Quello di Ben Rivers è un cinema che non si impone libertà né la (di)mostra, bensì la cerca e cerca di parlare della sua ricerca. Con la co-regia di Ben Russell, l’autore aveva già fatto esplodere il proprio desiderio liberatorio con A spell to ward off the darkness (2013), opera spirituale e misteriosa che si fonda sul conflitto interiore di un individuo (il musicista Lichens) che cerca la pace e la trova nell’idea del processo stesso della ricerca della pace, quando riesce a dare l’impressione di essersi separato dal proprio corpo e dal peso di appartenere ad un film, ad un cinema, scomparendo nel buio. The sky trembles and the Earth is afraid and the two eyes are not brothers, con il suo titolo prolisso degno di un brano dei Godspeed You! Black Emperor, in concorso a Locarno68, non è che un ennesimo tassello dell’intenso puzzle che Ben Rivers ha lavorato duramente per costituire.
Il film, visivamente potente di primo impatto a causa di un uso del colore indistinto e quasi astratto, è in realtà invalutabile: la stampa in pellicola del film è uscita con sfumature che non sono quelle che Rivers desiderava, e addirittura la versione in qualità dvd visibile sui computer della libreria digitale del festival parrebbe più fedele all’idea del regista. L’opera tuttavia è tra le più interessanti del concorso di Locarno68, ma semplicemente perché si discosta parzialmente dal processo evolutivo dell’opera del suo autore, pur rimanendo sugli stessi binari concettuali, non perché ci sia qualcosa di effettivamente innovativo nella sua formula. In Two years at sea (2011) Jake vagava recluso nel bosco con il sogno del mare, di una libertà che potesse superare quel poco di individualità autoimposta non funzionale. Era un mondo in bianco e nero pregno di umidità e solitudine ascetica. A spell to ward off the darkness nella sua tripartizione esoterica mostrava un processo di estraniamento completo (in più fasi), inserendo esseri umani come contorno, quasi costituendo una ricerca di una libertà diversa e condivisa. In entrambi i film la risoluzione non è immediata e anzi è oscura, inintelligibile, mentre nell’ultima opera di Rivers l’evento conclusivo è chiaro ed è palesemente di un pessimismo anarchico disarmante rispetto a ogni cosa che abbia fatto prima.
The sky trembles and the Earth is afraid and the two eyes are not brothers è di gran lunga il film più convenzionale del regista, infatti, nonostante una narrazione divisa in due, documentario e film di finzione, simile a quella dei suoi film precedenti. La prima parte del film è dedicata a Oliver Laxe, un regista che interpreta il ruolo di un regista alle prese con il suo ultimo lavoro, mentre gira in Marocco: è il vero making of dell’ultimo film di Laxe, e le riprese si sono effettuate a marzo di quest’anno. La seconda parte del film invece è di pura finzione ed è tratta da un racconto di Paul Bowles, A distant episode (1947), in cui un linguista viene rapito, menomato e venduto come servo e giullare di una tribù, che lo veste di metallo e lo costringe a ballare per il divertimento del loro capo. Le fasi di dialogo sono limitate, ma tutto sommato (per la prima volta per Rivers) ci si può arrendere di fronte ad una struttura davvero narrativa. Laxe qui è più che mai un alter-ego di Rivers: abbandona il set del proprio film per dedicarsi alla contemplazione, andando in macchina con le musiche del succitato Lichens nello stereo, e viene asservito, mostrificato. Non è più un uomo con limiti nella ricerca della libertà, è ormai un individuo che viene completamente chiuso e distrutto dal mondo esterno. Non a caso, dopo due lungometraggi prevalentemente umidi e acquei, si passa ad un film arido, in cui la terra sovrasta l’acqua, l’aria e il fuoco, in cui tutto sembra puntare verso il basso e non verso l’alto, anche il Sole che tramonta nell’ultima inquadratura. È probabilmente l’opera più pessimista di un autore che ha sempre parlato di un’aspirazione, di un processo continuo (e lento) senza fine. E anche qua la fine non c’è, nonostante ve ne sia l’illusione: il processo di ricerca di Rivers non è ancora giunto ad una conclusione, e continuerà a vagare imperterrito senza una meta definita, come un eremita visionario, qualsiasi cosa succeda – anche nel caso finisca anziano e solitario nei boschi, o musicista nel buio, o ricoperto di metallo, in corsa per il deserto.
Nicola Settis