitudine e a uno sdebitarsi che ne preserveranno l’onestà, non assassina ma di nuovo donna. Continua così, anche attraverso un’inedita quanto inaspettata soggettiva con camera a mano, il viaggio di Lav Diaz nel cuore dell’uomo e nella Storia devastata delle Filippine, in un film assolutamente straordinario, nel quale il regista continua a sedere dalla parte del popolo, continua a soffrire le sue pene, continua a rendergli quei piccoli barlumi di giustizia che la Storia pare avergli negato. A meno che la Storia, crudele e inumana, non decida di tornare a far soffrire i suoi protagonisti.
Già la sostanziale diminuzione della rarefazione interna alla sua produzione (nel solo 2016, due film da regista, uno da attore, diversi lavori da produttore e un’altra opera in cantiere) potrebbe mostrare una certa voglia di intervenire sempre più direttamente e coscientemente nei meccanismi della macchina cinema, al cospetto degli atti “miracolosi” e necessari di cui prima si parlava. Se l’opera presentata all’ultima Berlinale era ancora in qualche modo legata all’esigenza di donare una storia al proprio paese quanto mai lacerato nel passato e ancora nel presente, questa di Venezia si presenta ancora una volta come straordinaria riflessione sull’identità del sentimento umano, sulla dialettica dostoevskiana sul senso e la colpa, come sulla definizione di una giustizia che mai potrebbe rivelarsi catarsi di vendetta. Su questo piano, forse nulla pare più come miracoloso (ahimè), ma la rigorosa indagine di rapporti in cui il fluire dell’immagine-tempo ritorna ora ri-ordinato in una nuova immagine-movimento. L’appartenere a queste immagini della parola (vorticosa ed esplicativa nel film di Berlino, qui decisamente più cesellata, diretta, emozionata e urticante) è la loro stessa codifica diegetica e narrativa, traccia semantica necessaria per la comprensione e strumento filmico cognitivo sostituito alla deriva lirico-percettiva sublime del Diaz più estremo. In quest’ottica continuamente parzializzata ed evolutiva, il cinema di Lav Diaz perde sempre più la folle libertà miracolata delle opere più lunghe e stratificate, guadagnandone però in compattezza, sintesi e dialettica. Della meraviglia del digitale sporco e mancante di risoluzione che scarnificava figure e paesaggi, rimane il bianco e nero ad alta qualità e saturazione, irreprensibile nei suoi tagli di luce emozionali e abbaglianti. Allo stesso modo, quella che era un’esplorazione psico-fisica di cinema che metteva in discussione lo stesso ruolo di spettatore, ora porta a una visione più certa e mutante, da seguire stacco per stacco ma che non assume più quell’esperienza di durata immersiva e totalizzante. Si potrebbe continuare così a mettere allo specchio due epopee di cinema di un autore gigantesco, a cui in qualunque modo dobbiamo rendere conto. Ma il senso stesso di questo specchiare/si è sostanzialmente legato a noi. L’operazione di Diaz verso una riconciliazione può forse essere discutibile, ma non può in alcun modo allontanarsi dal tentativo continuo di interpretare il corpus della sua opera come un, sempre più, monumentale affresco di anime al cospetto del proprio destino. È l’ennesimo e meraviglioso film di sofferenza e catarsi, che trova nelle crisi epilettiche di Hollandia e nei canti insieme sulle note di West Side Story i suoi momenti più alti e lirici, in grado, anche in un linguaggio più “normalizzato”, di trovare quegli istanti sublimi, come una strada sotto la pioggia, come un cammino circolare e wellesiano sui manifesti di chi non c’è più. Perché non c’è cuore senza dolore, non c’è catarsi senza sofferenza, non c’è grande cinema senza Lav Diaz, l’autore più importante degli ultimi 20 anni.
Ma purtroppo non riusciamo nemmeno stavolta, pure al cospetto di un film meraviglioso, unico Leone d’Oro possibile di questa Venezia (insieme a Jackie di Larraìn), e ben superiore a quello berlinese di soli sette mesi fa, a gridare al puro capolavoro, ancora con gli occhi persi in una Malinconia, in un Incanto, in un’Evoluzione. E qualcuno, fra gli amanti di vecchia data, doveva pur dirlo. Quello che non torna pare infatti essere proprio il nostro occhio; ripensando all’educazione a cui è stato abituato da queste medi(t)azioni esistenziali aliene, che proprio nove anni fa per la prima volta dovette subire e godere con il cinema di Lav Diaz, questa attuale correzione di fuoco sul proprio lavoro pare aver stabilizzato anche parte della nostra stessa capacità di esserne impressionati. Perché pochissimi al mondo potrebbero fare un film come The woman who left, e tutti sommi, ma solo Lav Diaz poteva fare quel cinema espanso e sublime dei maggiori capolavori di Lav Diaz, un autore da cui ci aspettiamo sempre qualcosa di unico e irrefrenabile. La grandezza di questo ultimo film è così apprezzabile razionalmente quanto lontana dalle derive di stupore emozionale che appartenevano a quel nostro occhio strappato al reale e lasciato fluttuare in quel bagno di fotogrammi, video dell’inspiegabilità. Di quel miracolo sensibile al reale che sconvolse, rimane l’atto ma scompare l’aura che, come una cometa, ha indicato a tutti noi un cinema possibile dall’inconoscibile. Ma forse è proprio questo il tempo della dialettica, quando scompare la passione ma rimane l’amore del guardarsi, del giocare al cinema per essere dentro la vita. E forse basta anche questo, la sedimentazione di un percorso che retroattivamente già pare inimitabile. Perché Sine Ni Lav Diaz è e rimane la frase più bella del mondo.
Erik Negro, Marco Romagna
edit: Vincitore del Leone d’Oro come miglior film di Venezia73. E non eravamo così felici dai tempi del Faust di Sokurov.