Una rassegna su John Wayne come quella proposta dal 41esimo Torino Film Festival, nell’ambito della sezione Mezzogiorno di Fuoco, non poteva prescindere da un titolo come The Shootist, in italiano Il pistolero, ultimo film interpretato dall’attore dell’Iowa, nel 1976, tre anni prima di morire. Bastano i primi fotogrammi a capire come l’intero lungometraggio si presti a diventare una celebrazione di Wayne, di cui viene riproposta la carriera con un interessante espediente metatestuale: nel raccontare le gesta di John Bernard Books, il protagonista del film, vengono passate in rassegna le immagini dei precedenti film di Wayne, facendoli passare per il resoconto visivo della carriera del pistolero. Finita quella (breve) carrellata si giunge quindi al presente narrativo: siamo nel 1901, nei giorni immediatamente successivi alla morte della regina Vittoria, un evento che chiude un’epoca e apre le porte al Novecento. L’intento di Don Siegel, che cita esplicitamente l’avvenimento, è evidentemente quello di proporre una comparazione tra la morte della regina che chiuse l’età vittoriana (il periodo con cui passerà alla storia il suo regno, durato quasi sessantacinque anni) e la fine dell’epopea western vista mediante il crepuscolo (e la morte, ma lo scopriremo alla fine del film) dei suoi protagonisti. In tal senso, Il pistolero è il classico western crepuscolare, come se ne incominciavano a vedere a bizzeffe negli anni della New Hollywood (da Butch Cassidy ai film di Peckinpah, giusto per fare qualche nome). Indicativa, in tal senso, l’ambientazione all’inizio del ventesimo secolo, in un mondo in cui iniziano ad affacciarsi le novità tecniche e tecnologiche che domineranno il Novecento (l’automobile, di cui si vede uno dei primi esemplari; oppure l’annunciata elettrificazione del tram, per il momento ancora trainato da cavalli – ma già la presenza del tram a cavalli è indicativa di un certo sviluppo urbano).
Siamo a Carson City, capitale dello Stato del Nevada, sulla strada per la California, non troppo lontano da Las Vegas. Non è una città qualunque, visto che il suo nome omaggia l’esploratore Kit Carson, una delle icone del Far West. Qui giunge J.B. Books per farsi visitare da un suo vecchio amico, il dott. Hostetler (James Stewart), affinché gli confermi o meno la nefasta diagnosi avuta da un altro medico: Books ha il cancro e gli restano pochi mesi di vita, forse poche settimane. Ma Books è arrivato a Carson City anche e soprattutto per un altro scopo, che si intreccia con il primo: vendicarsi, prima di morire, di tre suoi vecchi nemici. Nell’attesa dell’una (la morte) e dell’altra (la vendetta), Books affitta una camera nella locanda della vedova Rogers (Lauren Bacall). Il figlio della vedova, Gillom (Ron Howard), è un ammiratore delle gesta di Books, che tuttavia non riconosce quando incontra per la prima volta. E d’altro canto si fa fatica a riconoscere John Wayne nella prima inquadratura che Siegel propone del Books invecchiato, a chiusura di un long take che inizia con un campo lunghissimo in cui il pistolero si avvicina a cavallo, poco alla volta, alla macchina da presa. Il volto stanco, chiaramente malato, di Books/Wayne è davvero poco riconoscibile, anche (e forse proprio) a causa di quella carrellata di immagini che pochi istanti prima aveva ricordato l’attore nella sua gioventù o comunque nella sua maturità. Wayne stava realmente male in quel periodo, ha una bruttissima cera che il trucco non riesce (e forse non vuole nemmeno) addolcire. Fatica a salire e scendere da cavallo e Siegel non risparmia allo spettatore di partecipare a quella pena, mostrando J.B. Books smontare dal suo destriero con l’ausilio di una scaletta.
The Shootist è un vero e proprio testamento cinematografico di Wayne. Mal tollerato è J.B. Books al suo arrivo a Carson City, soprattutto dopo che viene resa nota la sua vera identità, così come mal tollerato era Wayne da una parte dell’America degli anni Settanta. Wayne era del resto un fervente conservatore in un mondo, quello dello spettacolo, che in quegli anni si stava spostando – e definitivamente si sposterà – verso una chiara maggioranza leftist. Wayne era del resto un indomito provocatore (soltanto due anni prima, nel 1974, si era recato a bordo di un carro armato a ritirare il premio ironicamente assegnatogli dalla rivista satirica Harvard Lampoon); era schierato a favore della guerra in Vietnam negli anni in cui la protesta contro l’escalation americana in Indocina montava un po’ ovunque (e la sua attività di propaganda reazionaria fu oggetto del suo secondo – e ultimo – film da regista accreditato, Berretti verdi). Eppure, Wayne era amato dai cinefili anche più intransigenti – come ci ricorda la frase di Jean Luc Godard scelta dal TFF per il poster della quarantunesima edizione («Come posso io odiare John Wayne e poi amarlo teneramente quando prende improvvisamente in braccio Natalie Wood negli ultimi minuti di Sentieri Selvaggi?») – anche (e forse proprio) per le sue contraddizioni. Era stato del resto un personaggio per certi versi progressista, se vogliamo, nei primi western girati con John Ford: in Ombre rosse si scagliava contro l’ipocrisia (e la misoginia) scatenata nei benpensanti dalla prostituta Dallas; nella trilogia della cavalleria (Fort Apache, She Wore a Yellow Ribbon, Rio Grande) era l’ufficiale più moderato e ragionevole, uno dei pochi che manteneva un approccio rispettoso e paritario con gli indiani, con cui cercava di scendere a patti (in ciò anticipando quella che sarà la svolta dei western della New Hollywood, quando le ragioni degli indiani verranno proposte in maniera finalmente più incisiva). Non è un caso, quindi, che Wayne, poco prima di morire, nel 1979, riceverà una convinta e toccante standing ovation nel giorno in cui premierà con l’Oscar al miglior film Il cacciatore di Michael Cimino, opera chiaramente antimilitarista, ennesima contraddizione di un mondo, quello della Hollywood degli anni Settanta, tutt’altro che intransigente.
The Shootist si pone dunque in questo solco, non a caso riportando James Stewart (pure lui, peraltro, invecchiato piuttosto male) accanto a Wayne tre lustri dopo L’uomo che uccise Liberty Valance – anche se questa volta come personaggio secondario e defilato. Pure quella, ovviamente, un’opera essenziale (e crepuscolare), un’opera che mette la parola fine all’Ottocento e apre le porte a una nuova era. The Shootist si chiude con una sparatoria che metterà fuori gioco il protagonista e i suoi tre nemici: non è (più) un paese per pistoleri, sembra volerci dire Siegel; sicuramente non lo è l’America di inizio Novecento che si prepara a entrare nella modernità. Gli uomini dal grilletto facile, che hanno conquistato l’Ovest nel diciannovesimo secolo, si estinguono con le loro stesse mani. Resteranno i giovani, che con quel mito sono cresciuti, ma che sono pronti a guardare avanti: il Gillom di Ron Howard getta via la pistola sotto lo sguardo di J.B. Books che, morente, esprime con un cenno la sua approvazione.
Vincenzo Chieppa