THE SON (2022), di Florian Zeller

Cosa significa essere padre? Come essere un buon padre? Sono domande che si pongono in molti. Significa non ricadere negli errori dei propri genitori? Significa fidarsi dei propri figli anche nei momenti di maggior loro vulnerabilità? Significa amarli fino a dimenticare cosa sia meglio per loro? Il nuovo film di Florian Zeller, secondo adattamento da una sua pièce, si concentra su rischi e incertezze che si incontrano nell’aiutare e amare qualcuno in evidente stato di fragilità, ormai incapace di rispondere di sé stesso. Presentato alla 79a edizione della Mostra del Cinema di Venezia, The son vuole ridestare le coscienze sul tema complesso quanto delicato della salute mentale, in Italia ancora ampiamente stigmatizzato. Da questo punto di vista, la pellicola di Zeller appare necessaria, inevitabile persino nel panorama contemporaneo, ma in fin dei conti priva di coraggio e forza narrativa. Il tema, dalle molteplici potenzialità, appare levigato, quasi censurato. The Son avrebbe potuto, e avrebbe dovuto, essere più radicale, come l’esordio di Zeller The Father (che ‘entra’ nell’esperienza dell’Alzheimer invece di fermarsi a raccontarne l’impatto sul nucleo familiare); il suo autore avrebbe potuto spingersi oltre i confini del già visto e sentito mostrando la crudezza di un dramma contro cui ogni sforzo umano e l’amore stesso sembrano non poter nulla, scavando così nel profondo di un’afflizione interiore che corrode inesorabilmente l’Io. Manca la gioia, manca il dolore, quello vero che penetra nelle ossa, che fa uscire dalla sala appesantiti, incapaci di scrollarsi di dosso quel mantello scuro sulle spalle incurvate. La malattia mentale, oggigiorno uno dei temi più delicati e tuttora inesplorati, si riduce in The Son a una prova registica e attoriale pacata quanto scontata. Il figlio, Nicholas, rimane un personaggio ridotto quasi a figura stereotipica del depresso che si ripete in vuoti discorsi, incapaci di trasmettere l’angoscia che egli prova, facendosi portavoce di un dolore sordo che le sue parole non riescono a veicolare né il film a mostrarci. E la malattia mentale resta così un semplice pretesto narrativo, esplorato soltanto attraverso cliché di genere e scontati colpi di scena.
A troneggiare al centro del racconto non è, dunque, il doloroso tema della depressione o della malattia mentale, bensì l’impossibilità di una comunicazione intergenerazionale, incarnata dalle tre figure maschili: Nicholas, il figlio, Peter, un Hugh Jackman nei panni di avvocato affermato e del padre pieno di rimorsi, e, infine, un magistrale Anthony Hopkins a sua volta padre antitetico nel suo totale disprezzo per i bisogni del figlio Peter. Motore narrativo che lega i quattro personaggi in una spirale di accuse, auto assoluzioni e rimpianti, è proprio il senso di colpa, atavico e apparentemente inscindibile dal ruolo di genitore, come impresso inconsapevolmente con il primo vagito. Il senso di colpa muove il personaggio di Hugh Jackman, vero protagonista del film, ne motiva le scelte e ne giustifica le relazioni umane. Quel senso di colpa tramandato di generazione in generazione, sorta di colpa ancestrale, maledizione ereditaria, trasmessa da quel padre assente e narcisista che è il personaggio di Hopkins. La vera domanda che Zeller sembra porsi con questa nuovo film non è, infatti, come aiutare persone afflitte da disturbi mentali, ma piuttosto come non ricadere negli stessi errori dei propri genitori. Ed è nel fare questo che Peter segna la propria sconfitta, in quanto genitore troppo accondiscendente, privo di una propria identità e ancora schiacciato dall’ingombrante ombra paterna. 

Pellicola scritta e diretta da un uomo, in cui prevale dunque una visione fortemente maschile, nella quale l’amore di una madre, più viscerale, intuitivo, spesso insondabile, viene lasciato in ombra. Così la figura materna, resa da una Laura Dern sempre elegante, appare surrogata al personaggio di Hugh Jackman, afflitta più dal suo fallimento di donna e moglie che dal dolore di un figlio di cui non comprende a fondo l’urlo disperato. D’altra parte, la seconda moglie, interpretata da Vanessa Kirby, fatica a trovare il suo ruolo, muovendosi come catalizzatore drammatico per poi sparire completamente dalla scena.
Allo stesso modo, la figura di Peter si risolve in quella di un uomo incerto, incapace di vivere la nuova vita con la nuova famiglia che si è scelto, convinto di poter risolvere la malattia del figlio attraverso un discorso paternalistico e una pacca sulla spalla. Persino il suo conflitto interiore, che si esplicita nel sacrificio che è disposto a fare per il figlio, non viene esplorato, e rimane una frase abbozzata sulle bocche degli attori. Del suo personaggio non si coglie la conflittualità, quell’oscillazione ontologica tra volere e dovere. La sua relazione con il figlio malato si riduce a un idillio di ricordi di una vacanza in Corsica, quella col suo vecchio padre in una breve sequenza, forse unico climax narrativo di tutto il film grazie al cameo perfetto di Anthony Hopkins.
Di forte matrice teatrale, The Son si rivela dramma di parola dove l’azione scenica è quasi nulla: claustrofobico, girato per la maggior parte al chiuso in micro universi in cui i quattro personaggi principali si avvicendano in un gioco di rispecchiamenti, rimpianti e illusioni. Anche i momenti di maggior tensione drammatica ed emotiva si risolvono, tramite una regia inesperta, in espedienti artificiosi (quali flashback e sequenze in ralenti o oniriche) e persino posticci. Il finale, pianificato e ingenuo, è dunque forzato, come seguisse un copione da manuale (in questo caso le regole di Čechov), piuttosto che una reale ricerca di verosimiglianza. Il film, o se si vuole il copione, pecca di didascalismo verbale che vorrebbe indurre nello spettatore sentimenti ed emozioni che non è in realtà in grado di trasmettere, restando su toni freddi e monocromi, privi di reale forza drammatica. Mentre il film si afferma solo per il tema da facile patetismo, mancando di forma e di scrittura persino nel trasmettere il suo ultimo messaggio: amare qualcuno può non essere abbastanza.

Anna Chiari