THE SHROUDS (2024), di David Cronenberg
Arrivare ad un punto della carriera in cui ci si può permettere di tirare continuamente le redini per mettere un punto definitivo al discorso, punto definitivo che (per fortuna) si continua a rimandare, è roba per pochi e per grandi. Di questo ristretto gruppo fa sicuramente parte il canadese David Cronenberg, che a soli due anni di distanza da Crimes of the Future, terminale punto d’arrivo che portava il concetto di “nuova carne” ad approdi al contempo ipercontemporanei e futuristici, torna in Concorso a Cannes con The Shrouds, trascendendo il concetto stesso per estenderlo al post mortem. Nella nuova società dello spettacolo anestetizzata e solipsista la carenza di legami emotivi solidi ha come risultante l’attaccamento morboso a quelle (poche) esperienze davvero significative, siano esse sentimentali o solo amicali. Attaccamento (e desiderio) che rifiuta il concetto stesso di morte per operare un continuo re-enactement anche delle spoglie e dello scheletro, consultabili e guardabili a proprio piacimento nella loro continua, infinita mutazione. Karsh (Vincent Cassel, costruito in questo caso e a partire dalla caratteristica pettinatura come un vero e proprio alter ego del regista) ha avuto un’idea imprenditoriale innovativa: allestire un cimitero, il GraveTech, dove le lapidi fungono da vero e proprio portale di connessione con il caro estinto, ancora osservabile tramite uno schermo e con una telecamera che permette di esplorare le tre dimensioni, di trapassare la gabbia toracica, di osservare da presso il biancore delle ossa. Il camposanto è situato nel cortile di un ristorante, ed ecco che capitalismo ed esistenza trovano una nuova forma di interazione. D’altra parte, il cimitero non è già una sublimazione capitalistica in cui vanno pagati affitto e corrente elettrica anche a trapasso avvenuto? Cronenberg, come spesso accaduto nella sua carriera, mostra soltanto le estreme conseguenze di quello che già esiste, sia che si parli di homo televisivus (Videodrome), che di videogiochi interattivi (eXistenZ) o torbido rapporto con il connubio automobile/schianto della stessa (Crash) e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Nel futuro indefinito di Crimes of the Future, la nuova umanità nasceva dall’incorporazione e contaminazione della plastica con il tessuto connettivo, un adattamento evolutivo combattuto pervicacemente dai non iniziati; in The Shrouds, l’esistenza stessa del GraveTech apre tutta una serie di questioni destinare inevitabilmente a rimanere senza risposta. È morale vendere tramite app e lapidi high-tech un attaccamento a qualcosa che non esiste più, quantomeno nella forma amata? O si tratta solo della volgarizzazione in salsa economicista del concetto di trapasso? È questo un mondo dove la moralità ha ancora un senso? In un film prodotto da Saint Laurent e rigonfio di Tesla con marchio in favore di camera, è piuttosto chiaro quanto Cronenberg stia affrontando tutte queste domande ponendosi in dialogo aperto con figure come quella di Elon Musk, sviluppatore di alcune fondamentali tecnologie per il futuro della razza umana in virtù del solo capriccio personale e di un capitale investibile potenzialmente infinito. Il mondo, in sintesi, è ostaggio delle esperienze affettive e di vita di un pugno d’imprenditori, e anche l’artista non può estraniarsi (non l’ha mai fatto nell’intera storia dell’arte) da questo neomecenatismo: come Karsh, anche Cronenberg ha perso l’amatissima moglie da qualche tempo, e il film non è altro che la sublimazione proiettiva di quel dolore attraverso il sogno/incubo collettivo del Cinema.
La sceneggiatura (necessariamente molto) verbosa sottolinea per contrasto quanto nulla o quasi possa risolversi con il solo ragionamento, che ingarbuglia invece di sbrogliare, che sposta e disperde l’attenzione invece di focalizzarla. Sono infatti un pugno di mirabili sequenze visive a rimanere impresse nella memoria, messe a puntello di una concettualizzazione che sarà dai più rifiutata in toto, ci scommettiamo fin da ora. La panoramica delle lapidi, i sogni in cui l’amore perduto (Diane Kruger, che in un doppio ruolo “twinpeaksiano” interpreta anche la sorella gemella della defunta) ritorna dalla morte, la sequenza finale dove non ha più alcun senso, se mai ce l’ha avuto, la divisione netta tra i due mondi, il cosciente e l’incosciente. Momenti di pura emotività sposata alla creazione artistica, alla composizione dell’immagine, il vero linguaggio con cui il regista dialoga con il pubblico e, di conseguenza, con il mondo. Quando un atto vandalico danneggia pesantemente il GraveTech, ecco che le ipotesi di colpevolezza si moltiplicano: sono stati degli ecologisti contrari al procedimento, una potenza straniera che vuole acquisire la tecnologia o solo un fratello geloso pieno di risentimento? Macro e micro, pubblico e privatissimo, tutto inestricabilmente avvoltolato in un’unica matassa, tutto comunque solo rumore di fondo rispetto al dolore supremo, che non permette di continuare a vivere ma solo di trascinare l’esistenza giorno dopo giorno. Un film afasico e ribollente, freddo e caldo: questa volta Cronenberg non seziona la materia narrata con il bisturi ma posa uno sguardo (più) tenero su un pugno di personaggi irrimediabilmente perduti, che come in Maps to the Stars hanno perso la terza dimensione, esclusivo appannaggio dell’esplorazione necrofila delle salme che il cimitero permette. Merita la citazione anche Guy Pearce, che in un monologo a favore di camera esperito attraverso lo schermo di uno smartphone (e quindi doppiamente inquadrato) ci ricorda inevitabilmente altre contaminazioni significanti con le (non più) nuove tecnologie, come nel caso delle ultime opere di Michael Haneke (Happy End) e Brian De Palma (Domino), dove attraverso la mediazione del supporto si osservavano laceranti drammi privati e attentati terroristici, tra l’altro proprio sulla Croisette e sul red carpet (già in Femme Fatale De Palma aveva immaginato una vertiginosa sequenza d’apertura ambientata all’interno del Palais cannense durante una prima). E si torna proprio a quanto si diceva nelle battute iniziali, con tre artisti che portano a compimento il lungo percorso autoriale (si spera sempre che non sia definitivo) permettendosi di ragionare sullo statuto ontologico della propria opera all’interno delle singole sequenze, permettendo quasi di sganciarle dal contesto senza che perdano forza: non è forse questo il tentativo più autoriale possibile d’incorporare la TikTokizzazione della produzione audiovisiva in un discorso più composito? Non è forse l’ennesimo segnale che la fertilità creativa e la comprensione del contemporaneo sono elementi totalmente indipendenti dalla collocazione anagrafica del loro autore? E non è forse questo, a tre anni dal corto The death of David Cronenberg in cui il genio canadese distrutto dalla perdita della moglie aveva anticipato la propria stessa morte con cui seguirla, il film più doloroso e straziante dell’intera selezione di Cannes77, quello che più continua ad amare e a desiderare struggente e ossessivo anche nella perdita (e nella mutilazione), quello che meno si arrende, continuando ad anteporre i sentimenti alla realtà? In conclusione, The Shrouds è insieme un’opera ripiegata su se stessa e apertissima al dialogo; molto difficile che possa rappresentare un punto d’ingresso nella filmografia di Cronenberg, ma per chi segue da sempre il genio canadese è un tassello che s’inserisce perfettamente nel mosaico. Le ossa delle salme sono ancora infettate da un virus/batterio misterioso: che sia proprio l’infettarsi/essere infettati l’ultimo lacerto di vita, il vero modo di sconfiggere la mortalità? Ai posteri, finzionali e non, l’ardua sentenza.
Donato D’Elia