Il ventinovesimo International Documentary Festival di Amsterdam è quest’anno l’occasione per riscoprire uno dei documentari più controversi prodotti nel Regno Unito nel corso dell’ultimo secolo. Questo piccolo film di 48 minuti che simula le conseguenze di un attacco nucleare nel Sud dell’Inghilterra, realizzato da Peter Watkins nel 1965, ha una storia davvero affascinante e particolare anche se, almeno nei suoi tratti essenziali, per nulla unica. In breve: il film è stato finanziato dalla BBC che ha però successivamente deciso di non trasmetterlo, e anzi ha fatto di tutto per evitare di mostrarlo al pubblico. Nel 1967 The War Game riceve il premio Oscar per il miglior documentario, la BBC accetta il riconoscimento con orgoglio – dettaglio curioso, considerato che in precedenza aveva giustificato la mancata messa in onda con un comunicato che descrive il film di Watkins come un esperimento interessante ma purtroppo fallito – salvo poi aspettare quasi vent’anni prima di trasmettere l’opera sui suoi canali. Secondo Watkins fu il governo britannico a esercitare pressioni affinché il suo documentario fosse messo al bando, considerata la posizione non esattamente neutra che il film e il suo autore assumono nei confronti del tema, allora particolarmente sensibile, della proliferazione nucleare.
Realtà
Dal punto di vista della costruzione narrativa, il documentario di Watkins è organizzato in modo decisamente rigoroso. Nonostante sia un mockumentary che simula uno scenario verosimile ma finzionale, è strutturato in fasi ascendenti con un approccio quasi scientifico – ed è infatti basato su dati, studi e analisi dei precedenti. In questo senso, la caratteristica che più colpisce è proprio il contrasto tra la forza delle immagini e il distacco del narratore, che presenta i vari stadi di sviluppo del dramma con il tono freddo e analitico che si conviene al commento di una simulazione da laboratorio. E le immagini sono davvero crude. Sebbene il film sia stato realizzato più di cinquant’anni fa e il livello di realismo catastrofico cui siamo abituati oggi sia decisamente superiore a quello di allora, la capacità di Watkins di rappresentare il disastro con i mezzi a disposizione è così profonda che lo spettatore non ha nessuna difficoltà a convincersi della sua verosimiglianza, tanto che l’apparente distacco del narratore diventa un vantaggio in termini di credibilità e dona alle immagini un’aura di atemporalità che produce un effetto al contempo straniante e incredibilmente realistico.
Ironia
La continua frizione tra realtà e rappresentazione e il conseguente tentativo di mediazione dell’autore sono il centro tematico su cui si regge l’intera impalcatura narrativa, soprattutto considerato il modo in cui certi passaggi a dir poco grotteschi rimandano a quello che è senza dubbio il più importante film sulla minaccia nucleare dell’epoca e forse di sempre, Il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick. È noto come inizialmente Kubrick intendesse realizzare un film drammatico, ma si convinse invece a farne una commedia a causa della mole di contraddizioni che emergendo quotidianamente dal racconto glielo rendevano assurdo. Watkins al contrario non si riferisce mai al suo film come a un’opera satirica né all’ironia come filtro principale del suo approccio al tema, che invece descrive in questi termini:
Ero interessato a infrangere l’illusione di realtà prodotta dai media. La mia domanda era: dove sta la realtà? Nella follia delle dichiarazioni di questi personaggi dell’establishment che ripetono la dottrina ufficiale o nella follia delle immagini ricostruite che compongono il resto del mio film, che di fatto rappresentano le conseguenze di quelle dichiarazioni?
Eppure proprio l’accostamento tra questi due diversi e opposti sistemi di rappresentazione, quello istituzionale e quello della messa in scena, genera un tale vuoto di senso nello spazio tra i due universi che spesso nel corso del film il riso sembra davvero l’unica reazione possibile. Se prendiamo per buona la definizione di ironia come capacità di negoziare la distanza tra reale e ideale senza fare violenza a nessuno dei due che Mark Lilla ci fornisce in uno degli ultimi numeri di Harper’s parlando proprio del mito dell’apocalisse come strumento politico, diventa in un certo senso naturale e necessario individuare la principale qualità del documentario di Watkins nella violenza che The War Game al contrario non risparmia allo spettatore, costretto a ridere di uno scenario tanto drammatico senza nemmeno la parziale attenuante di assistere a un’opera dichiaratamente satirica – qualità che da sola ci offre un’accurata sintesi di tutta la potenza espressiva del film.
Mario Aloi