Sion Sono, nell’ondata di superprolificità che lo ha colto nel 2015 con ben cinque titoli sfornati, ha probabilmente avuto solo nel caso di The Whispering Star una sincera ispirazione a guidarne la mano. Eppure, il genio che abbiamo imparato ad amare sin dai primissimi cortometraggi sperimentali di metà anni Ottanta e poi sviluppatosi con i capitali, giusto per citarne alcuni, Suicide Club, Cold Fish, Love Exposure e Why don’t you play in hell? rimane, puro e cristallino, anche nelle opere dichiaratamente minori. Il regista nipponico, per quanto possa sforzarsi di adeguarsi a ritmi produttivi che non sono mai stati in precedenza nelle sue corde firmando divertissement e b-movies con la mano sinistra, si conferma ogni volta, film dopo film, nella sua capacità di mettere in scena – quali che siano le forme cinematografiche scelte – l’adolescenza e le sue turbe, il bisogno d’attenzione e d’amore, la lotta di piccoli e grandi (anti)eroi contro l’avidità dell’uomo che distrugge il mondo, la violenza insita in una società dall’indole inevitabilmente malvagia, maschilista e spersonalizzante. E, non certo in ultimo, quella necessità viva e ancestrale del Giappone di rialzarsi dopo i fatti di Fukushima e l’olocausto nucleare, sua autentica quanto comprensibile ossessione sin dal giorno dello tsunami, sfociata nei cambi in corsa allo script di Himizu, nel successivo e sublime canto di resistenza che è The Land of Hope, nell’ideale controcampo The Whispering Star e in generale nel chiodo fisso che traspare più o meno velatamente da tutta la sua produzione successiva.
Ma, mettendo volutamente da parte tutti i film più smaccatamente “autoriali” del regista, nei quali la sua (non solo) giovanile militanza cinefila plana dolcemente sullo schermo anziché implodere, Sono ha sempre avuto qualcosa da dire nella sua intera produzione: c’è sempre stata una gioventù da studiare, c’è sempre stato un retrogusto politico, c’è sempre stato un immaginario spesso apparentemente folle e anarcoide, ma in realtà sempre lucido e acuto nel fare emergere – e non di rado deflagrare – la necessità più intima e ancestrale di trovare se stessi. È stato così nel 2014 nell’esplosione rap di Tokyo Tribe; è stato così lo scorso anno nel cinedelirio-videogioco di TAG, nel quale leggere al di là del crescendo pliniano di fatti splendidamente surreali un passaggio all’età adulta che si smarcasse dal controllo altrui; è stato così nel “film di Natale” Love and Peace fra sogni di rock’n’roll e sentimenti alla ricerca di una tenerezza perduta; ed è stato così persino nelle forme miikiane, per quanto meno congeniali a Sono rispetto all’eretico collega, dello yakuza movie Shinjuku Swan, forse il meno riuscito dell’ottima infornata ma anch’esso forte di diversi spunti.
Del resto la produzione 2015 di Sion Sono, come dichiarato dallo stesso regista nel corso di più interviste, andrebbe vista come una sorta di unicum, come un album composto non da canzoni come nella musica, ma da lungometraggi di diversa, quando non opposta, fattura, dalla lenta e riflessiva distopia tarkovskiana alla più sfacciata e movimentata exploitation. Tutti orientati, però, ad un proseguimento delle tematiche e delle intuizioni che hanno reso celebre il regista con i suoi lavori più riusciti e (mai abbastanza) incensati. A chiudere la “covata malefica” del geniale cineasta edizione 2015, quindi, arriva finalmente sugli schermi della Cineteca di Bologna, come proiezione notturna del Future Film Festival, The Virgin Psychics, con il quale Sion Sono sorvola nuovamente con sguardo libero e anarcoide l’adolescenza. Trovando ancora una volta una via sempre originale, eretica e mai così erotica che si snoda fra echi surreal-fantascientifici, istinti sospesi fra il manga e l’anime di un cinefumetto fatto di impossibili supereroi casuali quanto gustosamente sfigati e un coming of age circolare intriso nella commedia nera più esilarante, nel quale l’unica cosa che conta davvero è essere in pace con se stessi, anche a costo di rispolverare una visione squisitamente alleniana dell’autoerotismo.
Quello confezionato da Sono in The Virgin Psychics è un irriverente calderone pop fatto di (geniali) ausili per la masturbazione e di desiderio, di bambole gonfiabili e di polveri afrodisiache, di facoltà paranormali e di dialoghi prenatali, di ritorni al ventre materno e di ricerche spasmodiche dell’anima gemella, di raggi cosmici alieni e di voglia d’eroismo, di divise scolastiche e di barche sul fiume, di sonetti shakespeariani e di pacchi di fazzoletti, di seni giganti e di istinti saffici, di biancheria intima femminile e di conseguenti e incontrollabili erezioni per i protagonisti – in testa Shota Sometani, già attore per Sono in Himizu e Tokyo Tribe – che non possono che far correre la mente alla meravigliosa quanto provocatoria fiaba di Yu e Yoko in Love Exposure. Fino a un tema del doppio portato all’esasperazione, copie su copie di noi fino a perdere la nostra unicità, con involucri di carne privi di organi e di anima pronti a essere trasformati in bambole gonfiabili per riportare l’ordine nel mondo e per combattere il male. Un male che si manifesta come un eccesso di erotismo, come una perdita di freni inibitori che nient’altro è che il bisogno di crescere dei giovani protagonisti, e di conseguenza il bisogno di ripartire di un Giappone ferito. Fra le righe della spumeggiante narrazione, Sono porta sullo schermo con la sua solita sfacciataggine la necessità di rompere con i costumi cerimoniosi e con la cultura della vergogna nipponica, forse l’unica possibile via per poter riscoprire le proprie radici e la propria cultura, per tornare davvero al ventre materno della società, per rifondarsi e per rifondare il Giappone e l’umanità tutta. Sarebbe infatti estremamente superficiale limitarsi all’apparente accezione negativa dell’eros, simbolo sì di dissolutezza, ma anche, come testimoniato dall’assenza di malvagità nel personaggio dell’insegnante sensitiva statunitense, unico rimedio all’avidità di un’umanità che sta distruggendo il mondo. Anche se, per rifondare il mondo, potrebbe apparire necessario distruggere l’umanità e ripartire da zero. Leggere a questo punto riferimenti alla centrale di Fukushima, conoscendo Sono, appare inevitabile: la natura sventrata, l’umanità sensitiva, in mutazione e in pericolo d’estinzione, gli adolescenti – come sempre in corsa, secondo la pluriennale poetica del regista – come la sola speranza cui aggrapparsi per il futuro.
La trama è semplice e scorrevole, e parte da una luce aliena giunta sul Giappone a fornire facoltà soprannaturali (la telepatia, la telecinesi, il teletrasporto, la precognizione, ma anche la capacità di creare copie vuote delle persone per i malvagi e di smascherarle per i buoni, fino al potenzialmente terribile potere di controllare i ricordi altrui) agli uomini. Condizioni necessarie per poter ricevere il dono, essere vergini ma al contempo in uno stato di eccitazione sessuale. Sion Sono, facendo aderire il proprio linguaggio su scenografie folli, animazioni su fondali green screen e ricostruzioni dello Spazio che piombano zoomando sul Giappone, mette in scena studenti dai genitori sull’orlo della ninfomania, gestori di bar tanto impegnati a millantare conquiste e leggendari amplessi da non rendersi più conto di non avere mai avuto una donna, pudiche studentesse scoperte a masturbarsi a causa dei poteri ricevuti, basi operative per i sensitivi dalle quali partire per salvare il mondo, purificatrici e liberazioni sessuali che piombano sulla città, insegnanti procaci e vestiti succinti, ma anche sogni portati avanti per tutta la vita, alla ricerca di un amore tanto perfetto che forse non può esistere. Fino ad una babele d’amore, in cui tutti cantano la canzone che sarebbe dovuta rimanere un segreto fra le anime gemelle, fra quei cuori legati dal patto prenatale. The Virgin Psychics sarà anche un Sono in tono minore, sarà anche un giocattolone, sarà anche un film meno denso di altre volte. Ma è un film con cui Sono, fra belle donne e pulsioni giovanili, prosegue il suo percorso libero e anarchico, divertendo e divertendosi delle sue piccole perversioni e delle sue grandi passioni. In fondo, quello a cui The Virgin Psychics punta è prima di tutto la normalità, un ritorno al punto di partenza, a quei momenti passati a immaginare il grande amore scegliendo a casaccio, fazzoletto alla mano, fra le conoscenze più conturbanti. In fondo, quello a cui The Virgin Psychics punta è l’assoluta e intima legittimità del farsi una sega in santa pace. E non possiamo che vederci del genio.
Marco Romagna