LA FORMA DELL’ACQUA (2017), di Guillermo Del Toro
Possiamo notare due grosse tendenze nel cinema d’intrattenimento autoriale odierno: la tendenza a essere liberali e la tendenza a essere eccentrici. Guillermo Del Toro, gigante buono, è un cantastorie, un autore favolistico a cui è difficile non voler bene a causa dell’enorme cuore che mette in ogni suo progetto. Anche se, a volte, i suoi progetti falliscono per piccole problematiche interne e di produzione, a partire dal mancato futuro del dittico di Hellboy, cominciato con un cinefumetto originale il cui seguito, The Golden Army, è annoverabile tra i migliori film supereroistici per pathos e senso dell’ironia, ma l’ipotetico terzo capitolo della trilogia non vedrà mai la luce se non con cast & crew radicalmente diversi. Col fallimento della saga, forte anche dell’enorme successo di critica di Il labirinto del fauno (2006), lo spagnolo autore-bambinone, troppo spesso paragonato probabilmente con ingiustizia al collega statunitense Tim Burton, ha avviato una serie di film sconnessi dai franchise più pop del mondo dei blockbuster hollywoodiani, come avviando un proprio percorso personale attraverso un’ideale riscoperta del cinema di genere e della potenza del racconto. Possiamo forse parzialmente escludere Pacific Rim (2013) da questa serie di opere poiché comunque dovrebbe avere dei seguiti, pur non curati personalmente da Del Toro, ma Crimson Peak (2015) e questo The Shape of Water sotto certi punti di vista sono opere complementari. Se il primo recupera determinate idee dal cinema gotico, anche qui aprendo paragoni con Tim Burton nonostante sia probabilmente più giusto riecheggiare Corman e Bava, il secondo invece si rifà all’horror americano di classe, quello dei mostri lagunari e del vudù espressionista che ci ricordiamo in maniera particolarmente vivida anche grazie ai film di Tourneur visti di recente a Locarno. The Shape of Water, difatti, procede come una storiella di quelle che andrebbero trasmesse oralmente, un mito atto a giungere alla propria conclusione con una morale, ma invece che procedere verso un evidenziarsi dell’aspetto “sentimentale” della trama piomba nel sentimentalismo sensoriale, lascia sempre meno spazio alla curiosa e studiatissima scenografia e sempre più spazio al sentimento, al romanzo, al poema epico in cui la gentil donzella è protagonista assoluta, coraggiosissima.
Se Il labirinto del fauno, riprendendo in parte e in maniera ovviamente meno brillante la dicotomia «mondo dell’immaginazione/mondo della guerra (“degli adulti”)» da Lo spirito dell’alveare di Victor Erice, era un film che viveva nella totale consapevolezza del proprio studio di sé, ampliando insomma nella giusta misura l’aspetto politico e partigiano rispetto a quello delle suggestioni fantasy e horror, allora Crimson Peak e The Shape of Water ne sono dei diretti seguiti parzialmente fallimentari. Il problema di Crimson Peak era diverso, probabilmente collegato alle problematiche di produzione in cui spesso Del Toro incappa, poiché, tra scene di sesso inutili e finali tirati per le lunghe, la gestione del racconto sembrava più che altro controllata e messa a freno da una forza superiore – cosa che la sceneggiatura stessa giustificava dando alla protagonista, interpretata da Mia Wasikowska, il ruolo di scrittrice che perde controllo sullo sviluppo delle sue storie, che poi svaniscono e smettono di essere centrali nella strutturazione del suo personaggio. Però le idee c’erano, tra inquietanti fantasmi rosso sangue, distese innevate e incubi. The Shape of Water parte da un simile compromesso, che leghiamo all’ottica del processo che ci sembra che Del Toro stia tentando di attuare in tutti i suoi film compresi forse anche gli Hellboy e Pacific Rim: il tentativo di “sporcare” la fiaba. La fiaba gotica, già di per sé inquietante per necessità, è sporcata dai tumulti incestuosi, dall’amore sempiterno che si fa sempre più viscido fino a essere disgustoso – e qui sta Crimson Peak, con la sua prolissa ma giustificata imperfezione. The Shape of Water, invece, è un ben più delirante gioco di specchi, è un’attuazione cinematografica di un’ucronia cinefila in cui in ogni scena, potenzialmente, c’è una grande idea di montaggio, di regia, di fotografia, di interpretazione. È un po’ un’ennesima rilettura de La bella e la bestia, in cui la “bella”, la protagonista Elisa, è un’innocente e dolcissima donna muta di modesta sensualità ma dall’enorme sensibilità, mentre la “bestia” è un uomo-pesce dalle qualità divine, costruito con effetti pratici attorno all’attore Doug Jones, già collaboratore del regista in svariati precedenti ruoli non-umani.
Il problema di The Shape of Water, probabilmente, è nei momenti in cui Del Toro appunto decide di sporcare la fiaba, o anche nei momenti in cui decide di accentuarne gli aspetti utopistici e magici. La narrazione è destabilizzata da brevi momenti in cui subentra la sessualità, tra i rituali di masturbazione di Elisa e l’amplesso con dita sanguinanti del terribile Strickland (uno splendido, come sempre, Michael Shannon) con la moglie, tra la narrazione che Elisa fa a una collega di come funziona il membro del suo nuovo, particolare compagno e la rivelazione dell’omosessualità di uno dei protagonisti. Sono come dei pretesti, un po’ gratuiti e faciloni, per trasformare la fiaba in un tentativo di realizzazione della realtà contemporanea, come filtrata attraverso lo spessore magico e tragico dello stilema di racconto à la fratelli Grimm, e non sono nemmeno pochissimi i momenti che funzionano. Però è un discorso difficile da intraprendere poiché, al contrario, i momenti di violenza, anch’essi atti a destrutturare e inquinare la fiaba, sono invece spesso molto coerenti, tanto da giungere all’apice di tutto il film probabilmente in una sequenza che arriva poco prima della fine, in cui il grande Michael Shannon esplode in una furia omicida in mezzo al deserto durante un acquazzone. È come se l’idealistica neo-fiaba deltoriana necessitasse di un maggiore approfondimento di determinati aspetti rispetto ad altri, semplicemente seguendo la sensibilità (molto infantile, il che non è necessariamente un difetto) del regista più che il suo bisogno di mettere in scena un determinato qualcosa. La protagonista, con il suo mutismo, è un volto di una delicatezza indimenticabile, ma la costruzione del suo personaggio da un punto di vista più che altro strettamente fotografico sembra mischiarne i tratti classici, attraverso primi piani con luce non pratica come nei film anni ’50, con quelli moderni, quelli appunto eccentrici e liberali, quelli della non più sopportabile Amelie Poulain di Jeunet. Ciò a partire da scelte di montaggio la cui ipotetica poesia si perde nel reame del pacchiano, per esempio nella scena dell’inseguimento tra le due gocce d’acqua sul finestrino, che diventano, giustamente, una goccia sola, per poi lasciare spazio alla compenetrazione in dissolvenza dell’inizio umido del resto della storia.
È una storia di uomini deboli che ostentano forza e di donne fragili che in evidenza mostrano la propria debolezza, è una storia di emozioni ed è una storia di mitologie. Se vogliamo continuare col paragone con l’opera precedente del regista, possiamo dire che Crimson Peak aveva poche idee ma le usava sostanzialmente bene, mentre The Shape of Water di idee ne ha molte, forse troppe, e solo poche di esse sono usate in maniera abbastanza suggestiva. Certo, la sostanza è quella di una narrazione emotiva, e vi sono una serie di immagini significative anche densissime che rendono il possibile giudizio complessivo dell’opera particolarmente complesso: la sala cinematografica dell’Orpheum invasa dalla pioggia dell’acqua “informe” (e amniotica) che scorre tra la donna e il mostro al piano di sopra, i primi contatti a ritmo uova e di musica tra i due, i riferimenti biblici e mitologici (Dalila e Sansone, Tantalo). Ma spesso pare tutto sprecato, forse è perché l’immaginazione di Del Toro è scoppiettante al punto da non lasciare spazio ad altro se non a se stessa, quasi evitando ogni riflessione sul significato o sul significante, cosa in realtà a volte necessaria per capire la provenienza e il ruolo di quest’immaginazione nel cinema contemporaneo, e ponendo tutto l’accento su una pura emotività che, tendenzialmente, costringe il film a diventare noioso, trasformando la percezione delle sue due ore di durata in una percezione di un tempo decisamente più lungo. The shape of water avrebbe avuto infinite possibilità per porsi come metafora (il mutismo, la Guerra Fredda, la società di quegli anni, l’esercito, il mostro), ma ha preferito mettere in scena una storia d’amore e branchie, senza mai affondare davvero su possibili tematiche scomode. Da questo punto di vista ci pare esemplare citare una singola sequenza, forse quella più assurda di tutto il film: durante la convivenza tra Elisa e il suo compagno d’acqua salata, lei gli comunica col linguaggio dei segni un’intensa dichiarazione d’amore, dopodiché, con un cambio di luci che già mette in risalto l’approccio decisamente irreale della situazione, pronuncia verbalmente, con le corde vocali che non ha, la stessa frase. Ciò poi sfocia in un numero musicale in bianco e nero digitalizzato con tanto di ballo con l’uomo-pesce, in un set che si rifà ai mondi in cartongesso di Un americano a Parigi e compagnia bella, ma più che essere esplosione esemplare del recupero di quel cinema (come poteva essere anche La La Land, in un mo(n)do completamente diverso) diventa quasi patetico, eccessivo: la voce di Elisa già si sentiva attraverso quel sottile cambio di illuminazione, era già percepibile un superamento narrativo, e non c’era bisogno che il troppo stroppiasse. Però, a volte, è semplicemente destinato a capitare.
Nicola Settis