La prima impressione – e quindi, per sua stessa natura, sbagliata – quando si assiste alla proiezione di The Sisters Brothers di Jacques Audiard è che anche il celebrato autore Palma d’Oro per Deephan (ma che a noi piace ricordare per i due ben più memorabili titoli precedenti, Il profeta e Un sapore di ruggine e ossa) sia stato irretito dalle sirene del grande cinema americano, dalla possibilità di avere a disposizione un cast stellare con assidui frequentatori della notte degli Oscar, dai fondi ingenti che possono, paradossalmente, significare schiavitù. Come se ciò non bastasse, è circolato un trailer nei giorni scorsi che faceva sembrare The Sisters Brothers – in uscita in Italia nel letterale I fratelli Sisters – una specie di commediola in salsa western, con due micidiali ma balordi e improbabili cowboy, che cadono goffamente da cavallo e passano il tempo a farsi i dispetti invece che uccidere i nemici. E invece, per fortuna, Jacques Audiard ha piena consapevolezza dei propri mezzi autoriali, ai quali si aggiungono anche spiccate doti cinefile che i francesi acquisiscono quasi geneticamente, visto il patrimonio di studio, ricerca, critica e riscoperta che hanno fatto illustri predecessori, che manco è il caso di elencare. La cinefilia francese, si sa, è una forma di amore per le opere e per i rispettivi autori che va al di là dell’accettazione aprioristica, acritica, da fan sfegatati senza spirito di osservazione (atteggiamento deleterio che oggi, nell’era dei social, sembra l’unico possibile, in uno scenario di desolazione e inaridimento intellettuale, ma questa è un’altra storia…). Si passa sempre attraverso un’acquisizione profonda dell’opera, un metabolismo creativo che permette di apprendere la lezione di maestri d’eccezione e utilizzarla come cartina al tornasole delle proprie idee stilistiche, estetiche, finanche morali, uno studio approfondito dell’opera altrui per far luce sulle proprie capacità e esigenze espressive, uno stagno in cui rispecchiarsi, fatto di immagini, suoni, luci. Non a caso, è stato proprio Audiard, all’ultimo festival di Cannes, a moderare l’incontro con Martin Scorsese nell’ambito della Quinzaine des Réalisateurs.
Ma, tornando a The Sisters Brothers, per sommi capi ne possiamo elencare la serie di avvenimenti: siamo nell’Oregon del 1851, e i fratelli Sisters (già una dissacrazione, e siamo solo al cognome dei protagonisti) sono due banditi che vagano per il selvaggio West seminando terrore, vendetta, piombo per conto di un misterioso personaggio che prende il nome di Commodoro. Sono interpretati da John C. Reilly (che è la vera mente responsabile del progetto di questo film: è stato lui ad aver acquistato i diritti del romanzo di Patrick deWitt, e sempre lui ad avviare la produzione) e Joaquin Phoenix, il più giovane e scapestrato dei due, scettico verso i progetti del fratello di appendere le pistole al chiodo e cominciare finalmente una vita onesta e dignitosa. La loro missione è di trovare un tizio di nome Warm, il quale si presenta viscido, strisciante, furbo; riesce a campare più di quanto ci si aspetterebbe solo perché afferma di avere una formula chimica per far luccicare l’oro sui letti dei ruscelli, rendendone facilissima l’identificazione e immediata la raccolta, e come se non bastasse millanta anche idee progressiste, parlando come un predicatore di una società basata sull’educazione e sulle leggi dell’economia da stabilirsi in un luogo ben preciso: Dallas (in sala, molte risate. Amare). A mettersi sulle tracce di questo balordo, interpretato dal bravo Riz Ahmed (lo ricordiamo per la serie The Night Of), è John Morris (Jake Gyllenhaal, sempre encomiabile), una specie di cacciatore di taglie con velleità di scrittore, che però prende una decisione che mette pericolosamente a rischio il rapporto coi Sisters. Seguono sviluppi. Jacques Audiard mette sul piatto una serie di elementi ben noti agli amanti del genere, a partire dall’amicizia virile – che qui è fratellanza, e già il senso vira lievemente verso qualcos’altro che il regista è bravo a sottolineare con gesti inattesi di grande tenerezza, con la sua macchina da presa vorace con lenti anamorfiche, come la scena in cui il fratello maggiore taglia i capelli al fratello minore con l’accortezza che avrebbe una madre con il suo bambino. Ma c’è anche il rapporto dell’uomo con la natura, sottolineato dalla scena della caccia all’oro (la seconda volta che ne vediamo una a questo festival, dopo le peripezie di Tom Waits in un episodio del film dei fratelli Coen: il duello a distanza, però, lo vince Audiard) e da un altro avvenimento che giunge inatteso nello sviluppo della storia e che è una novità assoluta nel panorama dei film western: l’apparizione del mare.
Per non parlare, poi, di un altro momento del film che contiene una piacevole novità, e cioè la comparsa della città di San Francisco, che finalmente sdogana il paesaggio urbano entro i confini di un genere relegato a villaggi di poche catapecchie, boschi, deserti e sentieri fra le montagne. A poco a poco, grazie a piccole tracce come questa, che vanno dall’aulico fino al culto dell’ammennicolo, come la scoperta da parte di John C. Reilly dello spazzolino da denti (altra cosa che non abbiamo praticamente mai visto), fino a una toccante scena di mutilazione (che rimanda a quelle di Marion Cotillard in Ruggine e ossa), l’autore Audiard fagocita il film di genere imponendo il suo sguardo, le sue ossessioni, il suo stile, compie un’autoanalisi artistica attraverso un genere canonizzato. Ma quella a fare dei rimandi a se stessi e alla propria opera, che è già una pratica letteraria ben assorbita dagli autori moderni, non è forse una tendenza già da tempo entrata nell’uso comune anche nella giovane arte del cinema, e non ce ne ha dato dimostrazione questo stesso festival di Venezia, con Cuarón che fa vedere alla tv un film con due astronauti persi nello spazio ai protagonisti del suo film Roma, oppure con il film di Assayas, che prende affettuosamente in giro se stesso e gli altri con una acrobazia meta-cinematografica, facendo parlare di Juliette Binoche a… Juliette Binoche? Insomma, chissà la giuria, il tempo e infine la distribuzione in sala quanto renderanno al merito a The Sisters Brothers, ma il film apre a tante riflessioni, e il cinema che oltre a divertire fa anche pensare è sempre, sempre il benvenuto.
Elio Di Pace