THE WHISPERING STAR (2015), di Sion Sono
In un futuro distopico eppure così drammaticamente collegato alla dolorosa realtà post-Fukushima, un bianco e nero rarefatto e dolente racconta la solitudine, l’isolamento, la reiterazione delle azioni, la pazienza, la necessità dell’uomo di riappropriarsi dei propri spazi, del proprio tempo, della propria dignità. Ma soprattutto dei propri ricordi, la memoria come necessità di ritrovare se stessi, disperato sussurro di speranza chiuso in una lacrima apparentemente impossibile. Nell’eclettica filmografia del regista nipponico Sion Sono, The Whispering Star si pone subito come oggetto spiazzante, discostato dagli abituali testi e generi di riferimento, configurandosi probabilmente come il suo lavoro più complesso. Stilisticamente, fra i lavori soniani appare assimilabile a The Whispering Star il solo Heya-The Room, ma in questo caso il regista compie un percorso concettualmente inverso: dalla meccanicità dell’uomo depresso in cerca del luogo giusto per morire, oggetto di studio del film del 1992, si passa nel 2015 all’umanizzazione delle macchine come disperata ricerca di un futuro. Del resto già tre anni fa, ai tempi di The Land of Hope e dopo aver modificato Himizu in corso d’opera nei giorni immediatamente successivi allo scoppio della centrale, Sono aveva dichiarato di essere rimasto quanto mai scosso dalla tragedia nucleare che ha investito il Giappone: il suo malessere è diventato necessità e ispirazione, fino a trovare espressione in una fantascienza distopica dai chiari echi tarkovskiani, lenta, reiterata, dolorosa, filosofica, profondamente critica e sincera nella disperazione quanto nella ricerca di un barlume di luce in fondo al tunnel. Sion Sono parla ai giapponesi, critica la loro memoria troppo corta, sembra voler affermare che prima o poi i ricordi torneranno, graditi o meno, restituendo Storia e dignità ad un Popolo ferito. Messa da parte la parossistica esplosione di follia e violenza che permea buona parte dei lavori del regista, da Love Exposure a Why Don’t You Play in Hell?, senza dimenticare il delirio pop-rap di Tokyo Tribe, The Whispering Star si snoda al contrario in tempi dilatati che utilizzano la lentezza come cifra stilistica, la coscienza politica e sociale come necessaria base, la devastazione come spunto di riflessione e nuovo inizio. Stavolta non è la freschezza del B-movie la strada per sfuggire alla realtà, ma è all’opposto proprio la realtà che si fa largo in un rigore autoriale che riporta alla memoria il già citato Andrej Tarkovskij, ma anche i mostri sacri del Sol Levante Nagisa Oshima e Koji Wakamatsu. Sion Sono presenta alla decima edizione del Festival di Roma un film allegorico fatto di dettagli, profondità di campo, dialoghi ridotti all’osso, reiterazione minimale, critica sociale, ma anche pietas e cuore. Ed è impossibile non notare una sopraggiunta maturazione poetica, in grado di elevare The Whispering Star fra le visioni più indispensabili dell’anno in corso, e non solo.
L’universo sci-fi si configura, secondo la miglior tradizione della fantascienza concettuale, come escamotage narrativo per analizzare con lucidità e amarezza il presente. Le zone più colpite del Giappone, disabitate e contaminate, diventano nella finzione cinematografica i pianeti sui quali abitano gli ultimi esemplari di uomini, specie in via d’estinzione ridotta, per proprie colpe, a ombre fantasmatiche e tristi personaggi soli in un universo comandato dalle macchine e dall’intelligenza artificiale. L’uomo ha perso la propria centralità e vive, isolato dal proprio passato e dai propri ricordi, in un mondo talmente distrutto da sembrare nuovamente primordiale, un mondo fatto di distanze siderali e comunicazioni quasi impossibili. Ma non si tratta di un immaginario à la Blade Runner, anzi: Sono gioca piuttosto a rendere il confine fra uomini e macchine sempre più labile, in una cooperazione per la quale gli androidi svolgono servizi per l’umanità prendendosi quasi cura di una specie pericolante e sofferente. Protagonista è Machine 722 Suzuki Yoko, robot antropomorfo progettato per svolgere servizio di consegna pacchi intergalattico. Non riesce a capire perché gli uomini spediscano ancora, in un tempo coadiuvato dalla comodità del teletrasporto, né quale possa essere l’utilità degli oggetti apparentemente senza senso che si trovano nei pacchi -una fotografia, un cappello, un bicchiere, un mozzicone di sigaretta, un pezzo di pellicola-, ma svolge il proprio lavoro con dedizione, consegnando le scatole una dopo l’altra in un viaggio lungo più di vent’anni a bordo della propria casa-astronave vintage. Yoko è un androide senza tempo e senza luogo, incapace di invecchiare, che passa giorni tutti uguali in viaggio, fra la rituale preparazione del the, la pulizia della casa, il cambio delle proprie pile, la divisa in lavatrice, il gioco di tenere un diario vocale da lasciare ai prossimi affittuari della navicella spaziale.
L’umanità, secondo Sion Sono, ha bisogno di un ritorno alla fisicità. Ha bisogno di un ritorno agli oggetti, ai ricordi, agli affetti, al tempo e al luogo. Il vero contenuto dei pacchi è la malinconia che sboccia negli occhi di chi li riceve, sprazzi emozionali di gioia commossa o di dolore, perché i ricordi possono e devono essere conservati anche se spiacevoli in quanto parte dell’individuo. Attraverso le persone che incontra nel proprio lavoro, la robot Yoko inizia un processo di progressiva umanizzazione, che parte dall’attrazione e arriva all’empatia, passando per tosse, raffreddore e pruriti. Una consegna dopo l’altra, Yoko capisce in prima persona quanto possa essere importante l’oggetto come testimone del passato e portatore di memoria, fino a rendersi conto che l’oggetto, e quindi il ricordo, può sopravvivere alle persone, può emozionarle dopo così tanti anni, può in un certo senso tenerle vive. Fra lattine sotto le suole, macchine fotografiche, biciclette semidistrutte e pacchetti di sigarette, in Yoko si fanno strada sentimenti e tenerezza mai provati da una macchina, fino agli impossibili occhi lucidi e alla chiusura del cerchio con una nuova spedizione, probabilmente a se stessa, per ricordare chi in futuro non ci sarà più: l’uomo malandato, mortale, già consumato come un fiammifero. Forse, il vero motivo per spedire è proprio l’attesa di ricevere, l’ultimo barlume di emozioni di un mondo abbandonato a se stesso e sempre più digitale, che ha ancora ben presente la forma, ma sembra aver dimenticato la sostanza, il materiale, la vita. Ecco quindi le farfalle rimaste intrappolate nella plafoniera, fra gli apici poetici del film: il loro battito d’ali è al contempo la vita che si insinua nonostante tutto ma anche un’illusione, perché prima o poi le falene moriranno, smetteranno di muoversi e rimarranno come ombre su una luce. Facendo impazzire, peraltro, il computer di bordo-pilota (impossibile, conoscendo la cinefilia di Sion Sono, non pensare ad un omaggio a Kubrick e al suo HAL 9000 di 2001 Odissea nello Spazio), che confonderà la plafoniera con il cosmo, e le falene con frammenti di meteorite. Poi, il breve ed unico passaggio al colore, durante la prima consegna, per rappresentare il momento chiave nel quale inizia il passaggio dalla fredda efficienza robotizzata ad uno sguardo ‘altro’, breve ma intensa presa di coscienza del mondo, ponte fra la fantascienza, la greve realtà odierna e l’humanitas della macchina. Ma anche il senso ultimo della scelta del bianco e nero, in quanto portatore della memoria del colore.
Con The Whispering Star Sion Sono spiazza tutti, confermando il talento cristallino ed una forte presa di posizione. Anche nel Cinema più “impegnato”, autoriale, riflessivo. Alla faccia di tanta critica superciliosa che a scatola chiusa sosteneva, di fronte ai sette titoli firmati quest’anno, che questa improvvisa prolificità del regista fosse preoccupante sintomo di una serialità produttiva volta a mascherare una scarsa vena creativa, Sion Sono risponde con vette poetiche e di ispirazione mai tentate, inserendosi definitivamente, qualora ci fossero stati ancora dubbi, fra i giganti della sua generazione. Il cosmo è uno spazio abissale, gonfio di solitudine, e The Whispering Star è il sussurro di un’umanità fragile, fatta di ombre che non potrebbero nemmeno sopportare un suono al di sopra dei 30 decibel. Anche il mare in tempesta è silenzioso, regna una quiete mortifera interrotta in punta di piedi da sottili bisbigli. Si muove in silenzio anche Yoko sull’ultimo corpo celeste rimasto abitato da soli uomini. Cammina a passo felpato in corridoi che paiono infiniti, nei quali gli esseri umani sono ridotti a silhouette sui muri. Eppure vivono, dai giochi con la palla e con le spade dei bambini alla camminata raggrinzita di un anziano con il bastone. Quelle ombre, dietro alla devastazione e alla loro estrema fragilità, ridono ancora, scherzano, crescono, invecchiano. Fanno figli, li amano e li proteggono, sembrano aver ricostruito non solo una vita, ma anche la felicità. Ricevono pacchi, li aprono, si commuovono, o forse si struggono, sicuramente si emozionano: la memoria prima o poi ritorna, e con lei la forza e la dignità per essere se stessi. Sono dipinge un’umanità fantasmatica, ectoplasmica, eppure sempre presente, ancora viva, ancora pronta a ricordare, in attesa di ripartire. Del resto, il Cinema stesso è memoria che sopravviverà alle generazioni: un proiettore gira fra le ombre, le bobine caricate ed il cono di luce che esce dall’obiettivo. Ora tocca a noi osservare, rimembrare chi siamo, e poi vivere.
Marco Romagna