THE SUMMER IS GONE (2016), di Zhang Dalei
Chissà per quanti anni è maturato, il film d’esordio di Zhang Dalei. Chissà per quanto tempo il regista se lo è tenuto dentro, quante volte lo ha limato, quante volte lo ha modificato, quanto lo ha sentito crescere. E chissà quante volte, pensando alle rigide politiche censorie della Cina di oggi, il regista è dovuto scendere a compromessi pur di riuscire a portarlo a termine. Chissà quanto ha dovuto soffocare il suo afflato anticapitalista lasciandolo sullo sfondo e quasi fuori fuoco, chissà quanto si è dovuto staccare dalle sue idee originarie, chissà quante riscritture sono state necessarie per arrivare alla forma definitiva; e nonostante tutto non siamo affatto convinti che The summer is gone sia piaciuto più di tanto a Pechino, film d’atmosfera ben più che di soluzioni, affascinante anche nel suo essere non del tutto concluso eppure forse sin troppo lucido nel fare emergere pagine di Storia recente che generalmente si preferisce che rimangano chiuse.
Presentato in anteprima italiana alla prima edizione del neonato Alessandria Film Festival, il debutto del regista cinese è l’esplicito canto di una generazione, è un film che racconta la genesi socioculturale dell’ultima Cina, è un film di cambiamenti, personali e del Paese, declinati nel paradigma di un intimo racconto familiare che dosa con cura gli intenti autobiografici e quelli universali. È un romanzo di formazione, umano e generazionale, che oltre a quelle dei migliori cinesi tiene ben presenti anche le lezioni cinematografiche giunte negli anni dalla vicina Taiwan, riportando a tratti alla mente, seppur con minore potenza espressiva, quei ribollenti calderoni cinematografici di Edward Yang e Hou Hsiao Hsien nei quali tutti cercano, spesso invano, un proprio posto in un mondo che corre più veloce di chi lo abita.
La narrazione dell’estate del 1993, quando la Cina apriva al capitalismo e all’Occidente con la “nuova rivoluzione culturale”, con i videoregistratori, con le macchine fotografiche, con Il fuggitivo come primo film straniero in regolare distribuzione al cinema ma anche e soprattutto con la privatizzazione delle fabbriche e con i conseguenti licenziamenti degli operai che persero quasi ogni certezza, è affidata agli occhi del protagonista Zhang Xiaolei, alter ego del regista impegnato, esattamente come Dalei al tempo, nei suoi 12 anni, e ancora incapace di rendersi conto di quanto la sua stabilità – familiare e personale – fosse in bilico, minata dalla svolta epocale nella quale si stava imbattendo il suo Paese. A Hohhot, capitale cinese nella Mongolia centrale, quella del’93 è un’estate torrida, nella quale il ventilatore fa i capricci e le gocce di sudore sono come un secondo abito impossibile da sfilare, un’estate in cui la nonna si è ammalata, un’estate in cui il padre, impiegato “per la vita” nella macchina cinematografica statale, perde prima la possibilità di entrare gratuitamente al cinema portando con sé il figlioletto e poi (quasi) il lavoro sotto le animalesche regole del mercato.
Ma a Xiaolei tutto questo importa relativamente: è l’unica estate senza compiti, è l’ultimo vero vagito di infanzia prima dell’ingresso in collegio, ma è anche l’emergere dell’adolescenza, con le prime simpatie e con le prime delusioni, con la necessità di prendere decisioni e di sacrificarsi per portarle a termine. Non tanto con il superamento dell’esame per acquisire la patente per poter nuotare nelle piscine, ma con la scelta della scuola futura, il collegio dal quale dipenderà buona parte della vita. Lo sa bene la madre, insegnante e preoccupata, e se ne rende conto ben presto il padre, pronto a qualsiasi sacrificio economico compresa la richiesta di prestiti pur di accontentare un figlio che svolge svogliatamente i test d’ingresso, in sostanza non sa cosa vuole e non ha reali ambizioni, mentre la vita dell’intera famiglia sta rischiando di sgretolarsi.
The summer is gone, con i suoi attori non professionisti impegnati in grandi e piccoli riti di passaggio, è un film profondamente personale e spontaneo, una passeggiata nel solco della Nouvelle Vague sulla cinematografabilità della vita, un canto nostalgico e immersivo nel quale le piccole e apparentemente insignificanti esperienze personali hanno lo stesso peso degli stravolgimenti storici nella formazione di un individuo e nella sua crescita. È un’estate di appuntamenti in strada con gli amici, di fantasie più o meno proibite sulle gonne delle passanti, di gare di nuoto, di fotogrammi che prendono vita e di occhi spalancati verso il grande schermo del cinema, fabbrica di sogni e di emozioni ma anche apice della concretezza per chi ci lavora da tanto tempo con dedizione. Eppure, per il padre del giovane protagonista, i tanti anni di servizio presso una compagnia cinematografica statale, e le tante notti passate a guardare film americani più o meno clandestini in videocassetta per alimentare le proprie conoscenze e ambizioni artistiche, nulla possono di fronte all’avanzare delle ragioni del capitale, del ‘cane mangia cane’ del libero mercato, e la dissoluzione del suo posto di lavoro lo porterà a doversi inserire nel rutilare dell’economia a costo di fare la valigia e partire per lavorare sui set stranieri, a cottimo, lontano dal sogno di rifare Taxi Driver e da una famiglia alla quale spedirà il salario per tornare a casa solo quando possibile.
Perché The summer is gone, fra gli aneliti anticapitalisti nella delusione di un bambino lasciato per al prima volta fuori dal cinema ormai privatizzato e la profonda mestizia nostalgica di fondo testimoniata dal bianco e nero – ahinoi non sempre efficace, va detto, splendente nelle sequenze notturne quanto troppo smaccatamente digitale, pulito ma piatto e di pasta fastidiosamente televisiva in quelle diurne spartite fra toni leggermente seppiati e azzurrati – nel quale è fotografato l’intero film, trasuda il culto del lavoro che ha sempre contraddistinto la Cina, testimonia i sacrifici e la fatica del Popolo, è fedele alla più pura tradizione millenaria di regole sociali, eppure mostra al contempo anche come l’Occidente già esercitasse in queste generazioni di passaggio un fascino proibito nei suoi ritrovati tecnologici e nella sua babele di culture, nei suoi tavoli da biliardo e nelle sue risse “amichevoli”, nei suoi film così avanti rispetto a quelli che la Cina del tempo sfornava e forse anche proprio nei rischi di quella grande scommessa chiamata economia, nella sua possibilità di diventare ricchi ma anche di perdere tutto.
Nel procedere dell’estate forse più importante della vita, Zhang Xiaolei cresce esattamente come crebbe il regista e non certo a caso quasi omonimo Zhang Dalei. Ci sono i momenti ludici, le attrazioni, le responsabilità crescenti, c’è il momento in cui ci si rende conto che si sta deludendo una famiglia che non lo merita. Ci sono le decisioni, ci sono i momenti in cui ci si ritrova finalmente a parlare, ci sono le corse in bicicletta e i fotogrammi in 35mm srotolati in moviola nei quali appare brevemente lo zio. Si, perché soprattutto c’è il cinema, lente sulla Storia e scatola magica attraverso la quale passa tutto The summer is gone. Come se il cinema fosse l’unica possibile (difesa dalla) realtà, l’unico possibile sprazzo di colore dopo quasi due ore di bianco e nero, come se fosse l’unico possibile specchio retrovisore con il quale cercare di capire come la Cina di ieri è diventata la Cina di oggi, e come una generazione, quella stessa generazione “Che ci ha fatto nascere” alla quale il film è dedicato, si sia formata nelle sue contraddizioni, nelle sue certezze sfumate, nelle sue paure e nelle sue quotidiane lotte per la sopravvivenza, ma anche e forse soprattutto nelle sue “nuove” visioni sugli schermi e nelle sue vecchie e immutabili tradizioni di uomini disposti a sacrificarsi per la propria famiglia, per il proprio Paese e per la propria prole. Quasi come se la celluloide fosse un ponte di immagini e simboli fra l’essenza primigenia e l’aspirazione, fra il nunchaku con la catena in omaggio a Bruce Lee e il sogno delle pistole che Robert De Niro, diretto da Scorsese, impugnava dall’altra parte dell’Oceano.
In un certo senso, non è il protagonista a crescere, ma è la società che recapita al protagonista una nuova età e la necessità assoluta di maturare per adattarsi prima possibile. Come lo shock fanciullesco davanti alla prima capra sventrata e macellata: bisogna superarlo e andare avanti. Perché l’uomo, di fronte agli stravolgimenti della Storia e alla fine di un’era, rimarrà sempre un puntino in balia degli eventi, ma è pur sempre un puntino dotato di braccia, gambe e cervello, un puntino che non può fermare i cambiamenti del mondo ma che può fare appello a se stesso e alla sua capacità di sopportare per trovare un nuovo posto, un puntino artefice delle proprie fortune. E dei propri film, evidentemente, covati forse sin da quel momento e oggi finalmente realizzati. The summer is gone è un esordio forse imperfetto, non esente da istanti di sterilità, con qualche palese limite fotografico e di budget, con le ali evidentemente tarpate (o auto-tarpate, il che poi nella realtà censoria pechinese è più o meno lo stesso) nei suoi intenti politici. Eppure è un film estremamente interessante, il più possibile votato alla libertà cinematografica, intimamente sincero, sentito, umano, cinefilo. Un film da difendere senza starci troppo a pensare, parabola familiare che si pone come parabola della Cina degli anni Novanta, fra il sapore più agro che dolce del capitalismo di Stato e l’elegia di quello che non ci sarà mai più: un Paese in cui credere, l’infanzia da vivere, il cinema intorno a cui costruire ogni proprio sogno.
Marco Romagna