“Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi,
altri che lottano un anno e sono più bravi,
ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi,
e poi ci sono quelli che lottano tutta la vita:
essi sono gli imprescindibili”
Bertold Brecht
“Non vogliamo il potere, non siamo politici né vogliamo diventarlo. Combattiamo semplicemente per la democrazia”. È questa la dichiarazione d’intenti del movimento Y’en a Marre, letteralmente “ne abbiamo abbastanza”, eterogeneo gruppo di rapper e giornalisti nato in Senegal nel 2012 per opporsi alla ricandidatura del presidente uscente Abdoulaye Wade. Un presidente non voluto, accusato da più parti di brogli elettorali e nepotismo, nemico giurato della libertà di stampa e reso rieleggibile solo da quelle stesse modifiche costituzionali con le quali già si era allungato il mandato prima da 5 a 7 anni, e successivamente a 12. Del resto, il Senegal di quattro anni fa (ma oggi la situazione, in buona parte dell’Africa, non è certo cambiata) non era certo l’unico fra i Paesi del Continente Nero solo nominalmente democratico, ma in realtà falcidiato da una sorta di dittatura legalizzata, pronta a truccare elezioni, piazzare amici e parenti alle cariche più alte o, spesso, alla propria successione, creando una sorta di assolutismo per diritto di sangue espanso a macchia d’olio su una popolazione di fatto esclusa dai propri diritti democratici. The Revolution won’t be televised, presentato nella sezione Forum della sessantaseiesima Berlinale, è un film documentario che si rivela militante ancor prima che politico e diretto, una reale lotta al fianco degli attivisti, una rivoluzione sul campo che mostra gli eventi senza dimenticare la giusta contestualizzazione storica e politica.
Correlando una costante presenza sul campo fatta di infinite camminate, corse in fuga dalle forze governative, volantinaggi e concerti con interviste ai militanti e a chi sta loro vicino, in aggiunta a una allo stesso presidente Wade sicuro della rielezione presa in prestito da un canale televisivo francese, il film di Rama Thiaw si snoda fra arresti, montature giudiziarie e tanta voglia di libertà, raccontando dall’interno come la Resistenza possa diventare una rivoluzione, come la musica possa essere una cassa di risonanza inarrestabile, ma anche come la militanza politica non possa prescindere da una conoscenza storica. Il movimento Y’en a Marre nasce come un gruppo musicale rap apertamente schierato, che fa dei propri testi una denuncia delle malefatte governative propugnando apertamente la necessità di far rispettare la legalità e chiedendo che venga dichiarata nulla la ricandidatura di Wade. E del resto, come ricorda uno dei protagonisti, il rap è un modo puro e ancestale per tirare fuori ciò che alberga nel cuore e nella pancia, un genere che fa delle parole le proprie armi per scardinare il malessere, del proprio ritmo la capacità di parlare alle persone, dei propri testi una dichiarazione di attivismo, al quale ha fatto seguito un impegno da militanti davanti al quale non esistono più barriere né paure. Ed è curioso notare, in un’associazione squisitamente metafestivaliera, come questo film che trova nel rap buona parte della propria intrinseca forza sia stato presentato al Festival di Berlino a solo pochi giorni di distanza dal pessimo Chi-Raq di Spike Lee, dimostrando come a volte basti un briciolo di sincerità perché quella che nel film del regista di Atlanta risulta un’insopportabile e forzata macchietta qui assurga invece a centro nevralgico di un linguaggio libero, ancestrale e sincero, in grado di partire dalla pancia per giungere direttamente al cuore di chi lo ascolta.
Quello di Rama Thiaw è un film girato in larga parte dai propri protagonisti all’inizio della loro protesta nel 2012, forse più come documentazione che con l’idea di poterlo realmente chiudere ed esportare, e successivamente concluso con altri due blocchi di riprese nel corso di tre anni e con l’aiuto della giovane regista. Un film che riassume le fasi di un movimento facendone parte e vivendone in prima persona gli istanti, come se anche la macchina da presa prendesse vita e combattesse con gli attivisti nella loro lotta rigorosamente pacifica ma inarrestabile nel moto sociale innescato. The Revolution won’t be televised forse non brillerà per linguaggio cinematografico né per originalità, ma si rivela profondamente onesto e sincero, in grado di restituirci i suoi protagonisti nella loro personale e moderna battaglia, ricerca matta e disperatissima di un reale e decisivo passo avanti democratico. Partendo da Dakar, partendo da un presidente ineleggibile secondo costituzione eppure ancora candidato, partendo da uomini che ancora credono ciecamente nella giustizia, nella libertà, nella militanza, nella Resistenza.
Incorniciando la narrazione e le interviste in numerosi raccordi di montaggio a schiaffo o fuori fuoco che sfruttano la potenza insita delle immagini per comunicare le difficoltà e gli struggimenti di una lotta del genere, fra arresti senza colpe e l’incombenza di una giustizia a orologeria, emerge come il movimento prenda le mosse dalla leggendaria figura di Thomas Sankara, nell’immaginario comune il Che Guevara africano, politico e rivoluzionario teorico del panafricanesimo che combatté e poi fu presidente del Burkina Faso fra gli anni Settanta e Ottanta, impegnandosi in riforme radicali atte a sconfiggere la povertà e la denutrizione. Nel suo mito, alla cassa di risonanza musicale degli Y’en a Marre si sono ben presto aggiunti giornalisti e uomini stanchi di un governo illegittimo, che partono dal Senegal per giungere ben presto in Burkina Faso, un’espansione oltre confine che vuole dire rivoluzione sociale non violenta e nel segno della democrazia. Lo studio della Storia è fondamentale per capire il presente e per permetterne la comprensione agli altri. I militanti di Y’en a Marre, in testa Kilifeu e Keur Gui, parlano della necessità di informarsi e di studiare come unica via di fuga dalla delinquenza, parlano della fame di conoscenza come luce su una realtà capace di opprimere facendo leva sull’ignoranza, parlano di come la maggioranza della popolazione non si stesse rendendo minimamente conto della marcescenza della propria classe politica. Fra scontri non voluti con una polizia-fantoccio, l’attesa dei processi giocando alla playstation, manifestazioni di piazza, discorsi alla piazza e testi ficcanti, ma anche piccoli litigi fra amici e compagni di lotta forse indispensabili per trovare una linea comune, The Revolution won’t be televised mostra l’idea di un’Africa nuova, democratica, unita nei valori.
Rimane nel cuore l’incontro finale con un ormai anziano commilitone di Sankara, il cappello-simbolo della lotta in Senegal donato con una stretta di mano a un simbolo della lotta in Burkina Faso, rimane nel cuore quell’inno nazionale cantato a cappella durante la notte, assordante vagito di un Popolo che si ribella, combatte pacificamente le storture, veleggia da solo verso la piena democrazia. Del resto, il rap è rabbia, il rap è un modo di vivere, il rap è rivoluzione. E non si smette mai di essere rivoluzionari: si vive da rivoluzionari e si muore da rivoluzionari, forti delle proprie idee, forti della propria fame di giustizia, forti dei propri valori sociali fondanti e inalienabili. Che poi, guardando il film con occhi europei, sono (o quantomeno dovrebbero essere) anche i nostri. The Revolution won’t be televised è un film forse imperfetto, che si perde qua e là in qualche lungaggine e reiterazione di concetti già perfettamente chiari, forse troppo concentrato a non lasciare nulla di intentato a costo di perdere in ritmo specialmente nella seconda parte, forse troppo televisivo nella struttura. Ma capace di mostrare con chiarezza una situazione della quale si sa inevitabilmente troppo poco, rivelandosi come un documento storico senza dubbio interessante e forte di una piena e salda coscienza politica.
Marco Romagna