THE PIONEER (2018), di Umi Ishihara

Nasce come video installazione The Pioneer, ma forse, nei suoi ventisette minuti perfettamente narrativi e di certo non privi di significati, funziona ancora meglio come cortometraggio. Certo, proiettato in un cinema il progetto perde quei richiami geografici e sentimentali che la realizzatrice nipponica Umi Ishihara aveva originariamente innestato nello spazio e che si possono intuire dalle foto del lavoro installato, così come perde le luci sul muro e gli altri schermi che nel frattempo aggiungevano ulteriori stratificazioni ragionando ancor più specificatamente sul tempo. Ma non è certo un caso che, nel suo brulicare di spazi e di performance installative, l’International Film Festival Rotterdam abbia scelto di mostrare The Pioneer1 proprio nel buio della sala cinematografica, là dove guadagna in immersività, in luminosità, in potenza della metafora che mette in scena. Perché è indubbiamente un lavoro complesso e spiazzante The Pioneer, come una sorta di Fahrenheit 451 al contrario dove non ci sono né libri né fiamme, ma il punto è, proprio come in Bradbury, la memoria come bellezza, come umanesimo, come sentimento, come costante e disperata ricerca d’amore in una società sempre più a brandelli. Ma anche come intimità, come essenza, come personale partecipazione e quindi come vulnerabilità: esattamente ciò di cui lo Stato, sempre più invasivo, sempre più autoritario, ha bisogno.
È proprio per questo che, nel drammaticamente vicino futuro distopico e ultra-glamour di The Pioneer in cui il Giappone (evidentemente ancora di Shinzō Abe) è in attesa delle Olimpiadi di Tokyo 2020, all’opposto rispetto ai tempi dei pompieri incendiari di Bradbury distruttori di cultura nel Maccartismo degli anni Cinquanta il potere statale non può né vuole più permettere che i cittadini perdano la memoria, grimaldello con cui poterli ancor meglio controllare, con cui entrare ancora più in profondità nella loro sfera familiare ed emotiva. Tanto da sintetizzare e distribuire, obbligatoria, una pillola con la quale assicurare la futura memoria ai suoi cittadini, e da considerare gli eventuali smemorati, per via della loro imprevedibilità e della loro impermeabilità alla droga di Stato, alla stregua di una minaccia per la sicurezza nazionale, alla stregua di nemici da prendere, deportare e far sparire.

In questo contesto The Pioneer si pone come una dolce e dolente lettera d’amore, come una ballata di sentimenti e tristezza che immagina e mette in scena il rapporto ormai slabbrato fra una madre affetta da precoce Alzheimer, intrattenitrice da night da anni impegnata a nascondere la sua malattia in una sempre più difficile lotta quotidiana, e una figlia/narratrice ora ricordata e ora dimenticata, che cerca di diradare la foschia di una mente amata nel continuo e inevitabile immergersi e uscire dal tunnel della disperazione. Prima saranno le telefonate con risposte sempre più vaghe di una madre confusa, poi sarà l’andarla a trovare trovandola infastidita da un «interrogatorio» che nient’altro voleva sapere che la data di nascita, poi sarà lo scoprirla arrestata e portata via, e infine sarà il seguirla con un gps che nessuno sapeva nascosto in un orecchino, in una ricognizione cinematografica nell’esperienza stessa del dimenticare che non potrà che portare a una riconciliazione apparentemente impossibile e invece possibilissima, probabile, certa, perché è proprio l’amore l’unica luce che ancora può brillare nella nebbia, l’ultimo residuo sprazzo di bellezza nello sfiorire di una mente, il colpo di coda che rimette in gioco e fa ripartire una (ragione di) vita. Come il calore di quel nebuloso fumo rosso che l’artista Umi Ishihara, maggiormente nota nel mondo delle gallerie con lo pseudonimo UMMMI, pone di fronte ai volti inondati di fredda luce al neon blu come simbolo del vuoto, del fosco, dell’indistinto, e al contempo della resistenza amorosa alla dimenticanza.
Quella stessa resistenza amorosa che spinge la giovane narratrice alla ricerca della madre in un viaggio anomalo e disperato, che dalle atmosfere urbane e poi western di una distopia del disfacimento passa senza soluzione di continuità al mare ancora emblema della natura e poi agli interni alla moda, agli abiti più vistosi, ai caschetti attraverso i quali vedere il mondo con nuovi occhi o per lo meno dare al mondo una nuova immagine di sé e della propria bellezza, e poi ancora agli audaci cromatismi che, squarciando il diffuso grigiore dell’arresto, scaldano e raffreddano a piacimento l’immagine e quindi la memoria, immagine personale e collettiva di sé e degli altri. In attesa del ritorno, rampante e inevitabile, dell’amore. Perché forse non sarà possibile stoppare il declino, forse non sarà possibile evitare di subire le percosse e le violenze dello Stato, forse non sarà possibile evitare di soffrire, e forse non sarà possibile evitare, nella sofferenza, di dubitare. Ma quando un sentimento è troppo forte e troppo radicato, quando l’amore scorre nel sangue e nei pensieri di ogni giorno, anche l’eventuale dimenticare chi si ama non potrà che aprire al giorno dopo, in cui si scoprirà di nuovo come amare da capo, ripartendo dal principio in un rapporto dai legami troppo forti per essere ignorati, troppo saldi per essere dimenticati, troppo profondi per sparire davvero. Troppo potenti, nel loro lavoro sui sentimenti, sulla memoria, sull’estetica e sul linguaggio cinematografico, per non fare di The Pioneer un piccolo grande film, che non sarà semplice dimenticare. O che per lo meno, anche se dovesse essere dimenticato, prima o poi tornerà. È la sua natura, è il suo destino. È il suo saper brillare nella nebbia.

Marco Romagna

1 Un’apparizione quasi a sorpresa, quella di The Pioneer, annunciata sul catalogo ma non sul programma, ad anticipare nella doppia proiezione della sezione Bright Future il, nettamente meno riuscito, lungometraggio d’esordio della stessa regista e artista The garden apartment.
Official website http://www.ummmi.net/the-pioneer