THE SQUARE (2017), di Ruben Östlund
The Square è un’installazione, un intervento artistico, una piccola porzione di spazio delimitata da lucenti tubi al neon, che il direttore dell’X-Ray Museum di Stoccolma Christian (il cognome non lo sapremo mai) considera uno dei fiori all’occhiello della nuova stagione museale. All’interno della Piazza regnano sovrani la confidenza e l’altruismo, e la scelta ossimorica dei termini non sembri casuale: la solidarietà imposta dall’artista (argentina) all’interno della sua opera è il perfetto contraltare della totale assenza sostanziale di questo sentimento/inclinazione nel mondo “reale”. Il cortile del museo, come quasi tutti i grandi luoghi pubblici del mondo occidentale, è occupato nei suoi bordi, nella sua “periferia”, da homeless che cercano di intercettare le frenetiche traiettorie di vita di alta e media borghesia, rimanendo quasi sempre confinati nell’indifferenza più totale.
Tutto il film, generosamente insignito della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2017, amplia a dismisura la semplice contrapposizione incoerente qui sopra esposta: la realtà iperfenomenica autogiustificantesi in ogni minima rappresentazione di sé, e l’arte impegnata a isolare ed estraniare piccole oasi di riflessione e umanità. Qui parliamo di arte contemporanea, però, molto più facile da satirizzare di qualunque altra manifestazione dell’intelletto, ed ecco che il manifesto dell’opera è completamente tracciato: il distacco dalla natura dell’uomo contemporaneo attraverso l’ironia corrosiva sul mondo museale e sul mecenatismo che lo alimenta, il ritorno al comportamento “animale” appena un piccolo contrasto pone in contrapposizione netta con qualcosa o qualcuno, e un protagonista continuamente in bilico tra due mondi e atteggiamenti speculari e contrapposti.
La cifra distintiva del regista svedese Ruben Östlund è quella di sottoporre i suoi protagonisti maschili a una dura prova che ne metta completamente in discussione il ruolo imposto dalla società, e che ne riveli la totale inadeguatezza. Nel precedente Forza maggiore un padre si metteva in salvo lasciando da sole moglie e figlia, non riuscendo nemmeno ad ammettere con se stesso il gesto nei momenti successivi all’evento traumatico (una valanga in montagna). Qui il nostro Christian (un bravissimo Claes Bang, l’attore rivelazione della rassegna cannense di quest’anno) ha di sé un’immagine idealizzata, un uomo colto, progressista, “civile” in ogni comportamento: basterà il semplice furto di un cellulare per scatenargli intorno una spirale sempre più avviluppante. Riuscirà a risalire al condominio dei colpevoli tramite il Gps ma, a quel punto, come fare ad andare avanti? Minacciare con una lettera anonima tutti gli abitanti del palazzo sperando d’intimidire e far confessare il colpevole non avrà forse devastanti effetti collaterali?
Poste queste premesse, indubbiamente brillanti e con un senso persino di “instant-movie” (solo Baumbach, forse, nel cinema odierno della “periferia” delle majors riesce a distorcere umoristicamente i cambiamenti del costume dando questa sensazione), l’opera potrebbe probabilmente adagiarsi su questo pugno di linee narrative e tematiche e condurle felicemente in porto. Ma è esattamente qui che Ostlund pecca di eccessiva ambizione, perché il film procede per accumulo costante e ripetitivo degli stessi moduli e finisce per girare a vuoto con il fine d’inserire tre sequenze chiave, probabilmente, nell’immaginario del regista, che ha ritenuto di “contenere” con momenti di alleggerimento continui, pena il drastico cambio di tono nella seconda parte. Qui si arriva al paradosso totale: le tre sequenze, appunto, più forti del lungometraggio sono posizionate nella seconda parte, quella meno riuscita. I cultori dell’estetica del frammento (consapevoli o inconsapevoli) possono prenderlo ad esempio, come un manuale (deteriore) fine a se stesso.
Analizziamo velocemente questi tre climax. Iniziamo con la sequenza del fugace incontro sessuale tra Christian e una giornalista (Elizabeth Moss), che aveva già messo in grande difficoltà con un’intervista il nostro protagonista in una delle scene d’apertura. E’ il momento, secondo noi, di passaggio al “dark side”: una scimmia entra nella camera senza provocare nessun effetto, né comico né di altro tipo, una stilisticamente insensata soggettiva della Moss durante l’amplesso, ed ecco che ci si ritrova spinti con la forza fuori dal flusso d’immagini precedentemente ben costruito. Il segmento si conclude con un lungo botta e risposta sulla questione preservativo (dove si butta? chi lo butta?) che può forse far sorridere ma che abbassa il livello di varie tacche sconfinando nella pura farsa.
Il secondo è quello per cui questo film sarà ricordato, e già ora viene ovunque illustrato (anche in questo articolo) con un fotogramma di questo momento. La LUNGA performance dell’attore Terry Notary nei panni di un uomo/scimmia, intervento anarchico e distruttivo che interrompe una cena di gran gala con la presenza dei ricchi sovvenzionatori dell’X-Ray. Si aggira tra i tavoli, ci sale sopra, tocca cibo ed invitati, perde la testa quando si sente sfidato e finisce per trascinar via una donna scatenando, solo e soltanto allora, la reazione delle decine di uomini in sala in abito da sera. Un vero gioiellino ma un totale “a parte” all’interno dell’opera, che isolato e tirato fuori dal contesto filmico acquisterebbe probabilmente forza invece di perderne. È questa la linea tematica più interessante e più risolta, l’isolamento borghese (ma anche, estensivamente, urbano) dal mondo e dalle leggi di natura, che possono però influenzare ancora profondamente la quotidianità al primo accenno di vero contrasto o difficoltà – ribadiamo per coerenza stilistica con Östlund, anche se noi del nostro lettore ci fidiamo.
Il terzo momento è quello della surreale resa dei conti con un ragazzino, offeso per essere stato accusato ingiustamente, lui e tutta la sua famiglia, del furto del telefonino di Christian. Un confronto teso che presto stempera il tono surreale, anche solo per l’innaturale sproporzione fisica dei contendenti, con una dignitosa e serissima rivendicazione di dignità popolare, inevitabilmente fuori contesto ma d’indubbia forza.
Östlund finisce per trattare il suo spettatore come uno dei commensali sconvolti dalla performance scimmiesca, inchiodandolo alla sedia per più tempo del dovuto, ripetendo ossessivamente gli stessi schemi, sollecitandone la reazione, non ponendo, insomma, alcun tipo di fiducia in esso. Se leggiamo The Square come un insistito gioco al massacro volto a demolire passo dopo passo il suo stesso fruitore, come una vertiginosa fusione di stile ed intenti, potremmo considerarlo una provocazione anche riuscita. Ma siamo sicuri che un’operazione di tal fatta, impregnata a conti fatti dello stesso snobismo e falso moralismo che apparentemente mette alla berlina, sarebbe stata rigettata con perdite da addetti ai lavori e giuria in passate edizioni del festival cinematografico (ancora) più importante al mondo.
In un’annata con un Concorso Ufficiale controverso, poco brillante e dal tracciato piatto più che dall’alterna qualità delle opere, la giuria presieduta da Pedro Almodòvar ha preferito premiare il coraggio dello sberleffo, il tentativo di capire il contemporaneo attraverso chiavi grottesche, l’attentato (fallito) alla confezione festivaliera. Se il livello della presunta satira, a tratti, non andasse davvero molto oltre la parodia populista stile Alberto Sordi con consorte alla Biennale in “Dove vai in vacanza?” avremmo anche potuto avallare la provocazione. Con David Cronenberg Presidente di Giuria il festival di Cannes, per “provocare”, premiava i fratelli Dardenne e Bruno Dumont. Permetteteci di rimpiangere quell’epoca e quei premi senza risultare sterilmente passatisti.
Donato D’Elia