«È semplice» disse lei. «Le streghe non hanno potuto trasformarvi completamente in topi. Sono solo riuscite a rimpicciolirvi, a farvi spuntare quattro zampe e una pelliccia. Ma sotto l’apparenza di un topo, sei rimasto te stesso. Hai sempre la tua anima, il tuo cervello, e la tua voce… grazie al cielo».
Roald Dahl, Le streghe
A volte basta un istante di grande cinema. Basta un lampo, un’idea, quell’intuizione di regia che solo i più grandi sanno pennellare sullo schermo. Basta capovolgere di centottanta gradi la macchina da presa, per ribaltare il punto di vista rendersi conto che quella neve che sembrava risalire a fiocchi verso il cielo in realtà sta regolarmente scendendo verso l’asfalto, e ad essere cappottata è invece l’automobile incidentata con il giovane protagonista legato dentro. Un movimento di macchina in cui sta in qualche modo tutta la natura dell’operazione di Robert Zemeckis sulLe streghe, un sovvertimento delle percezioni in pianosequenza che in un sol colpo d’occhio svela la fantasia e la realtà, la magia del sogno e la concretezza della metafora, la narrazione per famiglie e la necessità di integrazione. È per questo che Zemeckis sposta il racconto di Roald Dahl dall’Inghilterra con radici in Norvegia degli anni Ottanta all’intrinsecamente politico Alabama ‘black’ del Sessantasette, dove i bambini sono abbastanza poveri da permettere alle streghe di non essere scoperte e dove le ricchezze delle entità demoniache – e la capacità di ribellarsi alle angherie di chi è potente – verranno infine ridistribuite al popolo. È per questo che nell’albergo di lusso, quasi a ricordare gli ori, i velluti e i barocchismi delle case coloniali, la bassa manovalanza è tutta di colore, e a tutti si illuminerà il volto vedendo quell’inaspettata mancia di mille dollari. Ed è figlia di questo anche la decisione di Zemeckis di ricapovolgere le oscure atmosfere orrorifiche e il finale lieto quanto posticcio di Chi ha paura delle streghe?, primo straordinario adattamento del romanzo di Dahl realizzato nel 1990 da Nicolas Roeg con un’irresistibile Anjelica Huston, in una colorata fiaba per famiglie d’avventura e resilienza che diventa vera e propria resistenza, attraverso cui emanciparsi qualunque sia il proprio aspetto. Non c’è più l’inquietante incantesimo della bambina rimasta intrappolata, sempre diversa ma sempre immobile, in un quadro di famiglia, ma la mutazione tutto sommato divertente e parodistica (per quanto non esente da una sfumatura di senso di colpa) della vecchia amichetta che diventa gallina; non ci sono più la maschera e il pesante trucco prossemico a trasformare la Grande Strega Suprema nell’essere mostruoso e deforme raccontato da Dahl, ma una sapiente gestione della CGI ad allargare bocca e narici di una perfida e volante Anne Hathaway scoprendo la stessa dentatura diabolica delle Erinni; non c’è più la calata notturna nella stanza della Strega con il gatto libero e pericoloso, ma il pieno giorno con il felino chiuso nella trasportina. Non c’è nemmeno più il misterioso pollice mozzato della nonna che Roeg aveva tratto così com’era dal libro, ma per rivelarne il passato da fiutastreghe bastano le sue competenze e la sua fama di guaritrice. C’è semmai la tensione di un campanello in più da suonare, c’è un altro piano da improvvisare ed elaborare al volo sotto al letto appena ci si rende conto che la Strega Suprema non ha mangiato la zuppa con la pozione fabbricatopo, c’è una maggiore consapevolezza di come l’intelligenza debba sempre vincere sull’istinto e di come sia complicato essere accettati per quello che si è – tanto che la topolina bianca avrà paura di svelarsi come bambina trasformata anche mentre si parla delle streghe, e il Bruno topificato non sarà mai accettato dai suoi genitori ma rimarrà in una grande famiglia con il protagonista e la nonna. Qui, come già nel libro, non occorre alcun controincantesimo, non serve tornare bambini, ma si finisce per preferire la nuova forma, per imparare a sfruttarla al massimo, per trasformarla in arma del bene contro il male e portare avanti la lotta.
È una resistenza che è personale ma soprattutto popolare, collettiva, quella messa in scena da Zemeckis. Perché è solo insieme che si può conoscere, formarsi e partire per combattere tutte le streghe del mondo. Diventa quindi paradossale come Le streghe, distribuito direttamente su piattaforme saltando del tutto la sala per essere l’unico dolcetto/scherzetto possibile del (non) Halloween in coprifuoco pandemico ennesimo istante anomalo di questo assurdo 2020, inizi e si chiuda proprio nella cornice di una proiezione pubblica. È vero, ad essere proiettate sono diapositive e non immagini in movimento, ma in mano a Robert Zemeckis bastano e avanzano per dichiarare come il film sia pensato per il grande schermo, per la visione corale, per la partecipazione, per il divertimento di grandi e piccini insieme nel buio proprio come insieme nel buio sono i bambini che imparano a riconoscere e combattere quelle streghe che tanto li detestano. Eppure è stato per molti motivi surreale vederlo su quel grande schermo per il quale è nato. È stato surreale vederlo insieme ad amici, colleghi e bambini nell’elegante e nuovissima sala innestata nella Nuvola di Fuksas, mascherata e gremita quasi al limite del contingentamento per l’ultima proiezione di Alice nella Città alla 15ma Festa del Cinema di Roma, consapevoli che quella sera del 25 ottobre sarebbe stata l’ultimo spettacolo, l’ultima lama di luce nel buio prima dell’entrata in vigore del dpcm che avrebbe disposto un mese (per ora) di chiusura delle sale. È stato surreale partecipare a un sogno sapendo che sarebbe stato l’ultimo prima di una lunga notte, pensando a come sia assurdo aver risposto all’emergenza chiudendo proprio i luoghi più sicuri. Ma non divaghiamo, perché tanto non servirebbe a nulla. Torniamo al film, alla consueta perfezione tecnica di Zemeckis, alla voce narrante di Chris Rock che spinge alla ribellione, alla tenerezza dei topolini e alla spettacolarità del loro arrampicarsi per battere un’intera assemblea di perfide streghe pelate con le loro stesse armi. Un film che, come spesso accade nel cinema di Zemeckis, parte ancora una volta dalla lenta elaborazione di un trauma e finisce per ragionare sulla finzione, sul mentire, sulla messa in scena. Non è più la guerra di Benvenuti a Marwen, non sono più le menzogne d’amore (e di cinema) di Allied, non è più il rimorso di Flight e non è più nemmeno la cacciata di casa del piccolo funambolo in The walk, ma dalla perdita dei genitori nell’incidente è quasi naturale arrivare alla necessità di nascondersi dalle minacce di chi a sua volta vive nascosto. Del resto, che cosa fanno le streghe se non recitare la parte di normali donne, con le tanto di parrucche e dolorosissime scarpe a punta? Che cosa fa la bambina-topo se non recitare il suo ruolo di animale fingendo di non poter ragionare o parlare? Che cosa fa la stessa nonna, nella sua caccia alle streghe lunga una vita, se non fingersi una normalissima anziana un po’ stramba?
Passa tutto dal recitare, dalla discordanza fra aspetto esteriore e personalità, dal trasformarsi e trasformare già di La morte ti fa bella, e in qualche modo anche dal cambio del tempo (sia con lo spostamento temporale e geografico della vicenda, sia con la gestione dei flashback, sia con la costrizione di streghe altrimenti quasi immortali alla finitezza della vita di un topo) già d(e)i Ritorno al futuro. Un po’ come la lunga genesi del film, partito nel 2008 come progetto di Guillermo Del Toro da realizzarsi in animazione stop motion, e passato dopo oltre dieci anni nelle mani di Zemeckis – con Del Toro rimasto come co-sceneggiatore – per un live action ‘tecnologico’, fatto di ambienti veri e di effetti speciali computerizzati, di corpi e di motion capture che ancora una volta, come i cartoni di Chi ha incastrato Roger Rabbit? e i pupazzi di Benvenuti a Marwen, si fondono in una sola immagine. Visivamente, tutt’altro rispetto alle marionette che furono di Roeg, come tutt’altro rispetto alla versione di Roeg è il sottotesto politico. Eppure Chi ha paura delle streghe?, con le sue inquadrature sghembe e le sue vertigini dark, rimane probabilmente più bello rispetto a questa nuova versione, irraggiungibile nel suo sostanziale errore di target, film più per adulti che realmente per bambini. In tal senso, anche da uno Zemeckis per famiglie, come già in Polar express e A Christmas Carol, sarebbe stato probabilmente lecito aspettarsi qualcosa in più, un qualche discorso ancora più stratificato, una maggiore originalità, una qualche ulteriore chiave di lettura. Ma sarebbe troppo ingeneroso fissarsi a chiedere quel poco che manca senza prendersi il tanto che c’è. Un intrattenimento intelligente e spettacolare, in cui la vis politica d’uguaglianza e orgoglio nero passa per le pennellate soul dei Four Tops con la loro Reach Out (I’ll Be There) pronta a girare sul piatto, o dai vibrati di Otis Redding sempre (Sittin’ On) The Dock Of The Bay. Note da cogliere e fare proprie, proprio come quelle diapositive che spiegano alla folla come riconoscere e sconfiggere le streghe, che poi a ben vedere nient’altro sono che il sistema. Quelle streghe che non volano sulle scope, ma che fingono di essere altro sotto una parrucca. E se a qualcuno, con le elezioni americane così alle porte, iniziasse a venire qualche dubbio sulla capigliatura e sulla malvagità di Donald Trump e lo spodestasse dalla Casa Bianca? Sarebbe una bella magia, effettivamente. Come il sapore inaspettato e magnifico di una fetta di torta.
Marco Romagna